Ripley (Netflix), il più recente adattamento del romanzo di Patricia
Highsmith in forma di miniserie, è stato stupendo. Scrive bene la BBC quando titola
la
propria recensione dicendo che è un capolavoro, la serie hitchcockiana che
Hitchcock non ha mai realizzato.
Non ho letto il libro, e
ho visto il solare film di Anthony Minghella del 1999, che se ne distanzia parecchio a quanto ne so, solo dopo questa
trasposizione televisiva, e ammetto senza problemi che quando avevo saputo che
era in produzione la mia reazione è stata “una cosa in meno da guardare”.
Proprio non è il mio genere, e lo avrei evitato. Poi ho visto l’atmosferico
promo di un programma girato completamente in bianco e nero, ho visto che
interprete principale era Andrew Scott (Sherlock,
Fleabag, Estranei), e ho scoperto che era stata ideata e interamente scritta
e girata da Steven Zaillian,
già autore di una delle mie miniserie preferite di tutti i tempi, The Night Of (ne ho scritto qui
nel 2016). Improvvisamente il mio atteggiamento è diventato “devo vederlo
immediatamente appena esce”. Non sono rimasta delusa.
ATTENZIONE SPOILER NEL PROSSIMO PARAGRAFO
Protagonista è l’anti-eroe
Tom Ripley, maestro dell’inganno e dei raggiri, che sopravvive con piccole
truffe. Siamo negli anni ’60 a New York e il danaroso industriale nautico Herbert
Greenleaf (Kenneth Lonergan) lo assume per trovare il figlio Richard “Dickie” (Johnny
Flynn), di cui lo crede amico, per riportarlo a casa. Questi si trova in Italia,
a dipingere e godersi la bella vita, ad Atrani, località della costiera
amalfitana, insieme alla sua compagna, Marge Sherwood (Dakota Fanning), che sta
scrivendo un libro fotografico sul paesino. Tom inizialmente si fa amica la
coppia, sebbene lei lo guardi sempre con sospetto. Poi, messo alle strette per
andarsene, uccide “Dickie” e ne assume l’identità e ne utilizza il conto in
banca, passando da una città all’altra del Bel Paese (Napoli, Roma, San Remo,
Palermo, Venezia) per depistare e sviare i sospetti, finendo per uccidere anche
un amico della coppia, Freddie Miles (Eliot Sumner), ragion per cui l’ispettore
romano Pietro Ravini (Maurizio Lombardi) inizia ad investigare. Tom nonostante
qualche passo falso, riesce sempre a scamparla, con grandissimo talento per la
truffa, ma riesce anche a farsi passare per chi non è e per essere una brava
persona perfino con la padrona di casa da cui affitta un lussuoso appartamento,
la Signora Buffi (Margherita Buy).
Anche in questo caso, come
nel precedente progetto per il piccolo schermo di Zaillian, assistiamo a un character study, nella forma di un
thriller psicologico noir, o neo-noir se preferite. Psicopatico o sociopatico
che sia Ripley, di fronte alle terribili azioni che commette finisci ugualmente
a tenere un po’ per lui, a sperare che la faccia franca, a rimanere con il
fiato sospeso per vedere come uscirà dall’ennesimo potenziale tranello, in
suspence ad ogni passo in cui è virtualmente braccato. La bella recensione di Lucy
Manga sul Guardian, rammenta come
Graham Greene avesse definito la Highsmith “poetessa dell'apprensione” e
qui si fa onore a tale definizione, anche se ci si concede anche l’occasionale
tocco umoristico. Di Tom poi ammiri l’intelligenza, ne comprendi la rabbia e
l’invidia che prova per gente meno talentuosa di lui che apparentemente ha
tutto senza fare nulla, solo perché appartiene a una classe più abbiente, ne percepisci la solitudine, l’isolamento (e non guasta
che buona parte del programma sia stato girato durante la pandemia). Un tema
importante è gioco forza quello dell’identità e anche il fatto che siamo
misteriosi a noi stessi; ci sono anche allusioni omoerotiche, sebbene meno
marcate rispetto al film, con il protagonista che ribadisce che gli piacciono
le ragazze, ma non sai se credergli e fino a che punto lui stesso ci creda o
sia consapevole di chi è veramente. Indossa perennemente una maschera.
La messa in scena è
elegantissima, con una fotografia mozzafiato, ogni inquadratura un quadro, una
cinematografia raffinata e artistica, una luce calibrata alla perfezione. Nel
film la passione del protagonista e filo conduttore è il Jazz, non presente nel romanzo, e qui la musica è
quasi assente, cosa che mi è stata fatta notare e a cui io non avevo prestato
attenzione, non essendo io una persona molto musicale. Non ho idea di come
fosse nel libro, ma nella produzione di Netflix in modo molto più pregnante e
coinvolgente a coinvolgere il protagonista è la pittura, e in particolare
Caravaggio, con i suoi intensi chiaroscuri – e qui i chiaroscuri sono tanto
visivi quanto psicologici – e con la sua vita tormentata e, in fuga da Roma
dopo l’accusa di omicidio, finita in tragedia. Ripley lo studia, va ad osservarlo
dal vivo, e si identifica con il grande maestro fra rinascimento e barocco, che
è un personaggio a tutti gli effetti ad un certo punto. Il parallelismo
funziona su più livelli (anche per la possibile omosessualità del pittore), con
varie opere che punteggiano le puntate. Il programma è attento allo stile, ai
costumi e al design (e a questo proposito si legga questo
pezzo su Tudum, che in generale fa
specifiche interessanti osservazioni estetiche) e riflette sul talento, sulla
bellezza e sull’arte; efficacemente, come interpretazione letteraria e pratica
ecfrastica, ci permette una riflessione intermediale, che come minimo coinvolge
televisione, letteratura e pittura (ma non solo), deponendo a favore del
fenomeno che Oskar Walzel agli inizi del XX° secolo definiva la wechselseitige Erhellung der Künste, la reciproca
illuminazione tra le arti.
Un cameo di John Malkovich,
che ha interpretato Ripley nel film Ripley's Game (2002), basato su un diverso
libro della Highsmith, è un bel tocco nell’episodio conclusivo, ma non c’è
dubbio che a brillare su tutti sia Andrew Scott, pacatamente tagliente, manipolatore e tanto inquietante quando
magnetico.