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martedì 22 marzo 2022

RUTHERFORD FALLS: la statua di un colonizzatore e i nativi americani

Una statua, piazzata proprio nel mezzo di un incrocio cittadino, causa molti incidenti d’auto, e una porzione della popolazione vuole che venga rimossa. A opporsi strenuamente è Nathan Rutherford (Ed Helms, The Office), discendente del fondatore a cui la statua è dedicata, che storicamente ha stretto un produttivo accordo con i locali. Questa sua posizione lo mette in contrasto con la nazione dei nativi americani, i Minishonka, ed in particolare con Terry (un magnifico Michael Greyeyes), CEO del locale casinò, e crea tensione con la sua migliore amica Reagan (Jana Schmieding, un’attrice Lakota Sioux) che sogna un grande centro culturale per la sua gente. A sostenere Nathan spesso anche in contrasto con la prima sindaca nera della città, Deirdre (Dana L. Wilson), è il giovanissimo Bobbie (Jesse Leigh) uno studente di liceo che gli fa da assistente personale. Affascinato dal potenziale delle vicende, arriva in città un giornalista in cerca di uno scoop, Josh (Dustin Milligan).

Questa è la premessa della sit-com Rutherford Fall - a cui da noi si è aggiunto Amici per la vita (su Peacock - a cui in Italia dal 15 febbraio possono accedere gli abbonati Sky e Now) -, nome della cittadina dove si svolgono le vicende, ideata da Ed Helms, Mike Schur (Parks and Recreations, Brooklyn Nine-Nine, The Good Place) e Sierra Teller Omelas.

C’è molta dolcezza di fondo in questa produzione che ha un delicato umorismo e affronta questioni spinose. Nathan è un conservatore, per quanto possa definirsi tale qualcuno che ha come assistente un ragazzo non-binario che si trucca. Ama il passato e va fiero delle proprie radici, anche se è costretto con riluttanza ad ammettere che spesso non è così bello e gentile come vorrebbe. Nel rapporto fra Nathan e Reagan si vedono gli echi di quello fra Leslie e Ron in Parks and Rec. L’intervista a Terry (“Terry Thomas”, 1.04) mostra che cosa è stata la sua formazione da “indiano” dei giorni nostri e cosa anima il suo senso di rivendicazione.

Che cos’è la storia? Che cosa è giusto conservare e preservare? Questo è il fulcro dell’interesse, anche con Reagan che è in perenne ricerca di artefatti e oggetti di valore per quei nativi che si sono visti depredati di tutto. È desolate vedere inizialmente che un misero cestino è quasi tutto quello di valore che il suo centro culturale può mettere in mostra.

I Minishonka sono una tribù fittizia, non realmente esistente, ma poco importa. Se Terry, con il suo casinò, rappresenta la guerra economica, e Reagan rappresenta quella socioculturale, si vede attraverso i due personaggi come i due aspetti non siano così distanti l’uno dall’altro come si potrebbe credere.

Se l’opportunità di abbattere o meno determinate statue – con il valore simbolico celebrativo che si portano dietro - è stato un dibattito che ha interessato molti Paesi, compresa l’Italia, quella questione è stata toccata solo in parte, in modo in qualche modo tangenziale. Allo stesso tempo non ci si è limitati a quello, ma ci si è interrogati sul peso culturale dell’arte e della rappresentazione, sul loro ruolo, e il significato dell’appropriazione – un concetto che quando si parla di Arte con la A maiuscola personalmente trovo sempre molto problematico -, è stato oggetto di discussione apertis verbis.

In “History Fair” (1.05), i personaggi devono valutare quale opera premiare fra quelle presentate da un gruppo di studenti. La rappresentazione diegetica soppesa vari criteri ed esigenze. Non ne ho amato l’insoddisfacente conclusione, che ha optato consapevolmente non per la migliore, ma per la più blanda, quella che non offende nessuno. Un po’ come il film “Green Book”, si è affermato.

Traslando la questione sul piano metatestuale ci si interroga sul ruolo di questa sit-com stessa come potenziale arte: con i suoi modi garbati difficilmente offende, ma certo non lascia non interrogate prospettive consolidate. C’è un respiro in fondo poco polemico, e il “bravo uomo bianco” che sta dalla parte della visione tradizionale non è ottuso e privo di sentimenti, vuole fare la cosa giusta. E in questo forse sta il suo vero limite: si scaglia contro la Disney-ficazione della Storia, vuole quella autentica, accurata, ma allo stesso tempo è in difficoltà nell’accettare sangue e colonizzazione.

Qui un incontestabile pregio è quello di riuscire a dare voce a chi normalmente non ne ha la writer’s room ha uno dei più ampi staff di indigeni nella storia della televisione americana (ET oline) e di fare proprio quello che essere più inclusivi di voci diverse consente di fare, ovvero guardare le cose da un diverso punto di vista. Forse non ancora a sufficienza. Forse, per essere creativamente più riuscito dovrebbe avere il coraggio di essere meno inoffensivo. O forse, semplicemente, dare ancora più le redini a chi fino ad ora non ha potuto tenerle.

mercoledì 5 maggio 2021

RESIDENT ALIEN: uno spassoso extra-terrestre

Resident Alien (SyFy, Rai4), tratta da un’omonima serie di fumetti ideata da Peter Hogan e Steve Parkhouse, è una delle serie più leggere e spassose che mio abbia seguito negli ultimi tempi. Sarei rimasta sinceramente delusa se non l’avessero rinnovata per una seconda stagione.

Harry Vanderspiegle (Alan Tudyk, Firefly, Suburgatory) è un alieno con la missione di distruggere l’umanità che per errore precipita sul nostro pianeta, in un paesino montano chiamato Patience, in Colorado. Uccide il vero Harry, un medico, e ne assume l’identità, vive nella baita sul lago sperduta fra i boschi che gli apparteneva, imparando tutto il necessario guardando in TV Law & Order. Quando il medico locale viene trovato morto, Harry viene chiamato a sostituirlo e deve interagire, seppur goffamente, con i locali, in particolare con Asta (Sara Tomko), una nativa americana della tribù degli Ute, che lavora come assistente nella clinica del medico e che ha come migliore amica D’Arcy (Alice Wetterlund), una ex-sciatrice olimpica che dopo un incidente gestisce il bar della città il 59 (nome legato a una leggenda cittadina). Lo sceriffo Mike (Corey Reynolds), che vuole che tutti lo chiamino Big Black, investiga con una apparente pugno di ferro, ma chi fa tutto il lavoro è la sua brillante vice Liv (Elizabeth Bowen). La situazione di Harry è complicata dal fatto che, sebbene tutti lo vedano come umano, non è così per il bimbo di nove anni Max (Judah Prehn), figlio del giovane sindaco Ben (Levi Fiehler) e della moglie Kate (Meredith Garretson), che a causa di una mutazione genetica riesce a non farsi ingannare dalla sua ricostruzione molecolare e lo riconosce come effettivamente è, nell’aspetto una specie di anfibio (imparentato però coi i polipi), cosa che lo spaventa facendolo diventare la sua spina nel fianco. Una generale (Linda Hamilton) dell’esercito intanto cerca di provare l’esistenza aliena ed è sulle sue tracce.

Se in 3rd Rock from the Sun – Una famiglia del terzo tipo, John Lithgow interpretava Dick Solomon come una persona spumeggiante e piena di entusiasmo talvolta vagamente indignata, qui Alan Tudyk ha un approccio opposto, di rigidità, riserbo e molta perplessità, che non di meno risulta grandemente esilarante. Lo humor, oltre che dalle espressioni facciali e dal suo tremendo forzato modo di sorridere e ridere, viene dall’incapacità sociale del protagonista, ma anche dalla sua semplice inesperienza di cose umane. Una volta gli diventa duro e guardandosi in mezzo alle gambe esclama “il mio pene è morto!”, pensando al rigor mortis (1.05). Rimarca a D’Arcy che lei non deve essere molto intelligente e lei si arrabbia; lui preoccupato osserva “Oh no, gli uomini umani non devono dire cose cattive alle donne, se non mi scuso saprà che sono un alieno” (1.05). L’attrito poi fra il suo cercare di farsi passare per umano e un persona che, come medico, aiuta gli altri, e i suoi pensieri minacciosi che sperano nell’annichilamento totale, costituiscono una forte di risate sempre gustose. L’altra colonna portante dell’umorismo è affidata allo sceriffo e la sua vice, lui ipercontrollante e sicuro di sé, lei bravissima, ma il cui contributo non viene debitamente riconosciuto. È costruito in modo ideale, e l’ho pensato come una possibile parodia di Fargo, anche se funziona indipendentemente da riferimenti extratestuali.   

C’è molta attenzione e tenerezza nelle situazioni, anche le più intense, e occasionalmente un pizzico di malinconia, e a questo si aggiunge la scoperta da parte del neoumano, un po’ disgustato dall’idea di esserlo, di che cosa significhi essere veramente tali, “infettati” di umanità, come la vede lui: che cosa si prova, fisicamente ma soprattutto psicologicamente ed emotivamente. Il fatto che si sia a contatto con dei Nativi americani – il padre di Asta, Dan (Gary Farmer), è il proprietario di una locanda – e che il piccolo Max abbia come miglior amica una bambina musulmana, Sahar (Gracelyn Awad Rinke), fanno bene intendere che c’è una consapevolezza, da parte della serie, del concetto di “alieno” in senso più ampio, metaforico (vengono definiti “resident alien” negli USA gli immigrati non ancora cittadini), per quanto finora non si sia esplicitamente riflettuto in questa direzione ed è un’occasione sprecata. A un ritrovo sugli extra-terrestri, Harry non gradisce che la propria identità sia trattata come un costume, Asta commenta con un equivalente di “dillo a me”, ma il massimo a cui si è arrivati è piantare l’idea che un alieno possa essere un “Cristoforo Colombo dello spazio” (1.09).

Il richiamo che viene elicitato in modo più forte è a Northern Exposure - Un medico fra gli Orsi, con un piccolo paesino dove finisci per conoscere un po’ alla volta i personaggi pittoreschi locali o le leggende del posto, cosa che aggiunge una nota di fascino e stimola lo spettatore a tornare. Anche per la presenza della cultura indigena, ovviamente. La sceneggiatura di questa creazione di Chris Sheridan non è a quei livelli, ma non ci si sente alieni, è il caso di dirlo, ma accolti. Con garbo. Ho sentito criticata la serie perché cercherebbe di essere troppe cose contemporaneamente: non la condivido perché gli elementi si compenetrano ibridandosi alla perfezione.

Molta della serietà del programma viene dalle backstory di Asta (una relazione abusante e una bimba data via alla nascita) e di D’Arcy, infelice, che beve un bel po’ ed è alla ricerca di una relazione, così come l’elemento di avventura è assicurato dalle indagini dello sceriffo, come dal tentativo del protagonista di ritrovare il device che gli permetterebbe di annientare l’umanità e di riprendere la propria nave e tornare a casa. Il messaggio ultimo va in direzione dell’amicizia e dell’amore.

Notare che le scritte in sovrimpressione appaiono in caratteri alieni (in realtà in esperanto, secondo Wikipedia), prima di apparire in inglese. Anche la sigla, ogni volta diversa, con vignette a fumetti che illustrano che cosa in una situazione è appropriato fare e che cosa no, è una chicca. 

venerdì 2 dicembre 2011

HELL ON WHEELS: troppo poco logora, ma migliora


Siamo negli Stati Uniti del 1865. Si sta costruendo la grande ferrovia transcontinentale, nota come Hell on Wheels - titolo della serie televisiva della rete AMC (Mad Men, Breaking Bad, The Killing), ovvero l’Inferno su Ruote -, un evento che è considerato l’equivalente all’avvento di internet per l’epoca moderna, come portata nello sviluppo delle comunicazioni. Si è appena conclusa la Guerra Civile e molti soldati si ritrovano senza un’occupazione; Lincoln è morto; con la Proclamazione di Emancipazione quelli che un tempo erano schiavi sono ora uomini liberi che devono imparare a sopravvivere in una realtà profondamente alterata; gli immigrati, specie irlandesi, arrivano numerosi in cerca di fortuna, libertà e una nuova vita; nella conquista dell’ovest ci si scontra contro la natura aspra e le popolazioni indigene dei nativi americani. “La nazione è una ferita aperta” scrive il programma prima di dare il via alle vicende.
Cullen Bohannon (Anson Mount) è una specie di pistolero alla Clint Eastwood, un ex soldato della Confederazione ed ex-proprietario di schiavi che si fa assumere come sorvegliante dei lavoratori nella costruzione della ferrovia. Il suo proposito è la vendetta: trovare e giustiziare gli uomini che hanno violentato e ucciso sua moglie. A capo dei lavori è un uomo d’affari locale, Thomas “Doc” Durant (Colm Meany), un po’ pomposo e avido che, con ferrea logica, pretende che la ferrovia non proceda diritta, ma a curve perché il governo lo sussidia in base alle miglia di costruzione, e che ruba l’idealismo altrui per vendere l’idea di un’impresa epica che cambierà il mondo, salvo poi privatamente essere un fatalista piuttosto disincantato: “Tutta la storia è guidata dal leone. Trasciniamo la povera zebra che scalcia e urla, sporcando la terra con il suo sangue da quattro soldi. La storia non ci ricorda con affetto, ma la storia è scritta dalla zebra per la zebra.” (1.01). Elam Ferguson (il rapper Common) è un ex-schiavo afroamericano che si scontra con la realtà umana che lo vede, in fondo, ancora come tale. Sean (Ben Esler) e Mickey (Phil Burke) McGinness sono due fratelli che si stabiliscono vicino alla ferrovia per fornire un po’ di intrattenimento dopo il lavoro, mostrando antelucane diapositive della loro nativa Irlanda. Joseph Black Moon (Eddie Spears) è un nativo americano che si è convertito al cristianesimo, ma che trova difficile vivere nel nuovo contesto, mentre gli uomini della sua tribù attaccano e uccidono i suoi nuovi compaesani. Il Reverendo Cole (Tom Noonan) cerca di diffondere parole di pace. Lily Bell (Dominique McElligott) rimane vedova dopo un attacco “indiano” e deve cavarsela da sola. Lo sceriffo del campo di lavoro, conosciuto come “The Swede – Lo Svedese” (Christopher Heyerdahl, un attore in realtà norvegese) - probabilmente il personaggio più affascinante, recitato impeccabilmente, che appare solo in 1.02 - è un ex-ragioniere che filosofeggia dicendo che ha imparato a controllare le persone come prima controllava i numeri.
Ideata da Joe e Tony Gayton, la serie, un po’ western, un po’ d’epoca, mi ha deluso sulla base del pilot, ma ha cominciato a trovare una propria voce più definita dalla seconda e terza puntata. Il problema maggiore inizialmente è che la serie non è sufficientemente logora: tutti sono vestiti con abiti che sembrano appena usciti dalla tintoria, sono troppo puliti, sono troppo poco stanchi, distrutti e sconfitti dalla vita. Sembrano più modelli di un servizio fotografico messi in posa per “giocare a…”. Il senso epico manca in favore di eventi  banali che non paiono avere un significato più ampio, il prezzo del progresso è solo quello stampato sulle banconote, non quello di una vita ingrata di sangue, fango e sudore. Con le puntate successive la serie si è fatta più usata, più sgualcita, meno civile, meno preconfezionata: migliore. E i personaggi cominciano a mostrare una multidimensionalità che prima sfuggiva.
Gli autori hanno esplicitamente indicato molti punti di riferimento, letterari e cinematografici, nel costruire Hell on Wheels: la Bibbia, La Giungla di Upton Sinclair, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, Empire Express di David Haward Bain, La più grande impresa del mondo di Stephen Ambrose, The Cheyenne Indians di George Bird Grinnell, Empire of the Summer Moon di S.C. Gwyne, Visions of the First Americans di Edward Curtis; e poi gli spaghetti western di Sergio Leone come C’era una volta in America (1968), McCabe & Mrs. Miller (1971), Unforgiven (1992), Dead Man (1995), American Experience: Transcontinental Railroad (2002), Il Petroliere - There Will Be Blood (2007).
Non è un telefilm che mi abbia conquistato, ma forse come la costruzione della ferrovia che richiede il posizionamento di una segmento dopo l’altro, è una cosa che richiede tempo. Sono disposta a concederlo.