lunedì 29 giugno 2015

ORPHAN BLACK: la terza stagione


NB. Nei primi due paragrafi ci sono SPOILER rispetto agli avvenimenti della terza stagione, ma nei paragrafi successivi c’è solo una riflessione sulla serie in toto, che può essere letta anche separatamente.  

Era terminata con un colpo di scena che aveva istantaneamente allargato la mitologia del programma la seconda stagione di Orphan Black: esistevano i Castor, cloni maschili (interpretati da Ari Millen), organizzati militarmente. E la terza stagione, per quanto sia partita su questo fronte un po’ lentamente, è stata costruita idealmente proprio su di loro, anche se di fatto sono stati esplorati poco: nati con un difetto che porta a problemi neurologici seri e alla morte, sono stati in cerca del Castor originale per poter trovare, grazie al suo genoma, una cura per sé. Il colpo di scena maggiore della terza stagione perciò in fondo c’è stato con il sottofinale (3.09), con l’attesa rivelazione che l’Originale è Kendall Malone, la madre di Ms S (Maria Doyle Kennedy), che ha in sè due linee cellulari diverse e ha dato pertanto origine tanto ai Castor quanto alle Leda. La finale (3.10), che ci ha regalato una tecnicamente meravigliosa cena di famiglia in risposta al ballo di gruppo dell’anno precedente, è stata quasi anticlimatica, pur avendo avendoci lasciati con una Delphine (Évelyne Brochu) possibilmente morta, dopo che le hanno sparato, e il ritorno a tutta forza dei Neoluzionisti, uno dei cui leader si è rivelata essere la madre di Rachel, finora creduta morta, prima di chiudersi con una affettuosa riunione sulla neve di Sarah con Kira (Skyler Wexler). L’immagine incapsula un grande tema di questa stagione, quello della maternità, ripreso su più fronti - si pensi, oltre alle genitrici appena citate in questo paragrafo, anche a quella temibilissima dei Castor, la dottoressa Virginia Coady (Kyra Harper), scienziata.

Il personaggio di Sarah è stata, come e più che in passato, il maggior fulcro delle vicende, insieme a  Helena, la più ferale, pazza e vulnerabile delle creature. La memorabile citazione di questa stagione viene proprio da lei, poco prima che faccia una strage: “You should not threaten babies”  (Non dovreste minacciare i bambini) (3.09). Solo a  ricordarla, pronunciata con aria minacciosa col suo distintivo accento ucraino, fa venire da ridere – e si può contare solo su Orphan Black probabilmente per far ridere a questo modo su un pluriomicidio; Cosima ha iniziato una relazione con Shay (che per un nanosecondo si è creduta una talpa dei Castor, ma che certamente nasconde qualcosa che verrà fuori nella prossima stagione); Alison, e Donnie (Kristian Bruun), con la campagna elettorale di lei e la presa in gestione del Bubbles come copertura della loro attività di spacciatori di droga (con tanto di citazione di Breaking Bad) sono stati usati alla fine solo come sollievo comico, e non è dispiaciuto, anche se questo li ha un po’ isolati rispetto al resto delle vicende. Tatiana Maslany, oltre a loro e a Rachel (e a Beth), quest’anno ha anche continuato il suo tour de force con un memorabile nuovo clone aggiunto alla lista che mi auguro abbia maggior rilievo in futuro, Krystal. È perfino sorprendente quanto riesca ancora ad essere fresca e originale.

Quello che mi colpisce ancora una volta è quanto femminile sia questo programma. Non solo le protagoniste principali sono donne, ma lo sono anche personaggi minori che facilmente avrebbero potuto essere pensati come ruoli maschili. Ho perfino pensato: “questa è la regola per gli uomini, aspettarsi personaggi del proprio genere sessuale di appartenenza in così grande quantità”. Come è strano, e in fondo triste e vergognoso, che io come donna invece non ne sia abituata. Qui non mancano sicuramente gli uomini, e hanno anche bei personaggi -  Felix (Jordan Gavaris); Paul (Dylan Bruce), che in questa stagione sacrifica la vita per amore di Sarah; Scott (Josh Vokey); Donnie… - ma sono secondari.

Il New York Times, in un articolo che caldeggio, ha proprio riflettuto su come la serie, al di là del tema di base più ovvio della natura vs cultura, estenda questa stessa riflessione su questioni di genere, e diventi una meditazione sulla femminilità. “Che aspetto ha la stessa identica donna se la cresci della capsula di Petri di ‘Desperate Housewives’ o in un film horror ambientato nell’Europa dell’Est? E in un poliziesco procedurale? Il risultato è una rivelazione: invece di esistere ciascun archetipo come personaggio femminile solitario nel proprio rispettivo universo, questi tropi normalmente isolati si trovano, si alleano e cercano di liberarsi dal sistema malvagio che le ha create”. E “(s)strutturando la storia intorno alle differenza dei cloni, ’Orphan Black’ sembra suggerire che la monotona uniformità imposta sugli archetipi femminili esistenti deve morire”. Non è sufficiente prendere un prototipo di donna e semplicemente cambiarle la pettinatura per avere un nuovo personaggio.  

Non sono la tua proprietà, non sono il tuo esperimento, non sono la tua arma, non sono il tuo giocattolo: queste frasi accompagnavano le locandine della terza stagione della serie, ciascuna sull’immagine di uno dei cloni. Questo evidenzia l’altra grande attualissima tematica politica affrontata dalla serie, quella sul corpo femminile e sul suo possesso e determinazione. Nel sopracitato articolo Graeme Manson, ideatore del programma, è esplicito nel collegare le vicende alle questioni femministe: “A chi appartieni, a chi appartiene il tuo corpo, la tua biologia? Chi controlla la riproduzione?” I cloni si battono di continuo per controllare la propria vita, il proprio corpo, la propria fertilità, e con questo la propria umanità, contro chi dall’esterno vede in loro solo il valore si proprietà intellettuale, corpi che possono essere monitorati, regolati, fecondati, sterilizzati…

A me è tornato in mente il titolo di una famosa raccolta di scritti femministi degli anni Settanta curata da Robin Morgan, Sisterhood is Powerful, perché in effetti la Sorellanza è Potente in Orphan Black. Sono donne che si aiutano, diventano sorelle, famiglia l’una per le altre ed è questo ciò che consente loro di respingere gli attacchi esterni e preservarsi. Fanno rete. “Seestra” (o “”Sistra” se si preferisce la traslitterazione all’italiana) dice Helena per riferirsi alle altre: “Sorella”. I personaggi non sono soli, ma contano sull’aiuto reciproco anche nelle più estreme o bizzarre circostanze. E possono convivere e condividere i propri rispettivi universi senza necessariamente entrare in conflitto.

Per riprendere un’ultima volta l’articolo firmato da Lili Loofbowrow, il programma nel far coesistere vari universi femminili offre anche una metacritica ai generi che gestisce, rifiutandosi di metterli in opposizione l’uno all’altro, ma integrandoli. Orphan Black è insomma una serie dalla trama molto asciutta e tesa, che si perde poco in considerazioni a margine, apparentemente, ma nondimeno le storie riverberano in notevolissime e importanti riflessioni. 








domenica 21 giugno 2015

GAME OF THRONES (5.10): intenso ed elettrizzante


So di essere in minoranza, ma mi è molto piaciuta la quinta stagione di Game of Thrones, che ho trovato rivitalizzata, a momenti tragedia greca, a momenti storia romana, biblica e shakespeariana. E la season finale, “Mother’s Mercy – Madre misericordiosa” (5.10), scritta da David Benioff e D.B. Weiss, mi ha elettrizzata come non succedeva ormai dalla prima stagione: è stata intensa e così ricca di colpi di scena che si rincorrevano, grandi e piccoli, che non c’era nemmeno il tempo di prendere fiato. C’è stato quasi un sovraccarico adrenalinico, ma decisamente appagante. Le polemiche in proposito si sono sprecate, e alcune critiche hanno anche fondamenti ragionevoli, ma non le condivido.

Attenzione SPOILER sulla chiusura della quinta stagione.

Alcuni avvenimenti che hanno pompato sangue nella puntata – Arya che diventa cieca; Theon/Reek e Sansa che saltano dalle mura di Winterfell; Daenerys che non riesce a tornare a casa perché il suo drago è ferito e finisce circondata dai Dothraki – sono veri e propri cliffhanger nel senso che la risoluzione della situazione è ormai posticipata alla prossima stagione. Ci sono stati momenti toccanti (l’incontro padre-figlia fra Jamie e Myrcella, Sam e John Snow che si salutano, Melisandre che riporta a Davos che Shireen è morta) e di fugace soddisfazione (Tyrion e Varys che si ritrovano – la forza della ragione in un mondo fanatico).

E poi naturalmente ci sono state le morti: quella a flash del cadavere di Selyse che penzola impiccata per suicidio; quella inaspettata, quasi istantanea, shoccante e ingiusta di Myrcella che muore avvelenata fra le braccia del padre; quella attesa e da lui a questo punto quasi desiderata di Stannis , che ha ucciso la figlia come sacrificio per la vittoria in battaglia (con evidenti echi di Agamennone e Ifigenia), e su cui Brienne ha fatto cadere la spada (o almeno così presumiamo – l’evento in sé non si è visto, e questo lascia margine di ipotesi alternative); e naturalmente quella più sconvolgente di tutte, quella di John Snow, pugnalato dai confratelli Guardiani della Notte, molto “Giulio Cesare” (Tu quoque, Olly?), avvenuta in chiusura, che ci lascia con questo gran protagonista steso sulla neve mentre gli cola fuori il sangue.  

Quest’ultima morte specifica si è trascinata dietro una bufera di reazioni. E se comprendo che l’affetto per uno specifico personaggio – per quanto per me lagnoso come lui, che ad esclusione dei momenti delle sue relazioni personali è più interessante da morto che da vivo – trovo incomprensibile la rabbia e l’indignazione per questa morte. Valar Morghulis è un motto della serie – tutti gli uomini devono morire. Se c’è una e una sola regola che è chiara almeno dal momento della decapitazione di Ned Stark nella prima stagione è che nessun personaggio è al sicuro, tutti sono sacrificabili e chiunque potrebbe essere il prossimo a lasciarci le penne. Per quello sdegnarsi tanto della morte di qualunque personaggio significa solo non aver capito l’ethos della serie, e mi chiedo per che cosa uno la segua proprio a fare, se è così. Personalmente mi sorprenderebbero solo le morti di Arya, Daenerys e Tyrion, ma nemmeno loro sono al sicuro. Anzi, mi aspetto che muoiano anche loro, prima o poi. Io immagino la chiusura di tutta la storia con l’ipotetica morte di uno degli ultimi due, ad esempio.   

C’è chi ipotizza, nonostante l’attore abbia dichiarato nelle interviste che non è previsto un suo ritorno, che in realtà John Snow non sia definitivamente morto: Melisandre potrebbe averlo resuscitato, potrebbe diventare un Estraneo, il suo spirito potrebbe essersi trasferito in un metalupo… In quel caso, staremo a vedere. Ma nel frattempo, in tono molto brusco e poco compassionevole, mi verrebbe da dire “piantatela di frignare, e godetevi la storia”. E il “frignare” non lo intendo riferito al piangere il personaggio, il lutto per il quale può ben essere sentito e anzi è un buon segno per i narratori, ma nel senso di smetterla di considerarlo un tradimento da parte degli autori che stanno invece proprio per questo facendo un buon lavoro.

Il secondo altro momento del contendere della finale di stagione, oltre alla dipartita di John Snow, è stata la “walk of shame” – la-camminata-della-vergogna di Cersei Lannister, finalmente liberata dal carcere, ma costretta a percorrere la strada fino al castello nuda, in mezzo alla folla che la ingiuria e la denigra, seguita da una donna che ad ogni istante ripete “vergogna”, mentre ferita ai piedi, sempre più laceri, affamata e disidratata, ricoperta di sterco e sputi trattiene a stento le lacrime di dolore e umiliazione. La scena, basata da Martin sulle vicende storiche di Jane Shore, una delle amanti di Edoardo IV che ha dovuto fare una simile camminata per Londra (sebbene vestita), ha radici storiche profonde - nella Francia del XIII° secolo, ad esempio, le adultere venivano portate nude per le strade per la pubblica umiliazione – e questa punizione richiama numerosi racconti di letteratura medievale di pubblica prostrazione (con flebili echi di Lancillotto e Ginevra in questo caso, nota qualcuno). L’ho trovato un momento eccellente, lungo, doloroso e mortificante, ben recitato da Lena Headey che ha mantenuto una dignitosa compostezza e regale eleganza, pur nella fragilità e tragicità del momento, mostrando i tentativi di piegarla e la forza di superarli e la speranza per un riscatto futuro. È stato un momento “cristico” di una via crucis che mi ha genuinamente provocato il pianto. La regia di David Nutter ha sempre avuto il polso della situazione, ed è stato così per tutta la puntata.

Molti vedono in questa scena un atteggiamento misogino. Non io. La serie mostra parecchia misoginia, ma non mi sento di accusare la serie di macchiarsene. Anzi. Spesso e volentieri considero femminista la creazione di George R.R. Martin, anche così come interpretata per la televisione. C’è molta violenza e tanta è a scapito delle donne, ma altrettanta è a scapito degli uomini. Game of Thrones mostra un mondo di stampo medievale. È un mondo brutale. La finzione fa il mimo della realtà.

E se alla fine di tutto siete stufi di tragedie e di pianti, fatevi due risate con l’esilarante musical dei Coldplay basato sulla serie (su FB trovate anche la versione sottotitolata in italiano: qui).

sabato 20 giugno 2015

THE ASTRONAUT WIVES CLUB: fiacco e poco nitido


Dal pilot (il cui titolo è appropriatamente “Launch”) The Autronaut Wives Club, che è stata “lanciata” lo scorso 18 giugno sull’americana ABC, è sembrata una superficiale Army Wives in versione vintage, o un Pan Am, un po’ più “gossipposa”, ma concederò qualche altra puntata a questa serie sviluppata per la TV da Stephanie Savage (Gossip Girl) e basata sul libro dallo stesso titolo di Lily Koppel. Le critiche che ho sentito su quest’ultimo lamentavano la presenza di troppi personaggi, senza che nessuno venisse realmente approfondito e un eccesso di pettegolezzo. È la sensazione avuta in partenza anche dalla serie, dove i tanti personaggi sono poco nitidi o appena abbozzati e alla fine del primo appuntamento solo tre o quattro si riescono a focalizzare.

Siamo agli inizi degli anni ’60 e gli Stati Uniti, in rivalità con l’Unione Sovietica, intraprendono delle missioni per inviare l’uomo nello spazio e poi sulla luna. Gli astronauti (gli originali Mercury Seven) diventano dei veri eroi nazionali, e le donne che stanno loro accanto come mogli attraggono la stampa “leggera” che all’improvviso vuole sapere tutto di loro. Diventano quasi una sorta di club e si creano alleanze e rivalità e dietro all’apparenza di famiglie perfette, si scoprono le vite vere. I personaggi sono persone realmente vissute.

Sono Betty (JoAnna Garcia Swischer), sposata con Gus Grissom (Joel Johnstone); Rene (Yvonne Strahovski), sposata con Scott Carpenter (Wilson Bethel); Louise (Dominique McElliott), sposata con Alan Shephard (Desmond Harrington); Trudy (Odette Annable), sposata con Gordon “Gordo” Cooper (Bret Harrison); Marge (Erin Cummings), sposata con Deke Slayton (Kenneth Mitchell); Annie (Azure Parsons), sposata con  John Glenn (Sam Reid); e Jo (Zoe Boyle), sposata con Wally Schirra (Aaron McClusker). Le segue un giornalista, Max Kaplan (Luke Kirby).

L’attenzione di queste donne sotto i riflettori è direttamente proporzionale a quella dei propri mariti. La prima a emergere del gruppo è Louise Shepard, ultrariservata e schietta nel dire al consorte di non umiliarla privatamente o pubblicamente nel momento in cui lo vede amoreggiare con un’altra donna. Alan è stato scelto come il primo uomo per andare sullo spazio, ma i russi battono tutti mandandoci Yuri Gagrin. Un evento epico come questo è menzionato come occasione di delusione per Alan, per bocca di Dunkan “Dunk” Pringle (Evan Handler, Californication), addetto alle pubbliche relazioni della NASA,  ma ha davvero poco impatto emotivo-narrativo. E l’entusiasmo per il fatto che comunque  rimane il primo americano è presente, ma molto tiepido. Qui e lì ci sono pagliuzze dei cambiamenti socio-culturali e femministi che stanno avvenendo a quell’epoca, ma almeno per ora sembrano estremamente deboli. 

Uno degli aspetti più godibili è la commistione fra tranche di filmati di repertorio risalenti a quell’epoca e fiction attuale. Ad esclusione di quello il risultato è molto fiacco. 

lunedì 15 giugno 2015

STITCHERS: una serie Frankenstein


Kirsten (Emma Ishta), una ragazza che soffre di una fittizia malattia chiamata displasia che la rende incapace di percepire lo scorrere del tempo, viene arruolata in un programma di “tessitura”: con un sistema bioelettrico gestito da una  agenzia federale segreta guidata da Maggie (Salli Richardson-Whitfield, Eureka), la sua coscienza viene “tessuta” (“stitched” in inglese) nella memoria di persone da poco morte, al fine di recuperare a vari fini i loro ultimi ricordi. Nel pilot, ad esempio, la “cuciono” nella mente di una persona che ha posizionato delle bombe pronte ad esplodere, per capire dove si trovano e per disinnescarle. Una squadra, di cui fanno parte il neuroscienziato Cameron Goodkin (Kyle Harris) e l’ingegnere bioelettrico Linus Ahluwalia (Ritesh Rajan), monitorizza le sue reazioni, pronta ad intervenire lì dove è necessario e a “scucirla”.

Questa è la  base narrativa da cui parte Stitchers: un pizzico di Fringe, un po’ di iZombie, qualche goccia di Alias e una spruzzata di The Big Bang Theory.  Ideata da Jeffrey Alan Schechter, che non la considera fantascienza ma fiction speculativa, questa serie di ABC Family avrebbe anche avuto del potenziale. Poteva diventare un telefilm capace di indagare i limiti della memoria e del tempo, nella confezione di un procedurale leggero. È ben lungi dall’esserlo: si prende decisamente troppo sul serio, o forse semplicemente quando cerca di scherzare non ci riesce fino in fondo.

La protagonista si vuole che sia poco reattiva e competente emozionalmente – con la compagna di stanza Camille Engelson (Allison Scagliotti) ha un pessimo rapporto, se tale si può definire; il suo passato familiare pure ha molte aree poco chiare. Questo sulla carta è una buona base per consentirle un apprendimento mediato dalla psiche degli altri. È evidente che è quella sarebbe l’intenzione, ma sullo schermo non si vede che ci si possa riuscire, se non in modo molto superficiale.

Almeno in partenza, la serie è scritta alla carlona e assemblata quasi fosse una specie di Frankenstein: gli stitches narrativi, i punti di sutura, sono troppo approssimativi e visibili. Ne è uscito un mostro.

lunedì 8 giugno 2015

UPFRONTS 2015 - 2016: ABC


La ABC agli upfronts ha presentato i seguenti programmi.


Quantico: questa serie ideata da Josh Safran (Smash, Gossip Girl) è un thriller ambientato a Quantico, sede di addestramento di un gruppo d’elite di agenti dell’FBI. Fra le nuove reclute c’è una ragazza che potrebbe essere un’agente sotto copertura che pianifica un grande attacco terroristico che si rivela a poco a poco, muovendosi fra passato, presente e futuro e scoprendo qual è la storia di ciascuno dei personaggi. Qui il trailer.



Oil: precedentemente conosciuta con il titolo Boom, questa serie è ambientata in North Dakota nel boom del petrolio di scisto. Una giovane coppia, Billy (Chance Crawford, Gossip Girl) e Cody (Rebecca Rittenhouse) Lefever, vi si trasferisce in cerca di fortuna, ma si scontra con il locale magnate senza scrupoli, Briggs (Don Johnson, Miami Vice) che ha un difficile rapporto con il figlio e li costringe a mettere a rischio tutto, compreso il loro matrimonio. È definito come una specie di Dallas dei nostri giorni. Qui il trailer.



Of Kings and Prophets: questa storia epica fantasy ispirata all’Antico Testamento e ambientata in Israele segue Re Saul (Ray Winstone) e la salita al potere del giovane pastore David (Oliver Rix). La serie viene da Adam Cooper e Bill Collage. Qui un primo sguardo.



The Muppets: dalla mente di Bill Prady (The Big Bang Theory) e Bob Kushell (Anger Management) the Muppets è un programma che punta a un pubblico più maturo di The Muppet Show, e ha un taglio meta-testuale, dal momento che è uno show su uno show (i muppet conducono un talk show in seconda serata), e usa (non senza ironia) il format del muckumentary seguendo Kermit, Miss Piggy e gli altri in un dietro le quinte del programma e a casa. Qui il trailer.



Dr Ken: in questa sit-com Keng Jeong (Community), un medico anche nella vita reale prima del successo come attore, interpreta un il dottor Ken, un dottore ben intenzionato ma non bravissimo a trattare con i pazienti. Sul fronte di casa, cerca di essere un buon marito e un buon padre tenendosi  in equilibrio fra proteggere e supportare i suoi figli. Nel cast anche Suzy Nakamura, Dave Foley e Jonathan Slavin. Qui un primo sguardo.



Per midseason sono invece previsti:


The Catch: basato su un romanzo di Kate Atkinson e adattato da Jennifer Schuur (Hannibal), questo thriller dalla produttrice Shonda Rhimes (Grey’s Anatomy, Scandal, Le Regole del Delitto Perfetto) ha anche qualche venatura da soap opera. Un investigatrice di frodi, Alice Martin (Mireille Enos, The Killing) è lei stessa vittima di una frode da parte del suo presto ex-fidanzato Kieren (Damon Dayoub) che lei deve riuscire a fermare prima che le rovini la carriera. Qui il trailer.



Wicked City: è una serie antologica ideata da Steven Baigelman originariamente intitolata L.A. Crime. Ogni stagione sarà dedicata a una diversa era della storia di Los Angeles. La prima stagione si concentra sul Sunset Strip, nel 1982, in un periodo di sesso, droga, rock & roll. Kent Galloway (Ed Westwick, Gossip Girl) abborda una ragazza in un locale e la uccide. Due detective, Jack Roth (Adam Rothenberg, Ripper Street) e il suo nuovo partner vengono assegnati al caso e ipotizzano si possa trattare di un omicidio da parte di un serial killer. Una aspirante giornalista, Karen McClaren (Taissa Farmiga, American Horror Story), ha visto la vittima proprio la sera dell’evento, e comincia a lavorare con un fotografo della scena del crimine per scoprire di più. Kent esce un un’altra donna, Betty (Erika Christensen, Parenthood), ma il fatto che sia madre di due figli frena Kent dal farla diventare la prossima vittima. Intrecciano una relazione e diventano in qualche modo complici. Qui il trailer.



Uncle Buck: basata sul film di John Hughes del 1989 che già in passato si è tentato di trasformare in serie tv, questa sit-com vede Mike Epps nel ruolo del protagonista, uno sciatto scapolo che deve imparare a prendersi cura dei figli del fratello, un maschio e due femmine, quando la loro tata si licenzia e lui, in cerca di lavoro, ne prende il ruolo. Qui il trailer.



The Real O’Neals: ideata da David Windsor e Casey Johnson (Happy Hour) e prodotta da Dan Savage, ha come protagonista una famiglia cattolica modello che smette di fingere di essere perfetta e cerca di essere quella che è: il matrimonio è in crisi, un figlio ammette di essere gay, un altro di avere un disordine alimentare…I genitori sono interpretati da Martha Plimpton (Raising Hope) e Jay R. Ferguson (Mad Men). La serie ha già attratto le proteste dei conservatori e di organizzazioni religiose, sebbene manchino ancora molti mesi alla messa in onda. Qui il trailer.



The Family: originariamente intitolato Flesh and Blood, questo thriller con venature di soap opera è ideato da Jenna Bans (Desperate Housewives). Una sindaco (Joan Allen) di una cittadina decide di candidarsi come governatore dello Stato quando ritorna Adam, il figlio scomparso una dozzina di anni prima per un rapimento e creduto morto. Il padre John nel frattempo è diventato autore di una serie di libri di successo in cui si parla di come affrontare il dolore di una simile perdita. I fratelli, Danny (Zach Gilford, Friday Night Lights) e Willa (Alison Pill, The Newsroom), che dovevano tenerlo d’occhio, hanno dovuto affrontare il senso di colpa: lui si è dato al bere, lei alla religione e al lavoro. Nina Meyer (Margot Bingham), la giovane poliziotta che aveva messo in carcere Hank, il loro vicino, per l’omicidio di Adam, ora è una detective affermata, ma il caso deve essere riaperto. Adam è ri-accolto in famiglia, ma è davvero lui? Qui il trailer.


lunedì 1 giugno 2015

CRITICS' CHOICE TELEVISION AWARDS: i vincitori


Sono stati consegnati i Critics’ Choice Television Awards che, lo ricordo, non sono i premi dei critici televisivi, come potrebbe forse supporsi dal nome del premio, ma sono i premi dati dall’associazione dei giornalisti che lavorano in televisione.

Ecco i vincitori:
Miglior drama: The Americans
Miglior attore in un drama. Bob Oderkirk, Better Call Saul
Miglior attrice in un drama: Taraji P. Henson, Empire
Miglior attore non protagonista in un drama: Jonathan Banks, Better Call Saul
Miglior attrice non protagonista in un drama: Lorraine Toussaint, Orange is the New Black
Miglior ospite in una drama: Sam Elliott, Justified

Miglior Comedy: Silicon Valley
Miglior attore in una comedy: Jeffrey Tambor, Transparent
Miglior attrice in una comedy: Amy Schumer, Inside Amy Schumer
Miglior attore non protagonista in una comedy: TJ Miller, Silicon Valley
Miglior attrice non protagonista in una comedy: Allison Janney, Mom
Miglior ospite in una comedy: Bradley Whitford, Transparent

Miglior film per la TV: Bessie
Miglior miniserie: Olive Kitteridge
Miglior attore in un film per la TV / miniserie: David Oyelowo, Nightingale
Miglior attrice in un film per la TV /Miniserie: Frances McDormand, Olive Kitteridge
Miglior attore non protagonista in un film per la TV / miniserie: Bill Burray, Olive Kitteridge
Miglior attrice non protagonista in un film per la TV / miniserie: Sarah Paulson, American Horror Story

Miglior Reality: Shark Tank
Miglior reality di competizione: Face Off
Miglior presentatore di reality: Cat Deeley, So You Think You Can Dance
Miglior serie animate: Archer
Miglior talk show: the Daily Show with Jon Stweart