venerdì 30 settembre 2011

UNFORGETTABLE: non direi proprio


In Unforgettable (Indimenticabile), in onda dal 20 settembre sulla CBS, Poppy Montgomery (Without a Trace) interpreta Carrie Wells, una ex-detective della polizia che, a causa di una condizione medica nota come ipertimesia, ha una memoria davvero prodigiosa. Sfruttando questa sua capacità guadagna quel che può col gioco d’azzardo e per il resto lavora come volontaria in una casa di riposo dove si trova anche sua madre, che soffre di Alzheimer. Ad interpretare la madre è l’attrice Marilu Henner, che soffre di questo disturbo nella vita reale e che funge da consulente per la serie.
Un giorno, una vicina di casa di Carrie viene uccisa e lei aiuta nelle investigazioni il detective Al Burns (Dylan Walsh, Nip/Tuck), il poliziotto che segue le indagini e con cui ha avuto una storia, e l’intera squadra affidata al caso, Mike (Michael Gaston), Roe (Kevin Rankin) e Nina (Daya Vaydia). Attraverso epifanie in forma di flashback riesce a ricostruire gli indizi necessari a risolvere l’omicidio, ma allo stesso tempo riemergono per lei ricordi del caso che le ha fatto lasciare la polizia.
Ideato da Ed Redlich e John Bellucci sulla base di un racconto di J. Robert Lennon intitolato “The Rememberer”, è il classico telefilm pseudo-procedurale insulso e inutile, uguale a tremila altri, che è capace di durare cinque-sei stagioni. Mal fatto, noioso e completamente dimenticabile.

mercoledì 28 settembre 2011

THE X FACTOR americano: una copia di "American Idol"


La versione made in USA di The X-Factor, che ha debuttato lo scorso 21 settembre sull’americana Fox, anche se nella musica e nella sigla è uguale alla nostra, per ora sembra più una fotocopia di American Idol che non la versione italiana dello stesso talent: le grandi folle di fan e aspiranti star riprese in alte panoramiche (20.000 persone solo a Los Angeles), il palco rialzato di fronte ai 4 giudici illuminati con dietro il pubblico al buio, “la palette” stessa dei giudici: Simon Cowell e Paula Abdul che vengono entrambi dall’esperienza di Idol,  L.A. Reid e Nicole Scherzinger (l’ex leader delle Pussycat Dolls) nel ruolo che di là avevano Randy Jackson e Kara DioGuardi - anche fisicamente in fondo li ricordano. A passare per caso di lì senza guardare con attenzione, i programmi si sarebbero potuti davvero confondere.
I giudici sono stati presentati all’esordio  in modo epico, al rallenty con un incedere diretto e deciso verso le telecamere. Sono loro gli eroi. Il Ryan Seacrest della situazione, ma più defilato e per ora con meno interazione con i familiari,  è qui Steve Jones, ex-modello divenuto conduttore di successo in Inghilterra, ma virtualmente sconosciuto negli USA se non per le sue storie con Pamela Anderson ed Hyden Panettiere (così si dice). C’è una certa sobrietà per altro, niente opinionisti, coreografi o quant’altro a diluire e “talk-izzare” il programma come avviene in Italia. Gara pura.    
Le audizioni, questa vota fatte davanti a un pubblico, e montate in flash veloci, salvo qualche storia particolare, sono state un mix di talenti e di dilettanti allo sbaraglio. Si è cominciato con una grintosa tredicenne che ha cantato “Mercy”, Rachel Crow, che ha decisamente passato il turno, e si è cercato di essere rispettosi nei confronti di due senior (70 e 83 anni) che non ci si capacita possano aver avuto un passato come intrattenitori. La fascia di età a cui è aperto il concorso insomma è molto più ampia che non in American Idol. C’è stata l’abissale caduta di stile del concorrente che si è mostrato in tenuta full monty, con la Abdul che ha lasciato il palco per andare letteralmente a vomitare, e la risalita in vetta dell’ex tossico pulito da 70 giorni, Chris Rene, spazzino e padre di famiglia, che ha proposto un pezzo suo per testo e musica e ha conquistato tutti e commosso.
È già emersa fortemente una nota tipica della cultura americana e dell’etica nell’affrontare in queste cose: “have fun”, divertiti. E allo stesso tempo la promessa a lavorare sodo. Hanno cominciato a volare scintille di contrasto fra Cowell e Reid – probabilmente servirà loro bene in seguito. L’energia c’era, se non l’originalità. Quella aspettiamo di vederla quando le squadre sono fatte e la gara si divide nelle quattro categorie di maschi, femmine, cantanti over-30 e gruppi vocali. Allora forse sì, non sarà più American Idol. Al vincitore spetta un contratto discografico di 5 milioni di dollari e uno spot pubblicitario con la Pepsi (il cui logo è stato in gran preminenza durante tutta la serata).

lunedì 26 settembre 2011

THE PLAYBOY CLUB: privo di ispirazione


È completamente privo di ispirazione The Playboy Club, la serie sulle conigliette di Playboy ambientata nella Chicago dei primi anni ‘60, che ha debuttato sulla NBC lo scorso 19 settembre. Nel pilot vengono mostrate un po’ le ragazze – Maureen (Amber Heard), Janie (Jenna Dewan), Alice (Leah Renee), Brenda (Naturi Naughton) e la coniglietta-madre Carol-Lynne (Laura Benanti) – anche se non vengono nemmeno messe a fuoco a sufficienza da distinguerle troppo bene le une dalle altre, ad eccezione di bunny Maureen. Nell’insipida prima puntata Maureen viene aggredita da un avventore che vuole provarci, si difende, interviene un altro degli uomini che hanno la chiave del club, il piacente avvocato Nick Dalton (Eddie Cibrian, Sunset Beach, CSI Miami), che la difende. Ci scappa il morto, che purtroppo per lei era un boss della mala – la sua dipartita, lo concedo, è stata originale, lo stiletto di uno dei tacchi di lei gli si è infilato dritto dritto nella carotide. Il resto della scena non ha avuto senso: perché mai, visto che il suo scopo era quello di amoreggiare con la ragazza, avrebbe dovuto continuare ad aggredirla una volta che è entrato un altro uomo? Non mi ha convinto, come molto del resto di questa serie che vorrebbe emulare Mad Men, ma non ci arriva vicino nemmeno per sbaglio, e dove il povero Nick Dalton è già avvilito in partenza dalla critica come un’imitazione mal riuscita di un Don Draper di serie B. La serie è priva di immaginazione, ha un  dialogo piatto e non coinvolge.
Tim Goodman sull’Hollywood Reporter ha messo il dito sulla prima evidente piaga, il fatto che lo show mina alla base quello che strombazza di voler fare, ovvero di voler mostrare il club come un luogo di empowerment femminile. Ora, che lo sia è discutibile – Slate suggerisce di rileggersi un illuminante classico articolo di  Gloria Steinem in proposito, “I was a Playboy Bunny” -, ma non credo che sia necessariamente falso. Certo, dal programma non si evince di sicuro. La prospettiva femminile praticamente non c’è. All’esordio e in chiusura c’è un voice over di Hugh Hefner. Nell’incipit dice che ha ideato un luogo dove tutto era perfetto, la vita era magica e le fantasie diventavano realtà per tutti quelli che attraversavano la porta d’ingresso. Ehm… per gli uomini forse, dubito per quelle che ci lavoravano. E in seguito viene ripreso il concetto dicendo che era il solo posto al mondo dove poter essere chi si voleva essere. Se sei pagato per essere la fantasia di qualcun altro, non direi che puoi essere quello che vuoi. Ad un certo punto della storia, Nick mantiene l’espressione imperturbabile di sempre, ma la Maureen di cui sopra ha la faccia lunga perché ha appunto appena ucciso un uomo e con l’aiuto di Dalton ha fatto un salsicciotto avvolto in catene del cadavere e lo ha buttato in acqua. Una collega le chiede se stia bene. Lei risponde in un qualche modo vagamente evasivo e di tutta risposta la collega le chiede se vuole che le passi un Tampax. Perché chiaramente una donna crede che i soli problemi di un’altra donna siano legati al ciclo mestruale. Questa scena, se ce ne fosse stato bisogno, ha completamente seppellito la serie per me.
Un altro grande problema di questo telefilm ideato da Chad Hodge (Tru Calling) è che in teoria le conigliette dovrebbero rappresentare una fantasia maschile appagata, in qualche maniera, ma da qui non si direbbe. Per prima cosa, non ci sono sessualità e sensualità. La serie non solo non mostra nulla, cosa che può anche ben essere una scelta estetica legata anche all’epoca messa in scena,  ma nemmeno ammicca. Se dovessi basarmi sui primi 45 minuti direi che queste conigliette non fanno altro che servire ai tavoli, cantare e vendere sigarette. Che cos’è che le rende speciali? Che cosa fa sì che siano una specie di sogno desiderabile? Non solo non c’è prospettiva femminile, non c’è nemmeno prospettiva maschile in questo senso. In che cosa consiste quel quid che le rende un modo a parte? Personalmente non ho mai avuto simpatia per l’immagine di quello che rappresenta la coniglietta di Playboy. Trovo deliziosamente seducente, anche nella sua vaga innocenza, il look con le morbide codine pelose tonde e il cerchietto con le orecchie che mi fanno molta simpatia, ma l’idea che ho è quella di ragazze giovani, belle, formose e disponibili che come solo altro requisito devono non dico essere (non credo che lo siano necessariamente), ma sicuramente sembrare oche. Da un punto di vista intellettuale, una bunny me la figuro insomma come una sorta di anti-geisha. Questa è la mia idea, che magari è uno stereotipo falso – l’articolo della Steinem ad esempio, in parte lo conferma, in parte lo smentisce. Se non corrisponde alla realtà, vorrei sapere: qual è invece l’ideale incarnato dalle conigliette? Se invece corrisponde alla  realtà, vorrei sapere: che cos’è che cercano gli uomini in una donna di questo tipo, che tipo di desiderio appaga? In che cosa consiste appunto la fantasia? La serie non solo non risponde alle domande, nemmeno se le pone. Manca eccitazione.
Perfino l’idea che queste ragazze costituiscono una sfida ai mores sessuali dell’epoca e magari aiutano a rivoluzionarli manca completamente. Niente è problematicizzato, e non intendo lo star lì con aria metidabonda a riflettere sulle questioni della vita, ma lasciar intendere che c’è qualcosa dietro alla facciata. Ho contato tre volte - ma magari sono meno o più, non ci metto la mano sul fuoco – in cui viene menzionato il fatto che le ragazze devono sorridere. Un sorriso: bastava una cosa come questa, che ci fosse una delle bunny che non avesse voglia di sorridere e che in qualche modo facesse capire che le toccava farlo lo stesso, che il suo mondo non era tutto una favola, che il fatto di guadagnare tanti soldi aveva un prezzo. Non c’è alcuna emozione, alcun coinvolgimento invece.
E non parliamo nemmeno dell’epoca messa in scena, rappresentata in modo completamente inverosimile: Brenda è una coniglietta nera, la sola nell’ambiente, che ha meno problemi nei rapporti coi bianchi di quanto probabilmente non ne avrebbe nel 2011. Aspira al paginone centrale di Playboy e, indicando le sue generose tette, dichiara che contro di quelle non si discrimina. Magari. Temo proprio che la realtà fosse ben diversa. All’epoca in cui è ambientato il telefilm non sono passati nemmeno 10 anni dalla sentenza Brown v. Board of Education e del superamento della vincolatività di Plessy v. Ferguson, ovvero dalla fine ufficiale della segregazione razziale. E Dalton a un certo punto fa una battuta a senso omoerotico verso un altro del club. Direi che non era proprio un’epoca in cui fosse così liberi in questo senso. Il qualche caso direi che non lo si è ora, figurarsi negli anni ’60. The Playboy Club insomma non ha nemmeno i requisiti minimi indispensabili per essere vagamente accettabile.         

venerdì 23 settembre 2011

THE CUBE: un gioco di abilità fisiche


Per una volta non è trash il nuovo programma condotto da Teo Mammucari, e già questa è stata una sorpresa, e cosa abbastanza poco frequente, parteciparvi non richiede saperi particolari, ma abilità fisiche. In “The Cube” (Italia1, mercoledì, prima serata) i concorrenti giocano all’interno di un cubo di resina acrilica trasparente di 4x4x4 metri. Ci sono sette sfide e 9 vite per portarle a termine (ogni volta che non si supera la prova se ne perde una), e due possibili aiuti, “semplificare” o la possibilità di fare un test della prova che aspetta, tutto per vincere prima 1000 euro, poi 2000, poi 5000 fino a un possibile montepremi di 100.000 euro.

Il game show si basa su prove apparentemente elementari: prendere contemporaneamente due palline che cadono dal soffitto, lanciare delle palline all’interno di un bersaglio mobile, tenere in equilibrio una pallina mentre su una superficie percorrendo un percorso, raccogliere 25 sfere in 15 secondi e metterle in un contenitore, appoggiare un piccolo cubo sul pavimento lì dove è stato visto per ultimo in una serie di proiezioni… superarle però non è affatto semplice. “In bocca al cubo” ha augurato a un concorrente il padrone di casa nella prima puntata; “in cubo alla balena” ha risposto questi. Ci si può ritirare per non perdere il vinto, e a consigliare su che cosa è meglio ci sono familiari e amici presenti.

Ideato in Inghilterra da Adam Adler, è stato sviluppato per la versione italiana da Fatma Ruffini, ma in realtà - immagino per sfruttare la struttura scenografica già esistente – non è girato in Italia, ma a Londra dove a diventare protagonisti sono nostri connazionali ormai emigrati, cosa che già solo per questo assume un taglio originale. È sicuramente più divertente da fare che da guardare e se non c’è già la versione a videogioco, sicuramente dovrebbe esserci. Per lo spettatore ad aumentare la tensione sono il sapiente uso dell’attesa e del rallenty. La prossima settimana c’è la quarta e per ora ultima puntata.

giovedì 22 settembre 2011

UP ALL NIGHT: in piedi tutta la notte


I Brinkley hanno appena avuto una adorabile bambina. Reagan (Christina Applegate, Samantha Chi?) deve tornare al suo lavoro di produttrice di un talk show del daytime intitolato “Ava”, La sua assenza per maternità si è fatta sentire e la protagonista del programma, Ava appunto (Maya Rudolph)  - che è intesa come una sorta di versione al femminile di Jack Donaghy di 30 Rock -, la reclama. Il marito Chris (Will Arnett, Arrested Development) ha rinunciato al lavoro di avvocato per stare a casa a prendersi cura della bimba. Lavoro in casa o fuori in ogni caso, per entrambi c’è una certezza: nei mesi a venire è molto probabile che debbano stare Up All Night, in pieni tutta la notte, come recita il titolo della sit-com che ha debuttato lo scorso 14 settembre sulla NBC.
La premessa è sufficientemente realistica, ma poi le situazioni risultano poco credibili: Chris che deve telefonare alla moglie in panico perché non trova il formaggio al supermercato, entrambi che si prendono una colossale sbronza per passare a serata dell’anniversario a cantare al karaoke fino a tarda notte per fare come facevano prima dell’arrivo della bimba… E la parte relativa al lavoro di lei è inguardabile (una dieta di purificazione che va storta non è materiale da pilot, ma da crisi di idee alla  sesta stagione).
Che Reagan si sia immaginata che Matt Lauer – il noto giornalista conduttore del programma mattutino “The Today Show” – le parlasse dal televisore è stato anche divertente, e ho molto apprezzato il piccolo inside joke per cui Lauer nell’annunciare una notizia, prima che la neo-mamma cominciasse ad allucinare che si rivolgeva a lei, parla di una certa dottoressa Spivey. Emily Spivey (Parks and Recreation) è infatti l’ideatrice della serie. Gli interpreti sono bravi e c’è qualche momento dolce, forse come dramedy avrebbe anche funzionato, ma come sit-com questa nascita è stata davvero deludente.

mercoledì 21 settembre 2011

DOWNTON ABBEY: aristocrazia e servitù in un drama in costume


Un grande successo di critica e di pubblico, sia in madre patria, l’Inghilterra, dove è andato in onda sulla ITV, che negli Stati Uniti, Downton Abbey è un drama in costume ambientato nell’omonima sontuosa residenza  - nella realtà il Castello di Highclere nel Berkshire - che si concentra sulle vite dell’aristocrazia e della servitù che lo abitano. Custodi ne sono il conte e la contessa di Grantham, ovvero Robert Crawley (Hugh Bonneville) e la moglie americana Cora Crawley (Elisabeth McGovern) – “è il mio terzo genitore e quarto figlio” dice Robert della proprietà. Hanno tre figlie femmine in età da marito, la primogenita Lady Mary (Michelle Dockery), restia ai matrimoni che le vengono proposti,  la trascurata secondogenita Lady Edith (Laura Carmichael) e la terzogenita Lady Sybil (Jessica Brown-Findlay), politicamente impegnata e interessata a questioni femministe. La famiglia conta anche l’anziana madre vedova di Robert, Violet Crawley (la sempre superba Maggie Smith, che per questo ruolo ha vinto l'Emmy) che vive però per conto suo. Se i Crawley abitano i piani alti, nei piani bassi sta la servitù, che si adopera “con orgoglio e dignità”,  in primis il maggiordomo Carson (Jim Carter) e la governante Mrs. Hughes (Phyillis Logan) e una lunga schiera di valletti, inservienti e cameriere, la cuoca, l’autista.... A questi si unisce durante il pilot Bates (Brendan Coyle), vecchio commilitone di Robert, ora zoppo, assunto come suo valletto personale.

La prima stagione, che consta di 7 puntate, si apre nell’aprile del 1912, quando a Downton Abbey arriva la notizia dell’affondamento del Titanic. È questo l’evento che mette in moto le vicende, poiché nella tragedia periscono due cugini di Robert che avrebbero dovuto ereditare la proprietà. Le sue figlie infatti, in quanto femmine, non hanno alcun diritto in proposito, e ora questa spetta a un lontano parente che non conoscono. Sulle complicate questioni legali  messe in scena  si può vedere, volendo, questo chiaro articolo in proposito. Il nuovo erede, il giovane Matthew (Dan Stevens), fa l’avvocato e non sa nulla di aristocrazia e ci mette un po’ a scaldarsi all’idea di doversi assumere l’oneroso compito di dirigere Downton Abbey. Arriva al villaggio (1.02) con la madre, la volitiva signora Isobel (Penelope Wilton), che subito si offre come volontaria per lavorare nell’ospedale locale. La prima stagione si chiude nell’estate del 1914, con l’annuncio dello scoppio della prima guerra mondiale. È la fine di un’epoca e la tecnologia avanza (la luce elettrica, il telefono…). Qualcuno ha definito le atmosfere edoardiane, anche se di fatto re Edoardo VII è morto da due anni quando la serie ha inizio e siamo perciò nella Gran Bretagna del regno di Giorgio V.

Paragonata alla notissima Upstairs, Downstairs, e a Gosford Park, film scritto da quello che di questa serie è l’ideatore e sceneggiatore, Julian Fellowes – su di lui vale la pena una corposa intervista sul New York Times -  Downton Abbey lascia la sensazione di immergersi in un romanzo ottocentesco (in senso cronologicamente ampio), dove pagina dopo pagina ci lasciamo coinvolgere dalle vite dei protagonisti. Si può pensare a Thomas Hardy, ad Anthony Trollope (anche citato in 1.03), a William Thackery, a Jane Austen, a P.G Woodhouse, alle sorelle Brontë, e anche a Louisa May Alcott, visto che qualcuno ha accusato Fellowes di plagio (smentito) per una storia di una cuoca che diventa cieca (1.05 -1.07), che sarebbe stato copiato appunto dalla Alcott.

All’inizio forse quello che stupisce di più è la magnificenza della cinematografia (per cui la serie ha appena vinto l’Emmy), efficace sia nei momenti di frenesia – memorabile l’inizio del pilot con la servitù che prepara la casa – che nei momenti più quieti, sia negli interni che negli esterni. Anche se qualche errore sarà stato inevitabile, c’è una attenzione certosina ai dettagli. Nell’intervista al New York Times sopra indicata, si cita l’esempio di come fosse stata preparata la tavola con piatti, forchette e tovaglioli per mangiare una torta. L’autore ne è rimasto scontento, e ha chiesto che venisse modificata, perché la nobiltà dell’epoca avrebbe mangiato con le mani. Niente forchette. E lo show si avvale di uno storico proprio per fare attenzione a queste cose. Se questo è quello che colpisce in prima battuta, poi complice anche una recitazione di prim’ordine, a conquistare sono le vicende con qualche colpo di scena davvero memorabile (non lo rivelo, ma uno per tutti quello in 1.03) e la complessità dei personaggi.

Ci sono cospirazioni, amori, amicizie, tradimenti, segreti, sesso… Ciascun personaggio, come è stato scritto sul Los Angeles Times, è “sia emblematico che completamente umano” ed è rispettato con i propri sogni personali e  professionali, con le proprie debolezze e aspirazioni e tenendo conto che “tutti abbiano cicatrici, dentro e fuori” (1.03). E per ammissione dello stesso autore (sempre dall’intervista sopracitata), che dice di essere “dalla parte di ciascuno” dei personaggi, “una delle cose che abbiamo fatto bene in ‘Downton’ è stato che trattiamo i personaggi della servitù e della famiglia esattamente allo stesso modo. Alcuni di loro sono gentili, altri non sono così gentili, alcuni sono divertenti, altri non lo sono, ma non è la distinzione fra la servitù e la famiglia a demarcarlo”. Mirabile è anche lo studio del sistema delle classi britannico, una realtà lì particolarmente sentita e dove “la differenza fra un valletto e un domestico è tanto importante quanto la differenza fra una duchessa e una contessa” (in The Guardian).

Downton Abbey, che è stato insignito del Broadcasting Press Guild Award - il premio dell’associazione britannica che raccoglie i giornalisti che si occupano di televisione, radio e media – come miglior serie e miglior sceneggiatura nel 2010, e che ha appena vinto L’Emmy come miglior miniserie (oltre che per la regia e per la sceneggiatura), è tornata il 18 settembre con la sua seconda stagione. Otto sono in questo caso gli episodi previsti, che coprono il periodo dalla battaglia sulla Somme nel 1916 fino all’Armistizio nel 1918, ma è prevista anche una terza stagione ambientata negli anni Venti.

Sotto, la sigla della prima stagione. 

martedì 20 settembre 2011

MISS ITALIA 2011: Stefania Bivone



È Stefania Bivone (numero 18, già Miss Calabria) la vincitrice di Miss Italia 2011. Ha anche vinto la fascia di Miss Wella Professional.
Seconda classificata Mayra Pietrocola (numero 46).
Le serate, presentate con garbo da Fabrizio Frizzi nella spettacolare e luminosa scenografia di Marco Lanzavara, sono state lineari e classiche, quasi noiose, forse piatte e stantie a tratti ma almeno senza i momenti umilianti di passate edizioni. Molte delle ragazze, è evidente, sanno già muoversi bene da modelle in passarella, peccato che spesso non si possa dire lo stesso del modo in cui parlano. L’idea di farle presentare attraverso filmati in RVM, che ha conservato qualche papera e momento genuino, è stata vincente, evitando lo strazio di farlo loro fare in diretta.
L’aspetto più interessante che è filtrato da questa edizione è stato quello di riflessione meta-televisiva, dal discorso sulla fattura del programma stesso fatta a flash in diretta  da Bernardini di TV Talk, al ruolo sociale della figura della reginetta di bellezza nel contesto culturale attuale, con riferimento anche alla polemica di tre escluse per aver posato nude o quasi. La squalifica è corretta a mio parere perché giustificata dal regolamento, ma questo, ipocrita, andrebbe rinnovato e i presunti appelli al “pudore dell’anima” e all’”etica” li ho trovati fuori luogo e insensati, specie per i casi, come quelli delle ragazze presenti, che hanno posato per le foto in contesto lavorativo o per workshop fotografici senza aver nemmeno dato la liberatoria per l’uso delle proprie foto.
Uno studioso che ha concentrato la sua riflessione sui concorsi di bellezza, Richard Wilk, ha ben osservato come siano emblematici del paradosso della globalizzazione, aspirano all’universale essendo contemporaneamente radicati nelle istituzioni locali e nel contesto storico-sociale che ne altera idiosincraticamente la matrice globale. Questo è stato reso esplicito durante il concorso, che, nel mettere in discussione pubblicamente il decalogo di regole proposto dalla Mirigliani per le miss, ha smascherato anche quanto stereotipati siano i modelli di bellezza femminile posti come ideale. È stato un bene in questo senso l’apertura alla taglia 44.

lunedì 19 settembre 2011

Il "VASTO PAESE DELLE MERAVIGLIE" di Jane Lynch



La televisione è una “vast wasteland”, una “vasta terra desolata”, recita un famosissimo discorso del 1961 di Minow, che potete trovare in audio e trascrizione presso American Rhetoric. È stato perciò quasi commovente, oltre che molto divertente e intelligente, il numero musicale di apertura di questa edizione degli Emmy interpretato da Jane Lynch, per la quale la televisione è invece una “vast wonderland”, un “vasto paese delle meraviglie”. Particolarmente brillante, per il parallelismo (esplicito) a 50 anni di distanza da qual discorso, la parentesi sul set di Mad Men. E il finale del numero, che fa riferimento allo slogan della HBO “It’s not TV. It’s HBO”, è una a dir poco geniale, oltre che esilarante battuta. Meritata perciò la standing ovation. Mi alzo in piedi figurativamente ad applaudire anch’io.   

Sotto, lo spezzone in questione, con cui si è aperta la cerimonia:  

Gli EMMY del prime-time: i vincitori



 
In una cerimonia presentata da Jane Lynch (Sue Sylvester, Glee), andata in onda in Italia su Sky 1,  domenica notte (lunedì mattina dalle 2 per noi) sono stati consegnati gli Emmy del prime-time. Ecco di seguito i vincitori:



Miglior serie - drama: Mad Men

Miglior serie – comedy: Modern Family
 

Miglior attore protagonista - drama: Kyle Chandler, Friday Night Lights
Miglior attrice protagonista - drama: Julianna Margulies, The Good Wife

Miglior attore protagonista - comedy: Jim Parsons, The Big Bang Theory

Miglior attrice protagonista - comedy: Melissa McCarthy, Mike & Molly

Miglior attore non protagonista - drama: Peter Dinklage, Game of Thrones

Miglior attrice non protagonista - drama: Margo Martindale, Justified

Miglior attore non protagonista – comedy: Ty Burrell, Modern Family
Miglior attrice non protagonista – comedy: Julie Bowen, Modern Family
Miglior sceneggiatura – drama: Jason Katims, Friday Night Lights • Always
Miglior Sceneggiatura - comedy: Steve Levitan e Jeffrey Richman, Modern Family • Caught In The Act


Miglior Regia – drama: Martin Scorsese, Boardwalk Empire • Boardwalk Empire (Pilot)
Miglior Regia – comedy: Michael Alan Spiller, Modern Family • Halloween


Miglior Reality- competizione: The Amazing Race

Miglior serie - Variety, Music o Comedy: The Daily Show with Jon Stewart

Miglior sceneggiatura – Variety, Music o Comedy: The Daily Show with Jon Stewart

Miglior regia – Variety, Music o Comedy: Saturday Night Live – Don Roy King


Miglior Miniserie o Film TV: Downton Abbey
Miglior sceneggiatura – Miniserie o Film TV: Julian Fellowes - Downton Abbey  

Miglior regia – Miniserie o Film TV: Brian Percival - Downton Abbey

Miglior attrice protagonista – Miniserie o film TV: Kate Winslet, Mildred Pierce
Miglior attore protagonista - Miniserie o film TV: Barry Pepper, The Kennedy
Miglior attore non protagonista - Miniserie o film TV: Guy Pearce, Mildred Pierce

Miglior attrice non protagonista - Miniserie o film TV: Maggie Smith, Downton Abbey

domenica 18 settembre 2011

THE SECRET CIRCLE: la magia dell'adolescenza


In The Secret Circle, che ha debuttato lo scorso 15 settembre sull’americana CW, Cassie Blake (Brittany Robertson, Life Unexpected) è un’adolescente che si trasferisce a vivere con la nonna dopo che la madre è morta per un incendio scoppiato, si direbbe, per l’incantesimo di quello che scopriremo chiamarsi Charles Meade (Gale Harold, Queer As Folk, Hellcats). Arrivata nella nuova cittadina dove si è trasferita, Chance Harbor, nello stato di Washington (ma le riprese sono fatte in Canada) Cassie viene subito informata da alcuni compagni di scuola che, come loro, anche lei è una strega. Ora che è arrivata il “circolo”, che deve rimanere segreto, è completo e questo significa che ora hanno veramente potere.
Loro sono: Diana Meade (Shelley Hennig), la leader del gruppo; Adam Conant (Thomas Dekker), il ragazzo di Diana; Faye Chamberlain (Phoebe Tonkin), la più assetata di potere, la cui madre Dawn (Natasha Henstridge) è la preside della scuola; Melissa (Jessica Parker Kennedy),  la migliore amica di Faye; Nick Amstrong (Louis Hunter), un tipo solitario; e ora appunto Cassie. E loro sono  gli eredi di una tradizione che risale al 1692. Come loro, anche i loro genitori facevano parte di un circolo simile, ma qualcosa sedici anni prima è andato storto e hanno abolito la stregoneria perché non vogliono che i figli ripetano i loro stessi errori. C’erano in origine 6 famiglie e ciascuna famiglia ha un diario, un libro di incantesimi con cui loro ragazzi fin’ora hanno fatto pratica. Cassie è la discendente della sesta famiglia e quello che i ragazzi ora vogliono fare è un rituale che li leghi l’uno all’altro in modo da riuscire a controllare il loro potere. Cassie non crede a quello che sente e scappa, ma viene raggiunta da Adam che le dimostra i poteri magici che hanno. Fra loro due, in particolare, pare ci sia un destino già scritto. Da una parte degli adulti (Charles, Dawn) c’è un complotto per portare a termine un obiettivo e vogliono che il circolo, a sua insaputa, lo realizzi per loro.
Basata sua una serie di libri di L.J. Smith, l’autrice di The Vampire Diaries, chiamati I Diari delle Streghe in italiano, e sviluppata per la televisione da Andrew Miller (Imaginary Bitches) e con co-produttore esecutivo e occasionalmente sceneggiatore Kevin Williamson (Dawson’s Creek, The Vampire Diaries), la serie adolescenziale non si distanzia molto dagli altri programmi che portano la firma di Williamson. C’è un po’ di Dawson’s Creek qui insomma (specie nell’ambientazione) e parecchio di The Vampire Diaries: adolescenti carini e orfani (e l’assenza dei genitori qui si fa particolarmente esplicita), poteri sconosciuti, una piccola città piena di segreti, eredità spirituali di famiglia e diari, complotti, scuola e locali da frequentare insieme, una colonna sonora pop vagamente folk. La premessa non è proprio originalissima, tutto è già visto, gli attori sono per la maggior parte un po’ verdi, eppure…   
Eppure, nonostante si vedesse così fortemente il ricalco da altri telefilm, la serie mi ha conquistata. L’adolescente che è in me è stata davvero rapita dal momento magico nel bosco fra Cassie e Adam, con le gocce d’acqua sospese tutte intorno a loro e il bacio mancato. Ho trovato pieno di potenziale l’allegoria della magia come sesso – “Hai fatto magia con lei?” si irrita Diana quando scopre che il suo ragazzo Adam ha fatto un incantesimo con Cassie. “Praticano?” si sono preoccupati dei genitori sospettando che i figli facessero stregoneria insieme. Il tema del potere, di averlo dentro di sé, di come usarlo, di quando e come fermarsi, il fatto di esercitarlo in gruppo, il fatto di non essere da soli, la “saggezza” dei vecchi diari, le conoscenze degli adulti e lo scoprirle o meno da parte dei giovani, l’evitare gli errori passati sono tutti temi che la serie può sviluppare bene e che sono molto ben legati all’adolescenza. E nelle parti più dark, The Secret Circle mi ha molto richiamato Harry Potter, non per il tema della magia, come si potrebbe facilmente fraintendere, ma per il tono.     
Non c’è forse niente di cui entusiasmarsi televisivamente parlando, ma devo essere sotto l’incantesimo della storia perché ne vedo la magia.

venerdì 16 settembre 2011

RINGER: il ritorno di Sarah Michelle Gellar


Sulla base del solo pilot, Ringer, la nuova attesissima serie ideata da Eric Charmelo e Nicole Snyder (Supernatural) con cui ha debuttato ufficialmente la nuova stagione televisiva  autunnale americana il 13 settembre, che vede il ritorno sul piccolo schermo di Sarah Michelle Gellar (Buffy the Vampire Slayer), è parsa un po’ tiepida, ma la protagonista da sola è ragione sufficiente per dare a questo thriller un’opportunità per mostrare che tipo di costruzione intende erigere al di là delle fondamenta. La premessa ricorda un po’, e questo si sapeva in partenza, quella di The Lying Game, ma è il tono ad essere diverso e l’audience che si cerca è più matura.
Può valer la pena ricordare, in apertura, che  “Ringer” in americano significa “impostore” e l’espressione “dead ringer” significa “sosia”. La Gellar interpreta due gemelle, Bridget Kelly e Siobhan Martin. Bridget è un’ex-spogliarellista che sta seguendo un programma di recupero in 12-passi alla Narcotici Anonimi ed è l’unica testimone di un omicidio per cui ora l’FBI, e segnatamente l’agente Victor Machado (Nestor Carbonell, Lost), le promette protezione e il perdono di alcune illegalità. Senza dare spiegazioni, nemmeno al suo sponsor Malcom (Mike Colter), Bridget sparisce e lascia il Wyoming per raggiunge, nella metropoli newyorkese dove vive, la sorella Siobhan, donna ricchissima che non vede da anni. Escono in barca insieme, Bridget si addormenta e al suo risveglio non trova più Siobhan e crede che si sia suicidata. Per il timore che la vogliano uccidere per l’omicidio a cui assistito, non vede altra scelta che appropriarsi della vita delle sorella gemella, sua copia identica, facendosi passare per lei, e cercando di decifrare le relazioni di quest’ultima: con il marito Andrew (Ioan Gruffurdd) con cui i rapporti sono freddi e di facciata, a cui Sionbah non ha mai rivelato di avere una sorella, che ha una figlia adolescente che si è appena fatta cacciare da scuola e qualche affare non proprio cristallino che tratta segretamente al telefono; con la migliore amica Gemma (Tara Summers), che sospetta il tradimento del proprio marito; con il marito di lei Henry (Kristoffer Polaha), con cui scopre di essere lei quella con cui lui ha una relazione extraconiugale. Quando alla fine del pilot viene aggredita, scopre che in realtà non era lei-Bridget che cercavano, come credeva, ma sua sorella Siobhan di cui ora ha assunto il ruolo e che diversamente da quello che crede lei è ancora viva. Questo in sintesi è quello che accade nella prima puntata, ma sono solo le basi, appunto, il bello in teoria dovrebbe arrivare ora. A questo punto infatti si aprono molti quesiti, legati alle premesse di cui sopra.  
La recitazione da parte di tutti è solida, ma non pare eccezionale. L’atmosfera è tesa e vagamente cupa, a momenti quasi noiosa. La protagonista è fortemente isolata e questo potrebbe essere un tema importante. La musica al talvolta melodrammatico alla maniera dei vecchi film hollywoodiani con cui alcuni critici hanno percepito dei contatti: TV Guide ha menzionato una vecchia pellicola di Bette Davies in cui viene trattato il tema del doppio, un classico delle soap opera peraltro, come hanno ricordato in molti; il New York Times ha ripensato a La signora di Shangai con Rita Hayworth e Orson Wells nell’immagine dello specchio di Ringer, in cui una sorella di vede riflessa nell’altra.
Quello che spero di non rivedere sono i terrificanti effetti non troppo speciali delle scene in barca, davvero cheesy, finte e scadenti insomma, e i grugni del cattivo di turno, definito tale proprio dal cipiglio truce. Risibile. E, dei vari commenti fatti dai personaggi sullo scarso peso della protagonista, che anch’io ho trovato dimagrita, non posso dire di aver gradito quello dell’amica che dopo averle detto che sembrava anoressica le domanda quale sia il suo segreto. Che una qualunque serie, ma tanto più una con un target femminile giovane come la CW su cui va in onda il programma, lasci passare in modo trasversale il concetto che essere anoressici è qualcosa a cui aspirare mi ha davvero disgustata.   
A questo punto un classico del genere invece è la domanda fatidica, che per un momento fa sussultare l’impostore e qui viene posta da Andrew a Bridget che si finge Sionbah: “chi sei?”. È quello che vogliano scoprire anche noi.

martedì 13 settembre 2011

Gli EMMY delle ARTI CREATIVE: è BOARDWALK EMPIRE il più premiato


Domenica 10 settembre sono stati consegnati i cosiddetti “Emmy delle arti creative”, gli Emmy tecnici insomma. L’elenco dei vincitori lo trovate qui. Ad aggiudicarsi più statuette di tutti è stata la HBO e fra il programma che più ne ha portate a casa è stato Boardwalk Empire: che sia predittivo di quello che accadrà alla consegna dei prime time Emmys questa domenica che viene? In molti se lo sono chiesto. All’improvviso le prospettive del programma sembrano più rosee di quanto preventivato. Grande snobbata, a sorpresa, “Mildred Pierce”.
Sotto trovate le due sigle che hanno vinto: Game of Thrones per il miglior design e I Borgia per il tema musicale.




lunedì 12 settembre 2011

CHUCK: come una bibita gassata


Chuck (Zachary Levi) è ragazzo come tanti che lavora in un megastore, il “Buy More”, come commesso al reparto della tecnologia, insieme a un suo vecchio amico, Morgan (Joshua Gomez). La premessa ricorda un po’ il film 40 anni, vergine. Un suo vecchio compagno d’università, agente della CIA, prima di morire gli manda un’e-mail. Aprendola, a sua insaputa, tutti i contenuti segretissimi che conteneva si scaricano nella sua mente, e ora due altri agenti, la bellissima Sarah (Yvonne Strzechowski), della CIA pure lei, e il maggiore Casey (Alan Baldwin), di una agenzia rivale, se lo contendono per appropriarsi dei segreti governativi a cui lui riesce ad accedere attraverso dei flash che gli appaiono davanti agli occhi.

E’ una miscela di azione ed umorismo questo telefilm ideato da Josh Schwartz e Chris Fedak, che riparte dalla prima puntata su Italia1 (ore 15.35). La primissima scena contiene in nuce tutti gli elementi che caratterizzano la serie: due persone stanno mettendo in atto una fuga ad alto rischio, al buio. Poi di accende la luce e si capisce che Chuck, in compagnia del suo amico, sta cercando di scappare dalla sua festa di compleanno, organizzatagli dalla sorella anche con la speranza di fargli conoscere qualche ragazza e dimenticare quella che gli ha fatto battere il cuore all’università. Chuck si vede per quello che è, un “nerd” autoconsapevole di esserlo (Nerd Herd è la sezione del negozio per cui lavora), che suo malgrado di trova invischiato nelle più mirabolanti situazioni d’azione.

Memorabile, nel pilot, la scena in cui Chuck e Sarah ballano: lui non si accorge nemmeno mentre lei elimina i nemici fra una mossa e l’altra utilizzando armi nascoste negli stivali e nell’acconciatura. Chuck non è sempre all’altezza, ha paura e risulta ridicolo, ma sopravvive e finisce per essere un eroe, talvolta involontario. La critica in generale ha amato questa serie più di quando non abbia fatto io, che ne riconosco il piacere di una bibita gassata ricchissima di bollicine, ma non molto di più.

domenica 11 settembre 2011

L'11 SETTEMBRE nelle serie TV


Quando si pensa alla rappresentazione dell’11 settembre nelle serie TV, il primo pensiero va sicuramente a “Isacco e Ismaele”, Isaac and Ishmael in originale,  la puntata “a sé” di The West Wing, scritta da Aaron Sorkin, andata in onda due settimane dopo l’attacco terroristico prima dell’inizio ufficiale della tersa stagione della serie. E inevitabilmente anche a Third Watch e NYPD Blue che hanno affrontato la questione a caldo.
L’evento però si è fatto strada in molti telefilm e a ricordarcelo c’è una buona analisi di Maureen Ryan di cui vale la pena leggere un articolo in proposito, che ne cita di vecchi (24, Battlestar Galactica, Generation Kill, The Unit, Rubicon, MI-5, Over There, Sleeper Cell) e di nuovi (Homeland, Person of Interest).

venerdì 9 settembre 2011

Il BECHDEL TEST


Il blog Femminile Singolare ripropone in un post una riflessione annosa: “ci si aspetta che i film (e i libri, i telefilm, etc.) con protagonisti maschili siano adatti, e rivolti, a tutto il pubblico, che siano universali insomma (gli uomini sarebbero l’umanità intera, donne comprese, assimilate tout court all’esperienza maschile), mentre quelli con protagoniste femminili sono considerati rivolti solo alle donne (le donne sono solo donne, l’estensione a tutto il genere umano non vale per la prospettiva femminile, nemmeno per riflessione complementare alla maschile)”. E ricorda un test ideato già nel 1985, noto come Bechdel Test - dal nome dell’ideatrice (una fumettista) ma conosciuto anche con i nomi si Bechdel-Wallace Test, Mo Movie Measure, Bechdel Rule - che è una sorta di cartina tornasole della presenza delle donne al cinema o in TV che è interessante provare a fare nei film o nei programmi che si guardano, per rendersi conto se ci sono bias (pregiudizi, diciamo) di genere.

Il test chiede di porsi tre domande molto semplici: ci sono nel programma due o più personaggi femminili che abbiano un nome? Quei personaggi parlano fra loro? E, se  così, parlano qualcosa che non siano uomini? Sembrano regole sufficientemente semplici. La gran parte dei film però fallisce miseramente.

E la TV? Così a occhio e croce, si va molto meglio. Non è un caso che già nel ’95, la prima delle 10 ragioni indicate dalla rivista Entertainment Weekly per cui la televisione è meglio del cinema era che in TV le donne prosperano. Troppo spesso però si assiste a quello che viene chiamato il “Principio di Puffetta”, ovvero c’è una sola donna di fronte a una pletora di personaggi maschili, nonostante le donne costituiscano una metà circa dell’umanità, gli uomini hanno varie “personalità” mentre le donne sono “la femmina”, e quando ci sono più donne non sono che una versione “femminilizzata” di personaggi maschili già esistenti. Il Bechdel Test non è una garanzia che magari il film o il programma non siano poi misogini di per sé, ma è comunque un interessante spunto di riflessione.