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lunedì 7 agosto 2023

MAYFAIR WITCHES: sedativa, sbiadita, priva di magia

È stata profondamente deludente Mayfair Witches (AMC, AMC+), basata su una trilogia degli anni ’90 di Anne Rice: è risultata insulsa e stanca nonostante da un punto di vista del plot non mancassero i twist; anche il “cattivo della situazione” non sono riuscita a percepirlo così magnetico e irresistibile come hanno cercato di vendercelo. 

La dottoressa Rowan Mayfair (Alexandra Daddario, The White Lotus), una neurochirurga che lavora a San Francisco, ha l’impressione di avere dei poteri particolari. Dopo la morte della madre adottiva Elena (Erica Gimpel, Saranno Famosi) scopre che è realmente così: fa parte di una famiglia di potenti streghe. Vola perciò a New Orleans dove la sua vera madre, Deirdre (Annabeth Gish), si trova in uno stato catatonico, tenuta così da una vecchia zia, Carlotta (Beth Grant) per evitare che nel mondo si liberi il male a cui lei è legata, ovvero Lasher (Jack Huston), una entità mutaforma che solo lei può vedere nella sua forma reale ed evocare, ma che ha enorme potere. Con la scomparsa anche della madre biologica ed ereditando una collana con un ciondolo a forma di chiave — che viene spiegato con flashback di un villaggio scozzese del XVII secolo che svela il passato delle donne della sua famiglia che si attirano l’ostilità delle autorità religiose del tempo — Rowan si lega a Lasher. È lei infatti la “designata”, l’erede dei poteri della sua linea di sangue, ed è la tredicesima, cosa che la rende depositaria di una profezia che la vede come “il portale” per maggiori poteri al malevolo Lasher e l’inizio di una nuova era. La giovane dottoressa conosce anche lo zio Cortland (Harry Hamlin, L.A. LAW) e si rende conto che è gravemente malato. Diventa presto amica di Ciprien Grieve (Tongayi Chirisa), un agente del Talamasca, una organizzazione segreta che si occupa di osservare questi fenomeni, che è stato assegnato a Rowan e che ha lui stesso dei poteri: a toccare qualunque oggetto o superficie riesce a vedere eventi che sono accaduti collegati proprio a quell’oggetto. Fra i due nasce anche un’attrazione sentimental-sessuale.

Ideata e scritta da Michelle Ashford ed Esta Spalding, la serie nelle battute iniziali è sembrata il peggio  di alcune soap opera degli anni ’70 e ’80: penso in particolare a Deirdre tenuta in stato catatonico (mi è venuta in mente Febbre d’Amore, dove era stata costruita in realtà un’appassionante storia su questa premessa, ma anche a General Hospital, dove Laura è finita in quello stato in più di un’occasione, e sicuramente di esempi ce ne sono altri), o Rowan che gode per interposta persona del rapporto sessuale fra la madre e Lasher (molto Santa Barbara in uno dei suoi momenti più deprecabili nella storia Cruz-Eden-Sandra del 1989).  

Il potenziale per affrontare tematiche di peso c’era: il rapporto delle donne con il potere proprio e altrui, l’oppressione, la misoginia (e un tentativo in questa direzione con un gruppo di militanti anti-stregoneria del presente è stato fatto), l’eredità spirituale delle donne le une per le altre, l’interrogarsi sulla propria identità,  la necessità di vedere in se stessi parti che non si vogliono vedere, l’asservimento al volere altrui, il coraggio di riconoscere i propri desideri e saperli frenare o usare, il perdere il controllo…

Il casting non mi ha convinta, l’uso dei colori ha un che di stinto, la location è stata sprecata (quanto ho rimpianto Treme nel vedere la second-line, come viene chiamata, del tipico funerale di New Orleans), i dialoghi sono espositivi e nulla di più, non c’è atmosfera, la recitazione pure è deludente (salvo la Gimpel e la Grant), anche perché con il materiale a disposizione non è che potessero fare miracoli, i personaggi sono piatti e privi di personalità… Un melodramma sovrannaturale che cerca di essere un po’ horror, un po’ storia d’amore, ma risulta solo sedativo e sbiadito. Una serie priva di magia.

martedì 12 novembre 2013

MASTERS OF SEX: impeccabile


Masters of sex è la nuova serie dell’americana Showtime, basata sull’omonima biografia scritta da Thomas Maier, che narra le vicende di due pionieri della sessuologia, William Masters (Michael Sheen), ginecologo e ostetrico, e Virginia Johnson (Lizzy Caplan), ex cantante poi segretaria, che crearono un fortunato  sodalizio studiando un argomento ai loro tempi praticamente radioattivo, un suicidio professionale. La trasposizione televisiva sta raccogliendo critiche entusiaste. E la mia si aggiunge al coro. Ho letto il libro e la serie mi pare impeccabile.
Gli assi su cui la serie si costruisce sono cinque, direi. Primo, la costruzione dei personaggi: lui ambizioso, considerato strano, e quasi ossessionato dallo studiare la sessualità umana; lei affabile e libera e altrettanto interessata all’argomento, ma inizialmente impreparata e perennemente “in debito di formazione” rispetto alle certificazioni ufficiali. Lui sposato con Libby (Caitlin Fitzgerald), che fatica a concepire dei figli; lei con due matrimoni falliti alle spalle e due figli piccoli a suo carico. Secondo, il  loro rapporto: intenso, profondo, complicato e a dispetto della buona quantità di materiale, sotto tanti profili ignoto, cosa che permette alla narrazione un margine notevole per raccontare la propria storia. Terzo: i mores dell’epoca, sulla sessualità che è un vero tabù, ma non solo. Quarto, le tematiche che sono messe in luce da libro: la difficoltà della scienza di superare le barriere dei pregiudizi, di fronte alla materia del sesso; l’importanza della donna in questo studio, sotto più profili. Quinto: la rivoluzione che hanno portato i loro studi che hanno rivelato verità biologiche che ora diamo per scontate e investigato e fugato radicati tabù e pregiudizi in materia di sesso.

E l’autrice della serie, Michelle Ashford, ci offre una chiave di lettura interessante. Il punto focale non è il sesso, ma William e Virginia (o Bill e Ginny, se preferite) che guardano il sesso. E noi guardiamo loro. Io, quanto meno, di certo. Da non perdere davvero.