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sabato 16 settembre 2023

LUCKY HANK: un professore in crisi di mezza età

Nel mezzo del cammin di nostra vita, Hank si ritrovò in una selva oscura. Questo potrebbe ben essere l’incipit sulla crisi di mezza età del protagonista di Lucky Hank, serie della AMC, il cui apprezzamento è stato per me altalenante. La serie, drammatica ma venata di comicità, è sviluppata da Paul Lieberstein e Aaron Zelman da un romanzo del 1997 di Richard Russo, Straight Man, che non mi risulta tradotto in italiano. Ho letto Russo in passato (Bridge of Sighs, che mi è piaciuto molto), ma non questo libro. 

William Henry (Hank) Deveraux Jr (un sempre carismatico Bob Odenkirk, Better Call Saul) è preside del dipartimento di inglese e insegnante di scrittura creativa al Railton College, un’università in Pennsylvania a corto di finanziamenti che lui definisce senza mezzi termini la “capitale della mediocrità”. Ritiene che essere adulti significhi per l’80% essere infelici; si sente un fallito perché dopo un iniziale successo come scrittore si è bloccato, tanto più nel confronto col padre (Ton Bower), un venerato accademico che ora sta andando in pensione. Non si parlano da anni, e Hank nutre grande risentimento nei suoi confronti per aver abbandonato la madre e lui quando era bambino (e a seguito di un evento che non rivelo, ma che la serie segnala con un trigger warning). Con sua moglie Lily (Mirelle Enos, The Killing), a dispetto delle apparenze, pure la relazione non è più solida come una volta e lei, vicepreside di un liceo locale, sogna di trasferirsi a lavorare in una scuola di New York, cosa che sarebbe il desiderio di una vita che si realizza. La loro giovane figlia, Julie (Olivia Scott Welch), è sposata con Russell (Daniel Doheny), ma la coppia non ha una grande opinione di loro. Piuttosto scorbutico, Hank non ha grande sintonia nemmeno con i colleghi, che non si sentono protetti a sufficienza da lui, soprattutto quando il rettore Jacob Rose (Oscar Nuñez) annuncia il rischio di ulteriori tagli. Particolarmente vocale nell’esprimere questi sentimenti è Gracie (Suzanne Cryer, Silicon Valley), che si pavoneggia come poetessa di fronte allo scetticismo dei colleghi. Anche nei confronti del migliore amico Tony Conigula (Diedrich Bader), Hank è spesso assente.

Come per Tony Soprano nel famoso esordio de I Soprano, anche di Hank facciamo la conoscenza mentre guarda le anatre di un laghetto, ma lui non si fa prendere da un attacco di panico, piuttosto, oltre che con il voice-over di autonarrazione che ci rende espliciti i suoi pensieri, sfoga le sue insoddisfazioni con il corpo studenti che demolisce, non senza un certo umorismo. Inizialmente, anche con scrittori come guest star – George Saunders, interpretato da Brian Huskey, in una puntata che porta il suo nome (1.02) ad esempio – si parla anche di principi di buona scrittura: rifiutare l’abituale perché è lì che sta la mediocrità, credere nel proprio istinto, lavorare su varie stesure…poi questo aspetto si perde per strada. Si riflette sulla propria rilevanza o più realisticamente irrilevanza, ma si fa anche equivalere bravura a successo, qualcosa che è decisamente riduttivo, e come minimo andrebbe problematizzato. Il focus della narrazione si sposta poi molto sul tormentato rapporto del protagonista con il padre. ATTENZIONE SPOILER. Quando finalmente Hank riesce ad avere lo sperato confronto con lui da persone adulte, si rende conto che il padre ha probabilmente l’Alzheimer o qualcosa di simile. Non può giustamente rivendicare il dolore del torto subito e non riesce ad avere soddisfazione nemmeno lì.

In qualunque aspetto della vita, come marito, padre, figlio, amico, professore, Hank è demotivato, annoiato, disinteressato, sconfitto. Si trascina a fare quello che deve fare, ma ha perso verve, e questo finisce per contagiare anche lo spettatore, che alla lunga ne esce un po’ depresso. Se dal punto di vita drammatico siamo in territorio di The Chair, o meglio ancora ricorda The Education of Max Bickford, e l’ironia autoconsapevole del personaggio in prima battuta mi ha attivamente conquistata, con il passare delle puntate il mio entusiasmo si è sgonfiato, seguendo la sua spirale discendente. Avendo letto Russo, so che nei suoi romanzi lo spessore si costruisce per accumulo in sottili lamine narrative, e credo che possano essere efficaci anche nella trasposizione televisiva: di certo la recitazione supporta bene la scrittura. Più deludente è la parte umoristica, che non sia il sarcasmo del vecchio professore che si sete ormai spento. Ci si prova soprattutto con le storie secondarie, ma non convincono del tutto e la combriccola del luogo di lavoro ha un po’ il gusto delle sit-com. La conclusione (1.08), che evita i licenziamenti con un macchinoso espediente deus ex machina, pare un po’ troppo favolistica.

In definitiva una serie intelligente che soffre un po’ dei mali d’animo dei personaggi che ritrae.

mercoledì 12 aprile 2023

INTERVISTA COL VAMPIRO: carnale e intensa

Rolin Jones, ideatore di Intervista col Vampiro (Interview with the Vampire. AMC, inedito in Italia), tratto dall’omonimo romanzo del 1976 della recentemente scomparsa Anne Rice, ha messo a fuoco in modo eccellente nello speciale di backstage della serie che cosa differenzia questa saga di vampiri dalle altre: l’attenzione non va ai poteri che hanno (che peraltro qui sono piuttosto classici), ma di sottofondo c’è il tema del fardello dell’esistenza e di come resistere, che cosa l’accumulo dei lutti e delle perdite e dei rimpianti provocano all’animo, e che cosa si fa per rialzarsi e per sopravvivere. L’autrice avrebbe scritto il romanzo in risposta alla morte della figlia, e gli autori hanno cercato di attenersi rigorosamente allo spirito del materiale ricreato, mostrando quello a cui i protagonisti rinunciano nella loro nuova vita e la solitudine e il vuoto che comporta anche quando sono in compagnia di qualcuno.

Siamo ai giorni nostri. Louis de Pointe du Lac (Jacob Anderson, Verme Grigio de Il Trono di Spade) si offre di essere intervistato, nel suo lussuoso appartamento di Dubai dove viene seguito dal suo assistente Rashid (Assad Zaman), da un giornalista che già aveva incontrato in passato e che aveva provato ad intervistarlo decine di anni prima, Daniel Molloy (Eric Bogosian), che ha una illustre carriera alle spalle, ma è ormai malato. Gli racconta di come negli anni ’10 del Ventesimo secolo abbia incontrato a New Orleans – un setting d’atmosfera che ha un ruolo di rilievo - il vampiro Lestat de Lioncourt (Sam Reid), arrogante, testardo, violento, snob, carismatico, manipolatorio, interessato solo a nutrire i propri molteplici appetiti. È stato “il mio assassino, il mio mentore, il amante, il mio creatore”, spiega, e insieme hanno formato una famiglia, anche poi con la giovane Claudia (Bailey Bass) che viene “trasformata” a soli 14 anni (crescendola così rispetto al libro) per salvarla da morte certa, una specie di figlia per loro. La lusinga della vita che spetta loro è una promessa che è in sè stessa anche una tragedia.

Per ricordare “Buffy”, il sottotesto è diventato rapidamente testo: alcune delle tematiche metaforiche classiche di queste narrazioni, segnatamente l’omosessualità, qui viene resa molto esplicita (ma era invece stata esclusa nella versione cinematografica con Tom Cruise e Brad Pitt) e non solo negli intrecci del plot, ma perfino dalle stesse parole del giornalista che vi vede il campo di interesse dei “queer theorists”; e in modo più pregnante di quanto non abbia visto altrove, si affronta in modo diretto l’argomento dell’abuso domestico, con tanto di trigger warning all’esordio di alcune puntate. E poi il razzismo, con un Louis nero che vive in un Sud di inizio del XX secolo, il potere, il fascino intossicante che ha, i limiti che ci si impone o autoimpone, l’amore, la seduzione, l’invecchiare rimanendo in un corpo che non muta, la cultura, i desideri (la mente umana si riduce a “voglio cibo, voglio sesso, voglio andare a casa”, come sostiene Lestat?) e l’appagamento (essere il killer di qualcuno è la soddisfazione di essere la fine della vita di qualcuno?), l’autodistruzione, la realizzazione dei sé, mortalità e immortalità,  i mores…

Pregnante è il tema del ricordo: “La memoria è un mostro. Noi dimentichiamo, lei no” (1.02). Qui, riportare a galla i ricordi è inteso come odissea, come viaggio, come “ricostruzione”. È una confessione, una performance quella che mette in atto Louis davanti a Daniel? Si tratta di un modo per arrivare alla verità? Che valore ha ricordare? Ricordare è giudicare, condannare o assolvere?

La serie è carnale, intensa, ferale anche (la caccia, le uccisioni). C’è il sangue, molto sangue. E nota acutamente The Daily Beast “(q)uesta Intervista è anche intelligente con il suo umorismo. È quasi come se la serie strizzasse l'occhio al nostro rapporto decennale con questi personaggi. La queerness di Louis e Lestat è presa sul serio, ma allo stesso tempo - e visto quanto a lungo molti fan hanno aspettato che la sessualità fosse così esplicita - ha un senso dell'umorismo anche per quanto riguarda la manifesta sensualità gay.

Il desiderio di essere "prosciugato", ad esempio, porta con sé certamente una nuova connotazione in questa serie. Quando Lestat converte Louis e lo porta per la prima volta nella sua bara, gli dice sfacciatamente: "Puoi stare sopra". E quale sottotesto più grande ci può essere dell'essere in the closet se non quello di essere nella bara?”

Non solo le performance sono di prim’ordine, ma la ricostruzione dei set (che evita i soliti stilemi del genere, ad esempio un ricorrere a rosso e nero), i costumi, i valori produttivi tutti sono ineccepibili. La season finale è un po’ sospesa, ma la serie è stata già rinnovata per una seconda stagione.  

venerdì 7 agosto 2015

HUMANS: la prima stagione


Humans è il remake, ad opera di Sam Vincent e Jonathan Brackley per la britannica Channel 4 e l’americana AMC, della serie svedese Ӓkta mӓnniskor ideata da Lars Lundstrӧm, anche conosciuta come Real Humans. Ha una sua autonoma validità, ma come tutti o quasi i remake finisce per deludere chi ha visto l’originale. Per me è sicuramente così. Riesce a convincere solo quando se ne affranca andando in una direzione totalmente autonoma pur sulla base della stessa premessa.

Siamo in Inghilterra in un presente parallelo al nostro in cui il gadget all’ultima moda sono i synths, diminuitivo di synthetics, “sintetici”, robot umanoidi che affiancano gli esseri umani in una serie di lavori. Nell’originale si chiamavano “hubots”, crasi fra human e robots, mentre qui si è optato per un termine che già era stato usato nel poliziesco di breve durata Almost Human, che ricalca nelle tematiche, ma anche nella tecnologia – androidi moto fluidi, e all’apparenza meno macchine di quelli dell’originale che ne mostrava molti con lo stesso volto, prodotti in serie. Qui ognuno sembra essere un originale e davvero sono poco distinguibili dagli umani.

Ci si muove all’interno della stessa matrice narrativa della serie nordica, ma unendo alcuni personaggi, notabilmente il poliziotto e l’operaio che lavorano in fabbrica che diventa il poliziotto Pete Drummond (Neil Maskell), o comunque modificandoli, tralasciando al margine, appena accennata almeno nel corso della prima stagione, tutta la vicenda politico-terroristica, e dando un senso fortemente differente a eventi altrimenti simili.

Il primo nucleo narrativo vede Joe Hawkins (Tom Goodman-Hills) che decide di comprare un synth che aiuti per le faccende domestiche visto che la moglie Laura (Katherine Parkinson), oberata di lavoro, è poco presente in casa e nella vita dei figli: l’esperta di computer un po’ ribelle Matilda (Lucy Carless), il secondogenito in piena pubertà Toby (Theo Stevenson) e la piccola Sophie (Pixie Davis). Joe compra e porta a casa Anita (Gemma Chan) che loro non lo sanno essere in realtà Mia, un synth con una sua coscienza, che è stata rapita e resettata per essere poi rivenduta. Qui il nuovo elettrodomestico in forma umana è vissuto come una grande minaccia da parte di Laura, e a ragione. L’acquisto è stato fatto perché alla fine lei, troppo concentrata sul lavoro, risultava inadeguata sul fronte di casa, o così almeno la fanno sembrare. Non si fida di lei con i suoi figli, e la percepisce come una rivale del loro affetto. Nemmeno quando Anita si fa investire da un furgone pur di proteggere il figlio, cambia del tutto idea. E la presenza di questa macchina in forma di donna alla fine è una minaccia anche per il suo matrimonio, visto che il marito ci finisce a letto e si separano per questo. Quando Anita, la cui vera identità è comunque ancora presente seppur nascosta, sembra venire alla luce in qualche sprazzo, Laura ne è inquietata. Non così nella versione svedese. Lì Anita viene acquistata  per dare una mano in casa, ma non per questo mette a rischio il ruolo di madre e moglie della proprietaria che ha un atteggiamento sospettoso all’inizio, ma sa ricredersi e comincia a ritenere importante il rispetto delle macchine lì dove mostrano una coscienza. Qui Mia, nascosta nei meandri di Anita quasi fosse un’altra personalità, riesce ad avere una connessione vera e umana solo quando si impone definitivamente come essere cosciente e ha quasi più insight di un umano.

Tutta la tematica sessuale, presente in entrambe le serie, è sviluppata in modo molto diverso. Qui è vista solo come qualcosa da nascondere, e fonte di umiliazione di una delle synth protagoniste, Niska (Emily Berrington), costretta a lavorare come prostituta. Nell’originale, l’attrazione sessuale è sì anche a pagamento, con risvolti vari anche negativi, ma è anche da parte del ragazzino adolescente che si vede attratto dalle macchine ma non dalle persone umane e fatica ad accettarsi per questo (e il parallelismo metaforico è chiaramente con l’omosessualità) ed è da parte di donne che vedono in queste macchine un possibile compagno di vita e cercano il riconoscimento di diritti per queste macchine, lì dove da altri vengono percepite come una minaccia alla vita di coppia tradizionale. Qui la donna che cerca di più dal suo synth da un unto di vista sessuale finisce per esserne molestata (1.06) finché il marito non interviene colpendolo con violenza. Nell’originale è quasi l’opposto dove la macchina aiuta la donna vittima di stalking dall’ex marito che lei non vuole più vedere. Non va tutto alla perfezione nemmeno lì, e la donna finisce per liberarsene in modo molto doloroso, ma tutto è gestito con maggior complessità.  Più punti di vista sono esplorati nell’originale, con un effetto metaforico maggiore e richiami alle questioni dell’orientamento sessuale, della razza, dell’immigrazione.   

Un altro nucleo forte della narrazione è un anziano vedovo, che nell’originale è il nonno della famiglia che vive solo, e nel suo hubot ormai molto obsoleto vede un amico a cui vogliono costringerlo a rinunciare, guardato ora a vista da un nuovo robot che nell’attenzione maniacale alla sua salute è quasi un gendarme. Nella rivisitazione l’anziano è il dottor George Millican (William Hurt) che non ha legami di parentela con la famiglia di cui sopra, né si direbbe soffrire particolarmente di solitudine, ma che vede nel suo synth, Odi (Will Tudor, il più convincente fra loro, per me), per certi versi un figlio, per altri più che un amico, una macchina che è depositaria di molti ricordi felici con la moglie che non c’è più e che lui comincia a dimenticare a causa dei suoi problemi di salute. Anche qui gli viene forzatamente affiancata una macchina che vede come una carceriera, Vera (Rebecca Front), ma questa scelta ha di fatto scarse conseguenze. Seppur in pensione George però un passato di scienziato che ha aiutato a progettare questi robot. Il suo incontro con Niska e il dibattito ingaggiato con lei riesce a dar voce esplicita a sottese questioni filosofiche rispetto a quello che significa essere umani e si va in una direzione autonoma, per cui si finisce per rimpiangere la sua fine (1.07).

Leo Elster (Colin Morgan), terzo nucleo narrativo, è il figlio biologico di colui che ha progettato tutti questi synth, David Elster, sapendo infondere loro una coscienza. Il padre, per impedirgli la morte in seguito ad un incidente, lo ha reso mezzo uomo e mezzo robot. Ora adulto Leo è in cerca di Mia/Anita. La vicenda inizialmente è grosso modo la medesima nelle due versioni, ma anche qui l’effetto è di minore impatto. Qui il senso di gruppo fra i synth è molto più assimilato a quello di famiglia però, si considerano fratelli e sorelle, ma qui hanno una coscienza che si direbbe fin troppo funzionante, mentre nell’originale è ancora abbozzata. Sono spesso ingenui, stanno imparando, non capiscono, sono come bambini. E qui minacciano, feriscono e uccidono gli umani senza troppi ripensamenti (si pensi anche solo alla 1.06 o a Niska in particolare), cosa che nell’originale è una cosa molto più ponderata, visto che in origine tengono a seguire i protocolli di Asimov e solo indebite modifiche al codice possono potare a quei risultati. Se il senso di fede qui è realizzato in modo frettoloso, si ragiona di più sulla differenza fra vita e morte, con la bella scelta di cercare di rianimare Max (Ivanno Jeremiah), che aveva scelto di buttarsi da un ponte per aiutare Leo e il twist (1.07) di rendere Karen (Ruth Bradley), uno dei syth fatta a immagine della madre di Leo, ostile ai suoi stessi compagni perché si auto percepisce come una minaccia per l’umanità. Unisce le forze con il professor Edwin Hobb (Danny Webb) scienziato che lavorava in passato con Millican e con Elster e che insegue queste macchine con l’obiettivo (che si fa chiaro solo in chiusura di stagione) di portare a termine il lavoro di David, dando una coscienza a tutte le macchine, ma allo stesso tempo sottomettendo ciascuna alla sola volontà del primary user.

In un certo senso c’è un percorso inverso rispetto alla serie originaria. Nella realtà di Ӓkta mӓnniskor le macchine sono prive di una coscienza e sono completamente sottomesse all’uomo, ma nel momento in cui si modifica la loro programmazione con un apposito codice assumono una maggiore abbozzata coscienza di sé, via via in costruzione, ma contemporaneamente con questa modifica non sono più sottomessi e diventano più simili agli esseri mani, nel bene e nel male. Qui la coscienza e il diventare umani portano al libero arbitrio: provano e pensano ma non sono più burattini nei nelle mani dei “veri umani”; possono ora fare di testa loro, anche al limite danneggiarli. Nella realtà di Humans, le macchine senza coscienza  si vedono poco. Ci sono ma sono una sorta di presenza indistinta di sottofondo. Quelli che vediamo pensano e sentono e lo scienziato-cattivo-di-turno vuole schiavizzarli sottomettendoli alla volontà umana bloccandone il libero arbitrio in modo da avere i vantaggi di macchine che pensano e provano, ma idealmente non gli “svantaggi”.  

Che cosa ci renda umani, e che cosa sia e come si sviluppi la coscienza, è il fulcro filosofico di Humans/Real Humans, il remake però risulta molto meno incisivo e sottile dell’originale, e per questo delude. Vorrei poter sapere che cosa ne penserei se lo avessi visto autonomamente, senza le previa conoscenza della matrice originaria, che ho fresca nella memoria. Vista l’interferenza della pregressa conoscenza non credo di poter essere obiettiva in una valutazione separata. Humans in ogni caso tornerà con una seconda stagione.  

lunedì 16 settembre 2013

La AMC ringrazia per il successo di BREAKING BAD

 
A pochi giorni dalla finalissima di Breaking Bad (che manda in onda l’ultima puntata negli USA  il 29 settembre), The Hollywood Reporter in esclusiva segnala un poster pubblicitario (sopra) in cui la rete AMC che la manda in onda ringrazia cast, troupe,  fan e tutti quanti hanno reso la serie il fenomeno che è diventato.  

venerdì 2 dicembre 2011

HELL ON WHEELS: troppo poco logora, ma migliora


Siamo negli Stati Uniti del 1865. Si sta costruendo la grande ferrovia transcontinentale, nota come Hell on Wheels - titolo della serie televisiva della rete AMC (Mad Men, Breaking Bad, The Killing), ovvero l’Inferno su Ruote -, un evento che è considerato l’equivalente all’avvento di internet per l’epoca moderna, come portata nello sviluppo delle comunicazioni. Si è appena conclusa la Guerra Civile e molti soldati si ritrovano senza un’occupazione; Lincoln è morto; con la Proclamazione di Emancipazione quelli che un tempo erano schiavi sono ora uomini liberi che devono imparare a sopravvivere in una realtà profondamente alterata; gli immigrati, specie irlandesi, arrivano numerosi in cerca di fortuna, libertà e una nuova vita; nella conquista dell’ovest ci si scontra contro la natura aspra e le popolazioni indigene dei nativi americani. “La nazione è una ferita aperta” scrive il programma prima di dare il via alle vicende.
Cullen Bohannon (Anson Mount) è una specie di pistolero alla Clint Eastwood, un ex soldato della Confederazione ed ex-proprietario di schiavi che si fa assumere come sorvegliante dei lavoratori nella costruzione della ferrovia. Il suo proposito è la vendetta: trovare e giustiziare gli uomini che hanno violentato e ucciso sua moglie. A capo dei lavori è un uomo d’affari locale, Thomas “Doc” Durant (Colm Meany), un po’ pomposo e avido che, con ferrea logica, pretende che la ferrovia non proceda diritta, ma a curve perché il governo lo sussidia in base alle miglia di costruzione, e che ruba l’idealismo altrui per vendere l’idea di un’impresa epica che cambierà il mondo, salvo poi privatamente essere un fatalista piuttosto disincantato: “Tutta la storia è guidata dal leone. Trasciniamo la povera zebra che scalcia e urla, sporcando la terra con il suo sangue da quattro soldi. La storia non ci ricorda con affetto, ma la storia è scritta dalla zebra per la zebra.” (1.01). Elam Ferguson (il rapper Common) è un ex-schiavo afroamericano che si scontra con la realtà umana che lo vede, in fondo, ancora come tale. Sean (Ben Esler) e Mickey (Phil Burke) McGinness sono due fratelli che si stabiliscono vicino alla ferrovia per fornire un po’ di intrattenimento dopo il lavoro, mostrando antelucane diapositive della loro nativa Irlanda. Joseph Black Moon (Eddie Spears) è un nativo americano che si è convertito al cristianesimo, ma che trova difficile vivere nel nuovo contesto, mentre gli uomini della sua tribù attaccano e uccidono i suoi nuovi compaesani. Il Reverendo Cole (Tom Noonan) cerca di diffondere parole di pace. Lily Bell (Dominique McElligott) rimane vedova dopo un attacco “indiano” e deve cavarsela da sola. Lo sceriffo del campo di lavoro, conosciuto come “The Swede – Lo Svedese” (Christopher Heyerdahl, un attore in realtà norvegese) - probabilmente il personaggio più affascinante, recitato impeccabilmente, che appare solo in 1.02 - è un ex-ragioniere che filosofeggia dicendo che ha imparato a controllare le persone come prima controllava i numeri.
Ideata da Joe e Tony Gayton, la serie, un po’ western, un po’ d’epoca, mi ha deluso sulla base del pilot, ma ha cominciato a trovare una propria voce più definita dalla seconda e terza puntata. Il problema maggiore inizialmente è che la serie non è sufficientemente logora: tutti sono vestiti con abiti che sembrano appena usciti dalla tintoria, sono troppo puliti, sono troppo poco stanchi, distrutti e sconfitti dalla vita. Sembrano più modelli di un servizio fotografico messi in posa per “giocare a…”. Il senso epico manca in favore di eventi  banali che non paiono avere un significato più ampio, il prezzo del progresso è solo quello stampato sulle banconote, non quello di una vita ingrata di sangue, fango e sudore. Con le puntate successive la serie si è fatta più usata, più sgualcita, meno civile, meno preconfezionata: migliore. E i personaggi cominciano a mostrare una multidimensionalità che prima sfuggiva.
Gli autori hanno esplicitamente indicato molti punti di riferimento, letterari e cinematografici, nel costruire Hell on Wheels: la Bibbia, La Giungla di Upton Sinclair, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, Empire Express di David Haward Bain, La più grande impresa del mondo di Stephen Ambrose, The Cheyenne Indians di George Bird Grinnell, Empire of the Summer Moon di S.C. Gwyne, Visions of the First Americans di Edward Curtis; e poi gli spaghetti western di Sergio Leone come C’era una volta in America (1968), McCabe & Mrs. Miller (1971), Unforgiven (1992), Dead Man (1995), American Experience: Transcontinental Railroad (2002), Il Petroliere - There Will Be Blood (2007).
Non è un telefilm che mi abbia conquistato, ma forse come la costruzione della ferrovia che richiede il posizionamento di una segmento dopo l’altro, è una cosa che richiede tempo. Sono disposta a concederlo.

giovedì 14 aprile 2011

AMC e OLTL cancellate!



Devo ammetterlo, sono scioccata, e dispiaciuta: è appena stata diffusa la notizia che la ABC ha cancellato tanto All My Childeren (La Valle dei Pini), quanto One Life To Live (Una Vita da Vivere). AMC ha debuttato il 5 gennaio del 1970 e terminerà nel settembre del 2011; OLTL ha esordito il 15 luglio del 1968 e chiuderà i battenti nel gennaio del 2012. La sola soap a rimanere nel line-up della ABC è ora General Hospital.

A sostituire le due soap storiche, entrambe ideate da Agnes Nixon, saranno The Chew, un talk show sul cibo in tutti i suoi aspetti, e The Revolution, una competizione sul perdere peso. Su Daytime Confidential trovate il comunicato stampa intero, in cui si dice tra l’altro:

“‘All My Children’ ha ruotato intorno alle vite dei residenti di Pine Valley, una città di finzione che assomiglia da vicino alla Main Line di Philadelphia. ‘All My Childen’ ha portato a casa il Premio Emmy come Miglior Serie del Daytime nel 1998, la terza volta che il programma ha ricevuto il massimo onore, avendolo anche conseguito nel 1994 e nel 1992. ‘All My Children’ ha ricevuto più di 30 Emmy Awards e si è distinta con costanza nel campo dei daytime drama. Lo show storicamente si è impegnato e è stato spesso il primo a trattare questioni sociali, focalizzandosi su argomenti come l’AIDS, l’aborto, gli impianti cocleari, l’alcolismo degli adolescenti, i pregiudizi razziali, lo stupro da parte di conoscenti, l’abuso da parte del coniuge, l’omosessualità, la sindrome di Reyes, i Dispersi In Azione del Vietnam, l’abuso di droghe, i rischi della maternità dopo i 40 anni, il sesso sicuro, la pet therapy e la donazione degli organi, fra le altre cose. Lo show ha fatto la storia della televisione mandando in onda il primo bacio fra persone dello stesso sesso nella televisione del daytime fra due personaggi lesbici, così come il primo matrimonio fra persone dello stesso sesso fra due donne nella televisione del daytime. È stato il primo a fare la cronaca del coming out di una donna transgender e a inserire nel cast un veterano della Guerra in Iraq nella vita vera la cui storia rifletteva le sue reali esperienze nella vita reale e le ferite che ha subito in combattimento.”

“‘One Life to Live’ è stata lodata per la sua esplorazione senza precedenti di questioni sociali, per il canovaccio vario, per interpretazioni che sono state premiate e storytelling innovativo. Insieme alla settimana di programmazione live nel maggio 2002 che ha fatto storia, ‘One Life To Live’ è responsabile per molte ‘prime volte’ della televisione del daytime, incluse storie di amore interrazziale, analfabetismo, diagnosi mediche sbagliate, pregiudizio razziale, violenza delle gang e gravidanze di adolescenti. Il programma ha ricevuto il plauso critico di massa per la sua storia sull’omofobia del 1992, che ha catturato i titoli di testa nazionali quando ha introdotto il personaggio di un adolescente gay (interpretato dall’allora sconosciuto Ryan Phillippe) e ha culminato con la commovente esposizione  della Names Project AIDS Memorial Quilt. ‘One Life to Live’ è stata onorata dalla Gay and Lesbian Alliance Against Defamation (GLAAD) con il Premio per il Miglior Drama del Daytime nel 1993, e di nuovo nel 2005 e 2010.”

Che giorno triste per le soap opera e per tutti quelli che amano questo genere.