Resident Alien (SyFy, Rai4), tratta da
un’omonima serie di fumetti ideata da Peter Hogan e Steve Parkhouse, è una
delle serie più leggere e spassose che mio abbia seguito negli ultimi tempi.
Sarei rimasta sinceramente delusa se non l’avessero rinnovata per una seconda
stagione.
Harry Vanderspiegle (Alan
Tudyk, Firefly, Suburgatory) è un alieno con la missione di
distruggere l’umanità che per errore precipita sul nostro pianeta, in un
paesino montano chiamato Patience, in Colorado. Uccide il vero Harry, un
medico, e ne assume l’identità, vive nella baita sul lago sperduta fra i boschi
che gli apparteneva, imparando tutto il necessario guardando in TV Law &
Order. Quando il medico locale viene trovato morto, Harry viene chiamato a
sostituirlo e deve interagire, seppur goffamente, con i locali, in particolare
con Asta (Sara Tomko), una nativa americana della tribù degli Ute, che lavora
come assistente nella clinica del medico e che ha come migliore amica D’Arcy
(Alice Wetterlund), una ex-sciatrice olimpica che dopo un incidente gestisce il
bar della città il 59 (nome legato a una leggenda cittadina). Lo sceriffo Mike
(Corey Reynolds), che vuole che tutti lo chiamino Big Black, investiga con una
apparente pugno di ferro, ma chi fa tutto il lavoro è la sua brillante vice Liv
(Elizabeth Bowen). La situazione di Harry è complicata dal fatto che, sebbene
tutti lo vedano come umano, non è così per il bimbo di nove anni Max (Judah
Prehn), figlio del giovane sindaco Ben (Levi Fiehler) e della moglie Kate
(Meredith Garretson), che a causa di una mutazione genetica riesce a non farsi
ingannare dalla sua ricostruzione molecolare e lo riconosce come effettivamente
è, nell’aspetto una specie di anfibio (imparentato però coi i polipi), cosa che lo spaventa facendolo diventare la sua spina nel fianco. Una generale (Linda
Hamilton) dell’esercito intanto cerca di provare l’esistenza aliena ed è sulle
sue tracce.
Se in 3rd Rock from the Sun – Una famiglia del terzo tipo, John Lithgow interpretava Dick Solomon come una persona spumeggiante e piena di entusiasmo talvolta vagamente indignata, qui Alan Tudyk ha un approccio opposto, di rigidità, riserbo e molta perplessità, che non di meno risulta grandemente esilarante. Lo humor, oltre che dalle espressioni facciali e dal suo tremendo forzato modo di sorridere e ridere, viene dall’incapacità sociale del protagonista, ma anche dalla sua semplice inesperienza di cose umane. Una volta gli diventa duro e guardandosi in mezzo alle gambe esclama “il mio pene è morto!”, pensando al rigor mortis (1.05). Rimarca a D’Arcy che lei non deve essere molto intelligente e lei si arrabbia; lui preoccupato osserva “Oh no, gli uomini umani non devono dire cose cattive alle donne, se non mi scuso saprà che sono un alieno” (1.05). L’attrito poi fra il suo cercare di farsi passare per umano e un persona che, come medico, aiuta gli altri, e i suoi pensieri minacciosi che sperano nell’annichilamento totale, costituiscono una forte di risate sempre gustose. L’altra colonna portante dell’umorismo è affidata allo sceriffo e la sua vice, lui ipercontrollante e sicuro di sé, lei bravissima, ma il cui contributo non viene debitamente riconosciuto. È costruito in modo ideale, e l’ho pensato come una possibile parodia di Fargo, anche se funziona indipendentemente da riferimenti extratestuali.
C’è molta attenzione e
tenerezza nelle situazioni, anche le più intense, e occasionalmente un pizzico
di malinconia, e a questo si aggiunge la scoperta da parte del neoumano, un po’
disgustato dall’idea di esserlo, di che cosa significhi essere veramente tali, “infettati”
di umanità, come la vede lui: che cosa si prova, fisicamente ma soprattutto
psicologicamente ed emotivamente. Il fatto che si sia a contatto con dei Nativi
americani – il padre di Asta, Dan (Gary Farmer), è il proprietario di una
locanda – e che il piccolo Max abbia come miglior amica una bambina musulmana, Sahar
(Gracelyn Awad Rinke), fanno bene intendere che c’è una consapevolezza, da
parte della serie, del concetto di “alieno” in senso più ampio, metaforico
(vengono definiti “resident alien” negli USA gli immigrati non ancora
cittadini), per quanto finora non si sia esplicitamente riflettuto in questa
direzione ed è un’occasione sprecata. A un ritrovo sugli extra-terrestri, Harry
non gradisce che la propria identità sia trattata come un costume, Asta commenta
con un equivalente di “dillo a me”, ma il massimo a cui si è arrivati è piantare
l’idea che un alieno possa essere un “Cristoforo Colombo dello spazio” (1.09).
Il richiamo che viene
elicitato in modo più forte è a Northern Exposure - Un medico fra gli Orsi,
con un piccolo paesino dove finisci per conoscere un po’ alla volta i
personaggi pittoreschi locali o le leggende del posto, cosa che aggiunge una nota di
fascino e stimola lo spettatore a tornare. Anche per la presenza della cultura
indigena, ovviamente. La sceneggiatura di
questa creazione di Chris Sheridan non è a quei livelli, ma non ci si sente
alieni, è il caso di dirlo, ma accolti. Con garbo. Ho sentito criticata la
serie perché cercherebbe di essere troppe cose contemporaneamente: non la
condivido perché gli elementi si compenetrano ibridandosi alla perfezione.
Molta della serietà del
programma viene dalle backstory di Asta (una relazione abusante e una
bimba data via alla nascita) e di D’Arcy, infelice, che beve un bel po’ ed è
alla ricerca di una relazione, così come l’elemento di avventura è assicurato
dalle indagini dello sceriffo, come dal tentativo del protagonista di ritrovare
il device che gli permetterebbe di annientare l’umanità e di riprendere la
propria nave e tornare a casa. Il messaggio ultimo va in direzione dell’amicizia
e dell’amore.
Notare che le scritte in sovrimpressione appaiono in caratteri alieni (in realtà in esperanto, secondo Wikipedia), prima di apparire in inglese. Anche la sigla, ogni volta diversa, con vignette a fumetti che illustrano che cosa in una situazione è appropriato fare e che cosa no, è una chicca.
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