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lunedì 10 marzo 2025

BAD SISTERS: la prima e la seconda stagione

Remake (nella prima stagione) di Clan, serie televisiva fiamminga del 2012, Bad Sisters (Apple TV+) è una black comedy irlandese sviluppata da Sharon Horgan, Dave Finkel e Brett Baer, che l’hanno poi proseguita per una seconda. Quest’ultima ha forse avuto un lieve calo rispetto alla impeccabile prima, ma è stata comunque dinamica ed intrigante, piena di colpi di scena e un ritmo invidiabile.

Protagoniste sono le cinque sorelle Garvey, che vivono a Dublino. Eva (Sharon Horgan, Catastrophe), la primogenita, si è presa cura delle più piccole dopo la morte dei genitori. Lavora in uno studio di architettura. È single e non può avere figli. Grace (Anne-Marie Duff, Shameless, Sex Education) è sposata con John Paul (Claes Bang), collega della sorella Eva, un uomo fortemente controllante che la sminuisce di continuo, annullandola, ma di cui è innamorata e con cui ha una figlia, Blánaid (Saise Quinn). Ursula (Eva Birthistle) è un’infermiera. Sposata con tre figli che ha anche una relazione extraconiugale con il suo insegnante di fotografia. Bibi (Sarah Greene), che porta una benda dopo aver perso un occhio in un incidente, è lesbica ed è sposata con Nora e madre adottiva di un bambino. Becka (Eve Hewson, figlia del cantante Bono, giusto per curiosità), la più giovane di loro, è una terapista del massaggio che aspira ad aprire un proprio studio

A SEGUIRE SPOILER RISPETTO ALLA TRAMA.

Nel corso della prima stagione Eva, Ursula, Bibi e Backa si alleano per tentare di uccidere, senza successo, Jean Paul, il marito di Grace, per come tratta lei e loro. Alla fine lui muore comunque (e scopriremo come). La narrazione si sposta continuamente fra il presente in cui l’uomo è finalmente morto e il passato, che ci mostra le costanti angherie di lui, a cui vorremmo tirare il collo noi stessi e in cui si crea indubbiamente empatia nei confronti della protagoniste che lo vorrebbero eliminare e, in modo assai esilarante, mostra i loro variegati tentativi di faro. Grace dovrebbe ritirare la cospicua assicurazione sulla vita, ma trova la resistenza degli agenti di assicurazione della Claffin & Sons che fallirebbero se pagassero. Thomas ("Tom") Claffin (Brian Gleeson) cerca perciò di fare di tutto per dimostrare che non lo debbono fare, con l’aiuto anche del fratellastro Matthew "Matt" (Daryl McCormack) che, inizialmente all’oscuro di chi sia nella vicenda, comincia una relazione con Becka. Nelle vicende è anche coinvolto il vicino di casa di Grace, segretamente innamorato di lei, Roger (Michael Smiley).

Nella seconda stagione sono passati due anni dalle vicende della prima (così come due anni dalla messa in onda): Grace si risposa con Ian (Owen McDonnell), ma presto è lei stessa a morire. Le sorelle vogliono scoprire la verità e pensano possa essere coinvolta la sorella iper-religiosa del vicino Roger, Angelica (Fiona Shaw). E se l’ispettore della polizia  Fergal Loftus (Barry Ward) comincia a mollare la presa sulle investigazioni perché sta per andare in pensione ed è preso dalla vicenda personale dell’ex-moglie che vuole portare all’estero la figlia, la nuova giovane e brillante detective Una (Thaddea Graham) ha l’entusiasmo della neofita e la persistenza di un cane con un osso e sta sempre loro addosso. Anche in questo caso si arriva alla soluzione e viene scoperto come è andata e cosa ha condotto alla morte dell’amata Grace. La musica assume qui e lì delle sfumature alla The White Lotus.

L’accattivante sigla di apertura (stagione1) mantiene un filo conduttore nel senso che, pur essendo le immagini diverse, mostra sempre una macchina di Rube Goldberg, ovvero un domino a cascata fra vari oggetti, sottolineata dal tema musicale che è una cover di “Who by Fire” di Leonard Cohen eseguita da PJ Harvey. Azzeccatissimo. Se nel primo arco la tensione e l’umorismo dark derivano dall’escogitare nuovi modi per uccidere Jean Paul che proprio non vuole morire, e dal fallimento di ogni tentativo, nella seconda stagione questo è assicurato da una serie di incidenti che rischiano di far accusare di omicidio le sorelle in questo caso innocenti, minacciate però dal vero colpevole.

La prima stagione è solo in parte una revenge story, perché le quattro sorelle si coalizzano per liberare la sorella da quello che via via si rivela un sociopatico e proteggere la nipote, non per vendicarsi, ma quello è certamente un bonus dato che hanno loro stesse validi motivi di odiarlo: Eva viene abilmente tormentata da lui perché non può avere figli, e si scopre poi che l’ha violentata; Ursula viene ricattata e riesce a farsi mandare da lei con l’inganno una foto osé; Bibi deve la perdita del suo occhio a un incidente causato da lui; e Becka vede sfumare i propri sogni dopo che lui le promette poi negando un investimento economico a un suo progetto; Roger, viene accusato di essere un pedofilo a causa di deliberati tentativi di lui di farlo passare per tale. Insomma, si merita l’appellativo di “prick”, “coglione”, “cazzone”, ma credo (l’ho letto ma non visto) tradotto “minchione” nella versione italiana. È razzista, omofobo, non perde occasione di ferire.

Forse per far accettare la scelta (im)morale delle protagoniste, Jean Paul non ha elementi che possano redimerlo, è cattivo e basta. E se qui la storia è una freccia scoccata che tira dritto, la seconda stagione è più tortuosa, “frangiata”, ma ugualmente incalzante e riesce in ogni caso da andare a segno. Una terza stagione la vedo forzata perché ci si tiene comunque ad un certo realismo, e tornare su certi schemi potrebbe richiedere un’eccessiva sospensione dell’incredulità. Devo ammettere che mi riuscirebbe gradita comunque. Tutte le interpretazioni, dalle protagoniste ai comprimari, sono brillanti ed è magnifico il rapporto di sorellanza che si ritrae: donne che si amano, si proteggono, si fidano e confidano, condividono il bene e il male e ci sono sempre l’una per l’altra. 

lunedì 29 giugno 2015

ORPHAN BLACK: la terza stagione


NB. Nei primi due paragrafi ci sono SPOILER rispetto agli avvenimenti della terza stagione, ma nei paragrafi successivi c’è solo una riflessione sulla serie in toto, che può essere letta anche separatamente.  

Era terminata con un colpo di scena che aveva istantaneamente allargato la mitologia del programma la seconda stagione di Orphan Black: esistevano i Castor, cloni maschili (interpretati da Ari Millen), organizzati militarmente. E la terza stagione, per quanto sia partita su questo fronte un po’ lentamente, è stata costruita idealmente proprio su di loro, anche se di fatto sono stati esplorati poco: nati con un difetto che porta a problemi neurologici seri e alla morte, sono stati in cerca del Castor originale per poter trovare, grazie al suo genoma, una cura per sé. Il colpo di scena maggiore della terza stagione perciò in fondo c’è stato con il sottofinale (3.09), con l’attesa rivelazione che l’Originale è Kendall Malone, la madre di Ms S (Maria Doyle Kennedy), che ha in sè due linee cellulari diverse e ha dato pertanto origine tanto ai Castor quanto alle Leda. La finale (3.10), che ci ha regalato una tecnicamente meravigliosa cena di famiglia in risposta al ballo di gruppo dell’anno precedente, è stata quasi anticlimatica, pur avendo avendoci lasciati con una Delphine (Évelyne Brochu) possibilmente morta, dopo che le hanno sparato, e il ritorno a tutta forza dei Neoluzionisti, uno dei cui leader si è rivelata essere la madre di Rachel, finora creduta morta, prima di chiudersi con una affettuosa riunione sulla neve di Sarah con Kira (Skyler Wexler). L’immagine incapsula un grande tema di questa stagione, quello della maternità, ripreso su più fronti - si pensi, oltre alle genitrici appena citate in questo paragrafo, anche a quella temibilissima dei Castor, la dottoressa Virginia Coady (Kyra Harper), scienziata.

Il personaggio di Sarah è stata, come e più che in passato, il maggior fulcro delle vicende, insieme a  Helena, la più ferale, pazza e vulnerabile delle creature. La memorabile citazione di questa stagione viene proprio da lei, poco prima che faccia una strage: “You should not threaten babies”  (Non dovreste minacciare i bambini) (3.09). Solo a  ricordarla, pronunciata con aria minacciosa col suo distintivo accento ucraino, fa venire da ridere – e si può contare solo su Orphan Black probabilmente per far ridere a questo modo su un pluriomicidio; Cosima ha iniziato una relazione con Shay (che per un nanosecondo si è creduta una talpa dei Castor, ma che certamente nasconde qualcosa che verrà fuori nella prossima stagione); Alison, e Donnie (Kristian Bruun), con la campagna elettorale di lei e la presa in gestione del Bubbles come copertura della loro attività di spacciatori di droga (con tanto di citazione di Breaking Bad) sono stati usati alla fine solo come sollievo comico, e non è dispiaciuto, anche se questo li ha un po’ isolati rispetto al resto delle vicende. Tatiana Maslany, oltre a loro e a Rachel (e a Beth), quest’anno ha anche continuato il suo tour de force con un memorabile nuovo clone aggiunto alla lista che mi auguro abbia maggior rilievo in futuro, Krystal. È perfino sorprendente quanto riesca ancora ad essere fresca e originale.

Quello che mi colpisce ancora una volta è quanto femminile sia questo programma. Non solo le protagoniste principali sono donne, ma lo sono anche personaggi minori che facilmente avrebbero potuto essere pensati come ruoli maschili. Ho perfino pensato: “questa è la regola per gli uomini, aspettarsi personaggi del proprio genere sessuale di appartenenza in così grande quantità”. Come è strano, e in fondo triste e vergognoso, che io come donna invece non ne sia abituata. Qui non mancano sicuramente gli uomini, e hanno anche bei personaggi -  Felix (Jordan Gavaris); Paul (Dylan Bruce), che in questa stagione sacrifica la vita per amore di Sarah; Scott (Josh Vokey); Donnie… - ma sono secondari.

Il New York Times, in un articolo che caldeggio, ha proprio riflettuto su come la serie, al di là del tema di base più ovvio della natura vs cultura, estenda questa stessa riflessione su questioni di genere, e diventi una meditazione sulla femminilità. “Che aspetto ha la stessa identica donna se la cresci della capsula di Petri di ‘Desperate Housewives’ o in un film horror ambientato nell’Europa dell’Est? E in un poliziesco procedurale? Il risultato è una rivelazione: invece di esistere ciascun archetipo come personaggio femminile solitario nel proprio rispettivo universo, questi tropi normalmente isolati si trovano, si alleano e cercano di liberarsi dal sistema malvagio che le ha create”. E “(s)strutturando la storia intorno alle differenza dei cloni, ’Orphan Black’ sembra suggerire che la monotona uniformità imposta sugli archetipi femminili esistenti deve morire”. Non è sufficiente prendere un prototipo di donna e semplicemente cambiarle la pettinatura per avere un nuovo personaggio.  

Non sono la tua proprietà, non sono il tuo esperimento, non sono la tua arma, non sono il tuo giocattolo: queste frasi accompagnavano le locandine della terza stagione della serie, ciascuna sull’immagine di uno dei cloni. Questo evidenzia l’altra grande attualissima tematica politica affrontata dalla serie, quella sul corpo femminile e sul suo possesso e determinazione. Nel sopracitato articolo Graeme Manson, ideatore del programma, è esplicito nel collegare le vicende alle questioni femministe: “A chi appartieni, a chi appartiene il tuo corpo, la tua biologia? Chi controlla la riproduzione?” I cloni si battono di continuo per controllare la propria vita, il proprio corpo, la propria fertilità, e con questo la propria umanità, contro chi dall’esterno vede in loro solo il valore si proprietà intellettuale, corpi che possono essere monitorati, regolati, fecondati, sterilizzati…

A me è tornato in mente il titolo di una famosa raccolta di scritti femministi degli anni Settanta curata da Robin Morgan, Sisterhood is Powerful, perché in effetti la Sorellanza è Potente in Orphan Black. Sono donne che si aiutano, diventano sorelle, famiglia l’una per le altre ed è questo ciò che consente loro di respingere gli attacchi esterni e preservarsi. Fanno rete. “Seestra” (o “”Sistra” se si preferisce la traslitterazione all’italiana) dice Helena per riferirsi alle altre: “Sorella”. I personaggi non sono soli, ma contano sull’aiuto reciproco anche nelle più estreme o bizzarre circostanze. E possono convivere e condividere i propri rispettivi universi senza necessariamente entrare in conflitto.

Per riprendere un’ultima volta l’articolo firmato da Lili Loofbowrow, il programma nel far coesistere vari universi femminili offre anche una metacritica ai generi che gestisce, rifiutandosi di metterli in opposizione l’uno all’altro, ma integrandoli. Orphan Black è insomma una serie dalla trama molto asciutta e tesa, che si perde poco in considerazioni a margine, apparentemente, ma nondimeno le storie riverberano in notevolissime e importanti riflessioni.