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venerdì 15 novembre 2024

AGATHA ALL ALONG: quello che voglio vedere

Questo è quello che voglio vedere quando seguo una serie con delle streghe, ho pensato guardando Agatha All Along (Disney TV+): gustosa avventura con donne grintose, pentoloni (o in questo caso un lavandino a fare da pentolone) e pozioni magiche, formule rituali meglio se in latino, congreghe che si riuniscono con pentacoli e candele, l’occasionale volo con la scopa, e meglio se poi come in questo caso ci si lamenta pure che è diventata un simbolo commerciale e un’ovvia icona di domesticità della donna, senso di connessione con la natura e con la Dea, timore dei roghi, un po’ di giocoso divertimento con la classica iconografia…con qualche spruzzata di saggezza Wicca.

Non avevo alcun desiderio di approfondire il personaggio di Agatha, dopo la visione di WandaVision, che pure avevo apprezzato (ne avevo parlato qui), né ho un interesse particolare ad approfondire il mondo Marvel, ma le recensioni di questo spin-off ideato da Jac Schaeffer erano meritatamente buone: complice lo spirito di Halloween per cui è ideale, me la sono divorata con gusto. Nata come miniserie in 9 puntate, sembra possa avere stagioni successive: le aspetto. E sebbene riprenda elementi dalla serie madre, la mancata visione di quest’ultima non inficia l’apprezzamento di questa nuova creazione. Il viaggio dell’eroe con le sue tappe, le varie prove da superare e i suoi archetipi è una delle strutture narrative più collaudate che ci siano, e qui la si mette a buon frutto in modo prima di tutto fisico, dato che è un vero viaggio quello che intraprende la protagonista con le sue comprimarie.

Agatha Harkness (una versatile, magnetica Kathryn Hahn, Tiny Beautiful Things, I love Dick), che alla fine di WandaVision era stata intrappolata da un incantesimo di Wanda nella cittadina di Westview, nel New Jersey, nel ruolo di Agnes, una poliziotta, dopo tre anni si risveglia dall'incantesimo, grazie a un misterioso Ragazzino (così lo chiamerà, in inglese “Teen”) che le diventa famiglio, William Kaplan (Joe Locke, Heartstopper): un sigillo gli impedisce di rivelare la propria identità che si scoprirà nel corso delle vicende. Agatha si rende conto che i suoi poteri sono svaniti e con lui, che le chiede di percorrerla insieme, decide di intraprendere la leggendaria Strada delle Streghe, di cui parla una famosa ballata, la The Ballad of the Witches' Road, cantata più volte nel corso della stagione (qui in una delle versioni, e vi sfido a non cantarla voi stessi alla fine).

L’obbiettivo è riconquistare le proprie capacità magiche, inseguita dalle Sette di Salem, storiche nemiche. Prima però deve riunire una congrega. Si uniscono a lei Jennifer Kale (Sasheer Zamata), esperta di pozioni; Alice Wu-Gulliver (Ali Ahn), strega protettrice la cui famiglia è afflitta da una maledizione generazionale che la vede perseguitata da un demone; Lilia Calderu (la mitica Patti LuPone), una strega siciliana di 450 anni esperta di tarocchi e divinazione. Nella necessità di una “strega verde”, una il cui punto di forza è il rapporto con la terra, Agatha con una scusa si trascina dietro una vicina di casa che non sa nulla di magia, Sharon Davis (Debra Jo Rupp), che lei continua a chiamare “signora Hart”, dal nome del personaggio che era stata costretta ad interpretare in WandaVision. Alla scomparsa di quest’ultima, la sostituisce la ben più temibile Rio Vidal (la azzeccatissima Aubrey Plaza – la ricordate in Legion, al di là di Parks and Recreation e The White Lotus?), ex amante di Agatha e, come si scoprirà, incarnazione della Morte.

Questa produzione funziona da un punto di vista narrativo grazie a una sfacciata, feroce antieroina la cui backstory viene scavata dando profondità al personaggio e al suo dolore oltre alla avvincente avventura che, mescolando tragedia e commedia, coinvolge i personaggi in “trial”, in prove, in test, volte a mettere in campo la propria abilità per poter passare alla tappa successiva. Ci sono colpi di scena fino in ultimo, mai un tempo morto, e non guasta che ad ogni nuova challenge contro il tempo (che viene scandito in un pressante conto alla rovescia) le protagoniste si ritrovino in ambientazioni con outfit ogni volta diversi. Buona parte dell’attrattiva è stata anche dovuta alla capacità di giocare con l’estetica stregonesca, inspirandosi anche a personaggi leggendari con una buona dose di riferimenti pop, a partire dall’iconico Il Mago di Oz, che viene richiamato in più di un’occasione, a Maleficient, ad Alice nel Paese delle Meraviglie, fino alle suggestioni della brillante sigla finale (qui, e qui con una spiegazione in dettaglio) – non c’è invece una scena post-titoli di coda, una tradizione di queste produzioni che in questo caso non è stata volutamente rispettata.

lunedì 7 agosto 2023

MAYFAIR WITCHES: sedativa, sbiadita, priva di magia

È stata profondamente deludente Mayfair Witches (AMC, AMC+), basata su una trilogia degli anni ’90 di Anne Rice: è risultata insulsa e stanca nonostante da un punto di vista del plot non mancassero i twist; anche il “cattivo della situazione” non sono riuscita a percepirlo così magnetico e irresistibile come hanno cercato di vendercelo. 

La dottoressa Rowan Mayfair (Alexandra Daddario, The White Lotus), una neurochirurga che lavora a San Francisco, ha l’impressione di avere dei poteri particolari. Dopo la morte della madre adottiva Elena (Erica Gimpel, Saranno Famosi) scopre che è realmente così: fa parte di una famiglia di potenti streghe. Vola perciò a New Orleans dove la sua vera madre, Deirdre (Annabeth Gish), si trova in uno stato catatonico, tenuta così da una vecchia zia, Carlotta (Beth Grant) per evitare che nel mondo si liberi il male a cui lei è legata, ovvero Lasher (Jack Huston), una entità mutaforma che solo lei può vedere nella sua forma reale ed evocare, ma che ha enorme potere. Con la scomparsa anche della madre biologica ed ereditando una collana con un ciondolo a forma di chiave — che viene spiegato con flashback di un villaggio scozzese del XVII secolo che svela il passato delle donne della sua famiglia che si attirano l’ostilità delle autorità religiose del tempo — Rowan si lega a Lasher. È lei infatti la “designata”, l’erede dei poteri della sua linea di sangue, ed è la tredicesima, cosa che la rende depositaria di una profezia che la vede come “il portale” per maggiori poteri al malevolo Lasher e l’inizio di una nuova era. La giovane dottoressa conosce anche lo zio Cortland (Harry Hamlin, L.A. LAW) e si rende conto che è gravemente malato. Diventa presto amica di Ciprien Grieve (Tongayi Chirisa), un agente del Talamasca, una organizzazione segreta che si occupa di osservare questi fenomeni, che è stato assegnato a Rowan e che ha lui stesso dei poteri: a toccare qualunque oggetto o superficie riesce a vedere eventi che sono accaduti collegati proprio a quell’oggetto. Fra i due nasce anche un’attrazione sentimental-sessuale.

Ideata e scritta da Michelle Ashford ed Esta Spalding, la serie nelle battute iniziali è sembrata il peggio  di alcune soap opera degli anni ’70 e ’80: penso in particolare a Deirdre tenuta in stato catatonico (mi è venuta in mente Febbre d’Amore, dove era stata costruita in realtà un’appassionante storia su questa premessa, ma anche a General Hospital, dove Laura è finita in quello stato in più di un’occasione, e sicuramente di esempi ce ne sono altri), o Rowan che gode per interposta persona del rapporto sessuale fra la madre e Lasher (molto Santa Barbara in uno dei suoi momenti più deprecabili nella storia Cruz-Eden-Sandra del 1989).  

Il potenziale per affrontare tematiche di peso c’era: il rapporto delle donne con il potere proprio e altrui, l’oppressione, la misoginia (e un tentativo in questa direzione con un gruppo di militanti anti-stregoneria del presente è stato fatto), l’eredità spirituale delle donne le une per le altre, l’interrogarsi sulla propria identità,  la necessità di vedere in se stessi parti che non si vogliono vedere, l’asservimento al volere altrui, il coraggio di riconoscere i propri desideri e saperli frenare o usare, il perdere il controllo…

Il casting non mi ha convinta, l’uso dei colori ha un che di stinto, la location è stata sprecata (quanto ho rimpianto Treme nel vedere la second-line, come viene chiamata, del tipico funerale di New Orleans), i dialoghi sono espositivi e nulla di più, non c’è atmosfera, la recitazione pure è deludente (salvo la Gimpel e la Grant), anche perché con il materiale a disposizione non è che potessero fare miracoli, i personaggi sono piatti e privi di personalità… Un melodramma sovrannaturale che cerca di essere un po’ horror, un po’ storia d’amore, ma risulta solo sedativo e sbiadito. Una serie priva di magia.

lunedì 26 novembre 2018

A DISCOVERY OF WITCHES: anemico e privo di magia



È anemico e privo di magia A Discovery of Witches, descrizioni non proprio incoraggianti considerato che si tratta di una serie con vampiri e streghe. Già dal pilot sembrava un trippone a tinte rosa alla maniera dei film per la TV basati sui libri di Rosamunde Pilcher o affini, ma alcune recensioni dicevano che la narrazione cominciava a prendere quota al terzo episodio (sarà che c’è il primo bacio fra i protagonisti) e ho tenuto duro e continuato la visione. Talvolta programmi claudicanti all’inizio svelano il proprio potenziale in corso di via, a darci un’opportunità. Non in questo caso.

Basata sulla trilogia All Souls di Deborah Harkness  - la prima stagione corrisponde al primo libro, “Il libro della Vita e della Morte” in italiano - questa produzione britannica vede come protagonisti una potente strega riluttante ad usare i propri poteri, Diana Bishop (Teresa Palmer), professoressa di storia a Yale che studia alchimia ad Oxford, e Matthew Clairmont (Matthew Goode), vampiro ultracentenario e professore di biochimica. Diana, inconsapevolmente, facendo ricerca alla Biblioteca Bodleiana, riesce a riesumare un antico testo magico che tutti vogliono, Ashmore 782, e finisce per attirare l’attenzione di Matthew. I due, travolti dall’attrazione e dalla passione, si innamorano perdutamente, nonostante ci sia uno specifico divieto a che streghe e vampiri, fra cui ci sono contrasti che si perdono nella notte dei tempi, intreccino legami.   

La narrazione e i dialoghi sono scialbi e tediosi, e a dispetto degli studi della protagonista, non c’è alcuna alchimia fra lei e la sua controparte maschile, un vero peccato mortale lì dove quella è in fondo la vera raison d’être che giustifica le intricate vicende di demoni assortiti e le preoccupazioni della potente “congregazione”.  Quando fanno l’amore per la prima volta è tutto molto tiepido e dimenticabile. Ci si rifà un pochino nel settimo episodio, dove la regia di Sara Walker mette un po’ più di passione e verve nel rapporto intimo fra i due. La puntata tutta si eleva un poco dalle precedenti, con Diana che, insieme alle zie, “rivede” i suoi genitori, tragicamente scomparsi, e fa delle scoperte sul suo passato.

In apparenza la serie è patinata, con gloriosi setting scenografici, a partire dall’italianissima Venezia, ma non si può nemmeno dire che la cinematografia riesca ad elevarli al di là di un banale sfondo descrittivo di servizio. La recitazione è dignitosa per non dire proprio buona (penso alle zie in particolare), ma l’unico a spiccare è solo Matthew Goode che non solo è attraente e affascinante, ma mostra un maggiore investimento nel personaggio. Diana in proporzione è spenta. Non credo sia solo una mia  risposta ormonale giudicare più convincente lui di lei.
    
C’è poco da cercare metafore e sottotesto qui - si potrebbe facilmente parlare di “miscegenation”, mescolanza razziale cioè, amicizia, potere – perché è il testo proprio ad essere manchevole. La trama c’è, ma non c’è molto di più che si possa dire. La prima stagione termina con un grosso cliffhanger destinato a risolversi con la seconda stagione, che però personalmente non sarò così masochista da guardare.

Per utilizzare un termine davvero tecnico: una lagna.   

domenica 4 maggio 2014

SALEM: privo di gusto e di magia

 
Salem, la prima serie narrativa originale di WGN America, ideata da  Brannan Braga (Enterprise, Terra Nova) e Adam Simon,  ha qualche elemento visuale originale e qualche guizzo creativo qui e lì, ma rimane piatta e indecisa su che cosa vuole essere: un fantasy dove le streghe esistono e si dedicano a oscuri rituali,  nascondendosi fra la popolazione comune o una critica di un periodo storico che scaricava nella caccia alle streghe il proprio panico morale, la propria misoginia e le proprie fobie e isteria.
Siamo nel 1685 nella nota cittadina del titolo: Isaac Walton (Iddo Goldberg) è messo alla gogna, frustato e marchiato con la “F” di fornicatore sulla fronte per aver guardato una donna nuda e averla baciata, mentre George Bibley (Michael Mulheren) tuona contro i peccati suoi e della ragazza. Fra il pubblico c’è Mary Sibley (Janet Montgomery), una potente strega che, all’insaputa di tutti, è incinta di John Alden (Shane West). Lui parte per la guerra e lei chiede alla sua fidata Tituba, (Ashley Madekwe, Revenge), di praticarle una sorta di aborto di magia nera. Flash forward a sette anni dopo: Mary, è sposata con George, ridotto su una sedia a rotelle, e John, che lei credeva fosse morto in guerra, torna, in una città puritana dove il predicatore Cotton Mather (Seth Gabel), tutto Bibbia di giorno e prostitute di notte, giuda la caccia alle streghe. Il politico più prominente in città è però un progressista, il magistrato Hale (Xander Berkeley), che vuole un equo trattamento delle streghe, e sua figlia Anne (Tamzin Merchant) è attratta da John.
Molte scene apparentemente non hanno senso, la scrittura e faticosa e anche la recitazione ne risente. Forse ha il potenziale per diventare un piacere colpevole, ma dal pilot, il risultato alla fine è trash, privo di gusto e di magia.

martedì 21 gennaio 2014

WITCHES OF EAST END: un divertimento scacciapensieri


 
Sono state un piacere colpevole le 10 puntate di Witches of East End (sull’americana Lifetime e su FoxLife in Italia con il titolo di Le Streghe dell'East End), rinnovata per una seconda stagione di 13 puntate che andranno in onda nel 2014, e basata sui best-seller di Melissa de la Cruz. Non è sicuramente alta televisione, ma le vicende stregonesche hanno la golosità di quello che si richiede ai programmi-caramella, come li chiamava Aaron Spelling: incantesimi e malefici e pozioni e frasi in latino e trasformazioni... con una spruzzata di romanzo rosa. Anche qui ciascuna strega ha un potere che le è specifico, ma non si limita noiosamente solo a quello, come poteva essere in Streghe, ma si abbraccia con gusto anche kitsch quello che è l’immaginario preso come sfondo.    
Protagonista è la famiglia Beauchamp: Joanna (Julia Ormond, vincitrice di un Emmy per Temple Grandin) è una strega immortale che si vede sempre le figlie morire giovani per poi rinascere. In questa vita per cercare di spezzare questa catena ha deciso di non rivelare loro chi sono e che poteri hanno: Freya (Jenna Dewan-Tatum, The Playboy Club) lavora come barista ed è fidanzata con un danaroso medico, Dash Gardiner (Eric Winter, Days of Our Lives), ma è inspiegabilmente attratta dal fratello di lui, Killian (Daniel DiTommasso) su cui ha sogni ricorrenti prima ancora di conoscerlo; Ingrid (Rachel Boston, American Dreams) è una bibliotecaria con aspirazioni di studiosa accademica che ha studiato la stregoneria nella storia della sua città. La sorella Wendy (Mädchen Amick, Twin Peaks) spinge Joanna perché insegni alle figlie a usare i propri poteri, un’eredità preziosa, e lei si vede costretta a rivelare la verità quando sono in pericolo. Qualcuno, mutando forma, assume il suo aspetto e cerca di portarla alla rovina. Delle vicende fa parte anche Penelope (Virginia Madsen, candidata all’Oscar nel 2005), madre di Dash e Killian, che si scoprirà legata al passato delle donne.
Ricca di mitologia e con echi di Buffy, anche nel casting delle guest star, sebbene non si sia a quei livelli, la storia è costruita a dovere, il cast è fisicamente un belvedere e la recitazione è sicuramente dignitosa. Più divertimento scacciapensieri che grandi metafore esistenziali, ma ci sta anche quello ogni tanto.
Sotto, un promo.

domenica 18 settembre 2011

THE SECRET CIRCLE: la magia dell'adolescenza


In The Secret Circle, che ha debuttato lo scorso 15 settembre sull’americana CW, Cassie Blake (Brittany Robertson, Life Unexpected) è un’adolescente che si trasferisce a vivere con la nonna dopo che la madre è morta per un incendio scoppiato, si direbbe, per l’incantesimo di quello che scopriremo chiamarsi Charles Meade (Gale Harold, Queer As Folk, Hellcats). Arrivata nella nuova cittadina dove si è trasferita, Chance Harbor, nello stato di Washington (ma le riprese sono fatte in Canada) Cassie viene subito informata da alcuni compagni di scuola che, come loro, anche lei è una strega. Ora che è arrivata il “circolo”, che deve rimanere segreto, è completo e questo significa che ora hanno veramente potere.
Loro sono: Diana Meade (Shelley Hennig), la leader del gruppo; Adam Conant (Thomas Dekker), il ragazzo di Diana; Faye Chamberlain (Phoebe Tonkin), la più assetata di potere, la cui madre Dawn (Natasha Henstridge) è la preside della scuola; Melissa (Jessica Parker Kennedy),  la migliore amica di Faye; Nick Amstrong (Louis Hunter), un tipo solitario; e ora appunto Cassie. E loro sono  gli eredi di una tradizione che risale al 1692. Come loro, anche i loro genitori facevano parte di un circolo simile, ma qualcosa sedici anni prima è andato storto e hanno abolito la stregoneria perché non vogliono che i figli ripetano i loro stessi errori. C’erano in origine 6 famiglie e ciascuna famiglia ha un diario, un libro di incantesimi con cui loro ragazzi fin’ora hanno fatto pratica. Cassie è la discendente della sesta famiglia e quello che i ragazzi ora vogliono fare è un rituale che li leghi l’uno all’altro in modo da riuscire a controllare il loro potere. Cassie non crede a quello che sente e scappa, ma viene raggiunta da Adam che le dimostra i poteri magici che hanno. Fra loro due, in particolare, pare ci sia un destino già scritto. Da una parte degli adulti (Charles, Dawn) c’è un complotto per portare a termine un obiettivo e vogliono che il circolo, a sua insaputa, lo realizzi per loro.
Basata sua una serie di libri di L.J. Smith, l’autrice di The Vampire Diaries, chiamati I Diari delle Streghe in italiano, e sviluppata per la televisione da Andrew Miller (Imaginary Bitches) e con co-produttore esecutivo e occasionalmente sceneggiatore Kevin Williamson (Dawson’s Creek, The Vampire Diaries), la serie adolescenziale non si distanzia molto dagli altri programmi che portano la firma di Williamson. C’è un po’ di Dawson’s Creek qui insomma (specie nell’ambientazione) e parecchio di The Vampire Diaries: adolescenti carini e orfani (e l’assenza dei genitori qui si fa particolarmente esplicita), poteri sconosciuti, una piccola città piena di segreti, eredità spirituali di famiglia e diari, complotti, scuola e locali da frequentare insieme, una colonna sonora pop vagamente folk. La premessa non è proprio originalissima, tutto è già visto, gli attori sono per la maggior parte un po’ verdi, eppure…   
Eppure, nonostante si vedesse così fortemente il ricalco da altri telefilm, la serie mi ha conquistata. L’adolescente che è in me è stata davvero rapita dal momento magico nel bosco fra Cassie e Adam, con le gocce d’acqua sospese tutte intorno a loro e il bacio mancato. Ho trovato pieno di potenziale l’allegoria della magia come sesso – “Hai fatto magia con lei?” si irrita Diana quando scopre che il suo ragazzo Adam ha fatto un incantesimo con Cassie. “Praticano?” si sono preoccupati dei genitori sospettando che i figli facessero stregoneria insieme. Il tema del potere, di averlo dentro di sé, di come usarlo, di quando e come fermarsi, il fatto di esercitarlo in gruppo, il fatto di non essere da soli, la “saggezza” dei vecchi diari, le conoscenze degli adulti e lo scoprirle o meno da parte dei giovani, l’evitare gli errori passati sono tutti temi che la serie può sviluppare bene e che sono molto ben legati all’adolescenza. E nelle parti più dark, The Secret Circle mi ha molto richiamato Harry Potter, non per il tema della magia, come si potrebbe facilmente fraintendere, ma per il tono.     
Non c’è forse niente di cui entusiasmarsi televisivamente parlando, ma devo essere sotto l’incantesimo della storia perché ne vedo la magia.