sabato 29 ottobre 2016

THE A WORD: l'autismo in primo piano


Già rinnovata per una seconda stagione, The A Word (BBC1), ha come protagonisti un bimbo autistico – la A del titolo sta appunto per ‘autismo’ - e i suoi familiari ed è stata sviluppata e interamente scritta da Peter Bowkers sulla base di una serie israeliana, Yellow Peppers di Keren Margalit.

Joe Hughes (Max Vento) ha 5 anni. Trascorre gran parte del suo tempo con delle enormi cuffie sulle orecchie, ascoltando canzoni di cui conosce testi e autori, e cantandole a voce alta – la colonna sonora che accompagna le vicende ha una certa pregnanza. Lo fa per tagliare fuori il mondo. Lo incontriamo la prima volta che cammina solo per una solitaria via immersa nella rigogliosa, fredda, silenziosa natura del Lake District nel nord-ovest dell’Inghilterra, finché un camioncino non lo va a riprendere e lo porta a casa. Glielo vedremo fare più volte nel corso delle 6 puntate della prima stagione, così come lo vedremo chiudere ogni volta la porta del tutto prima di aprirla per entrare da qualche parte. È un bambino diverso. E i familiari inizialmente non vogliono accettarlo, ma alla fine devono ascoltare le parole degli esperti. È bravo, gentile e affettuoso, ma ha significativi problemi di comunicazione, ha difficoltà nel processo uditivo, non nel senso di non riuscire a sentire, ma nel dar senso a ciò che sente e del dare priorità a quel che sente, ha difficoltà nella risposta emozionale e comportamenti di auto-rassicurazione. In una parola è autistico, ho meglio è nello spettro dell’autismo perché, spiegano e ribadiscono, non si tratta di un singolo disturbo e non è una malattia, ma si tratta di una serie di comportamenti che creano difficoltà nella comunicazione sociale. La diagnosi è dura per tutta la famiglia.

Mamma Alison (Morven Christie) in particolare non vuole l’etichetta, perché teme che la comunità del paese dove vivono finisca per ridurre suo figlio solo a quello. Cerca di fare il meglio per il piccolo, a rischio di prevaricare gli altri, e trascurando anche la figlia sedicenne Rebecca (Molly Wright) i cui problemi diventano invisibili.  Dopo che la sua prima storia di sesso e amore finisce male riesce a confidarsi più che con i genitori con gli zii che sono venuti a vivere vicini, Eddie (Greg McHugh) che ora gestisce il birrificio di famiglia, fratello della madre, e sua moglie Nicola (Vinette Robinson), che cerca la riconciliazione dopo averlo tradito. Per papà Paul (Lee Ingleby) si tratta del primo figlio biologico e quasi vorrebbe farne un altro per avere una seconda possibilità, pur essendo oberato di lavoro per l’imminente apertura di un gastropub. Nonno Maurice (il sempre eccellente Christopher Eccleston, in un cast tutto molto solido) non sempre ha il miglior rapporto con i figli (Alison e Eddie), pur cercando a modo suo di essere presente per il nipotino e la famiglia. Non  ha ancora superato del tutto la morte della moglie e instaura una relazione con la sua insegnante di musica Louise (Pooky Quesnel), che ha un figlio con la sindrome di Down.

Si comincia a parlare parecchio di autismo in TV, e il modello più vicino che viene alla mente in questo caso è quello di Parenthood, visto anche il similare approccio attraverso la lente del nucleo familiare. Ci sono diversi parallelismi. Qui in The A Word spesso ci sono domande e non risposte. Quale è il tipo di scuola migliore? Meglio lasciare Joe in una scuola “normale”, educarlo in casa o mandarlo in una scuola specializzata a trattare casi simili al suo? (1.02) Che tipo di sentimenti prova il piccolo? Troppi, troppo pochi? Bisogna forzarlo a provarne, a mostrarli? (1.05) Che tipo di relazioni e di vita potrà avere? C’è un Joe più reale di quello che si vede dentro quello che traspare? Per un momento (1.04) Alison si illude che possa essere miracolosamente guarito – gli aneddoti e qualche articolo di letteratura parlano di situazioni in cui, in momenti di febbre alta, i soggetti hanno una diminuzione della loro sintomatologia, cosa che accade a lui. Quale delusione risvegliarsi la mattina successiva e vedere che quella gioia era un’illusione, frammenti di una realtà che devono rassegnarsi a non poter avere. Il grande tema di fondo, legato alla sua situazione specifica, ma anche a quella di tutti i familiari, è quello della comunicazione, di come sia difficoltosa e poco lineare. Messi intorno a un tavolo da una terapeuta, le modalità di ciascuno di gestire il relazionarsi reciproco, talvolta disfunzionale, emergono esplicitamente.

La serie non ha soluzioni facili. È stata criticata perché manca di umorismo, quando certi comportamenti degli autistici spesso provocano involontaria ilarità, e perché nell’essere accurata è stata troppo da manuale, quando il fatto che c’è uno spettro dell’autismo significa proprio che c’è una certa varietà di fenotipi comportamentali, diciamo così, che hanno la propria specifica individualità. (The Guardian) Rimane spazio per superare questi eventuali limiti in stagioni successive. Il prisma dei rapporti familiari e interpersonali in generale sono quello che brilla in questa serie. Spesso i momenti migliori si hanno non quando si guarda direttamente alla tematica scelta, ma quando si mostra la quotidianità che nulla ha a che vedere con quello, ma che ne viene condizionata.

giovedì 20 ottobre 2016

Un Natale BLACKISH: "Stuff - Roba" (2.10)


Devo ammettere che una delle riflessioni più originali e stimolanti della seconda stagione di Black-ish è stata quella sul Natale. Il senso della puntata natalizia standard è molto simile a quella del senso comune in cui si lamenta che si è perso lo spirito del Natale facendolo diventare una cosa puramente commerciale, e si finisce grosso modo con la stessa quantità di doni sotto l’albero solo conditi di maggiore consapevolezza del senso ultimo della festa. Qui sembra prima facie che accada la stessa cosa, ma il discorso messo in scena è molto più sottile. 

Gli adulti della famiglia si lamentano della scarsa considerazione che i ragazzi danno a qualunque cosa ce non sia avere moltissimi regali e per di più quelli che vogliono loro. Sono interessati solo alla roba – “Stuff” (2.10), roba, è proprio il titolo della puntata. Il nonno (Laurence Fishburne) propone un Natale alla vecchia maniera in cui ciascuno ha un solo regalo e la cena è pollo fritto ordinato pronto e mangiato dal cartone, proprio come quelli dell’infanzia di Dre (Anthony Anderson). Lui li detestava. Riceveva sempre e solo cetriolini sottaceto e difende il diritto e il piacere di avere tutti quei doni – sia per il lui stesso che adora vedere il volto soddisfatto dei suoi figli sia per loro che se li godono. Entrambi i genitori trovano triste che ci sia un solo oggetto sotto l’albero e, sebbene ufficialmente si segua il piano del nonno, alternativamente organizzano nella cabina-armadio un Natale segreto, più contenuto ma comunque “commerciale”. Il Natale alla vecchia maniera è un fallimento, nessuno ne coglie il senso, ma quando cercano di ripiegare sul Natale alla nuova maniera il risultato non è migliore. Non c’è soddisfazione nel volto dei giovani, irriconoscenti. Zoe (Yara Shahidi), ad esempio, si lamenta che ha ricevuto un iPhone 6 e non un iPhone 6S. come aveva espressamente richiesto. Come uscire dall’impasse?

È il confronto dalle due generazioni di adulti che porta alla soluzione. Nonno Earl confessa al il figlio che anche a lui non è mai piaciuta la celebrazione della festa così come la facevano, ma non poteva permettersi altro e si vergognava troppo per ammetterlo, così cercava di spacciarlo per il modo migliore. Regala al figlio i pattini che per anni da bambino questi gli aveva chiesto e i figli a turno promettono che cercheranno di apprezzare di più quello che ricevono.

La radicalità della puntata sta nella sua laicità. I Johnson, come molte persone, festeggiano il Natale come una sorta di ricorrenza civile volta a mostrare l’affetto fra le persone attraverso lo scambio di doni, più che non nel suo significato cristiano. Qui accade proprio questo, e senza scuse o finzioni. Questo fatto è enfatizzato da nonna Ruby (Jenifer Lewis). Lei è l’unica del gruppo che si può considerare effettivamente religiosa. E come festeggia il Natale? Dal momento che è il genetliaco di Gesù, prepara una torta di compleanno con tanto di candeline, e non solo canta “happy birthday” al  “Gesù nero”, come lo chiama lei, di fronte alla faccia perplessa e vagamente disdegnata della nuora Bow (Tracee Ellis Ross), ma intona anche  “perché è un bravo ragazzo” al suo Salvatore nella perplessità generale. Il distacco da qualunque idea di religiosità è piuttosto marcato.

Non a tutti piacerà, ma devo dire che io, che ne condivido lo spirito, lo apprezzo molto. Questo testo comunque si innesta su un discorso più ampio sulla religiosità che meriterebbe un approfondimento separato.

sabato 15 ottobre 2016

DIVORCE: intrappolati e infelici


Si identificherà anche come comedy, per quanto magari nera, ma non c’è praticamente nulla di umoristico in Divorce (HBO), la nuova serie ideata da Sharon Horgan (autrice dell’esilarante Catastrophe) che vede Sarah Jessica Parker (la ben nota Carrie di Sex and the City) nel ruolo di Frances, una newyorkerse matura con due figli adolescenti che decide in divorziare dal marito Robert (Thomas Haden Church).

Che finisca per comunicarglielo mentre stanno letteralmente portando via in barella dietro di lei il marito di un’amica, Diane (Molly Shannon), e che abbia l’illuminazione di non amare più il consorte, pur avendo di fatto da tempo una relazione extraconiugale con un professore (Jemaine Clement, Flight of the Conchords), nel momento in cui Diane spara al marito che non sopporta in occasione della festa per il proprio cinquantesimo compleanno, è il segno evidente da principio di quanto irrealistica si presenti la serie e di quanto viscidi si concepiscano i rapporti. Più e più volte in corso di via viene da esclamare “ma andiamo!”. Forse sono questi i momenti che si suppone debbano essere divertenti. E quando il marito le fa della avances di sesso orale in modo esplicito per farle cambiare idea, la messa in scena lascia perfino disgustati. Lei in realtà si ritira infastidita, e forse provocare questa sensazione era l’obbiettivo, ma invece di segnalare una perdita di intimità fisica, il risultato finale è solo quello di creare repulsione. Non aiuta il fatto che i due attori sembrino recitare con “tonalità” diverse e, forse sono io, dato che leggo ovunque opinioni diverse dalla mia, ma il suo stile distaccato e vagamente sarcastico non mi provoca ilarità, me lo fa sentire annoiato.

Non che sia tutta da buttare. Pepite preziose qui e lì ci sono anche – una di queste c’è quando un’amica le dice che divorziare in questo momento della vita significa solo essere soli da più vecchi, sebbene la conversazione che segue pure permetta ben poco di empatizzare con il personaggio della protagonista. Dal pilot si ha una distinta, precisa percezione di come ci si può trovare intrappolati in una vita che non si vuole in un’età in cui le prospettive altre non sono così brillanti, e in un momento in cui non si è forse ancora disperati, ma non si è felici. Che le cose possano essere diverse forse è solo un’illusione per andare avanti. Questo è il nucleo pregnante che magari si riuscirà a esplorare meglio in puntate successive, ma la narrativa è altrimenti priva di immaginazione quando si tratta di svelare che cosa si perda nel divorziare o che cosa di guadagni, umanamente parlando.

L’ambientazione è di grande atmosfera e il rapporto con i figli è promettente, ma nella pletora di proposte allettanti nel panorama televisivo autunnale, non vale la pena riservare a questa serie un secondo sguardo.  

lunedì 10 ottobre 2016

BLACK-ISH: una brillante seconda stagione


La celebrata “Hope” (2.16) è con ogni probabilità il vertice della eccellente seconda stagione di Black-ish. Papà Dre (Anthony Anderson), Mamma Rainbow (Tracee Ellis Ross), la primogenita Zoey (Yara Shahidi), il figlio Junior (Marcus Scribner), i gemelli Jack (Miles Brown) e Diane (Marsai Martin) e i nonni Pops (Laurence Fishburne)  e Ruby (Jenifer Lewis) sono in soggiorno davanti alla TV e gli adulti cercano di spiegare a figli e nipoti come mai ci sono molti giovani arrabbiati, come reazione all’ennesimo evento di violenza da parte di poliziotti nei confronti di neri disarmati. Punteggiano la puntata riferimenti a “Between the world and me” di Ta-Nehishi Coates, libro mostrato anche fisicamente. E si discute seriamente, fra le molte battute. È stata una volta in più quello che la sit-com è riuscita spesso ad essere sin dal suo esordio e in modo acuto in questo secondo round: attuale, pregnante, rilevante. Lo è in generale per la cultura americana e anche specificatamente in questo caso per la cultura Afro-Americana. I Johnson sono neri, e giustamente non vogliono fingere di non esserlo anche se si è nella cosiddetta società post-razziale.

In “The Word” (1.01) si è discusso su chi e quando può usare l’epiteto fortemente razzista e insultante che inizia con la lettera enne, in americano, quella che appunto chiamano “the n word”, dopo che il piccolo usa la parola in uno spettacolo scolastico; in “Rock, Paper, Scissors, Gun” (2.02) si è affrontato il tema dell’opportunità di tenere o meno un’arma in casa, per ragioni di sicurezza per la propria famiglia, con Dre favorevole, e Bow contraria; in “Keeping up with the Johnsons” si sono trattate questioni di danaro, tema in realtà trasversale in molte delle puntate – la serie ripudia la romanticizzazione facilona della povertà, visto come cosa sofferta in più occasioni (si pensi anche alla 2.10, su cui farò un post apposito, o a 2.22 o alla finale 2.24); in “Sink o Swim” (2.14), oltre a posizionarsi contro gli stereotipi razziali – dei neri come mangiatori d’anguria o incapaci di nuotare, attività che non avrebbero mai avuto il tempo di apprendere impegnati nel loro “tirocinio non pagato”, come scherzosamente è definita la schiavitù – ci si scaglia anche contro gli stereotipi di genere: i gemelli, seguendo le proprie inclinazioni, si scambiano le attività che la nonna e la comunità vuole loro imporre in base al loro sesso, lui cucina e lei si dà al salvataggio; Dre si definisce un femminista, ma in casa si discute ferocemente se sia opportuno o meno per la moglie prendere il cognome del marito in “Johnson & Johnson” (2.20), perché lui lo vorrebbe, ma lei no; il ruolo della paternità (2.04) e della maternità, le cure mediche e i check up dei neri (2.03), il ruolo del barbiere della comunità (2.08), l’amicizia (2.11), l’educazione dei figli (2.19)…

C’è una prospettiva multi-generazionale e spesso, con foto dei tempi andati, si dà proprio anche una prospettiva storica. Si riportano fatti veri, spesso con molta ironia. Le risate infatti sono abbondanti, anche per i commenti spesso esageratamente razzisti o comunque fuori dalla realtà nera dei colleghi di lavoro di Dre, esilarante coro greco sulle vicende, anche per le reiterate situazioni di assoluto egoismo della vendicativa e tremendissima piccola Diane, anche per le disfunzionali dinamiche suocera-nuora che elevano l’insulto a arte umoristica nella tradizione de I Jefferson,  anche infine per l’autentica capacità espressiva attoriale, e penso in particolare alla magnificamente plastica Ross, o Deon Cole, che interpreta Charlie, a cui basta un’espressione degli occhi per elicitare il riso. Non sono mancate nemmeno parodie su modalità narrative specifiche, come quella del documentario (in 2.17 con Diane che deve fare un documentario appunto su Jack che gioca a basket) o quella del promo elettorale (in 2.18, con Diane impegnata in una sua personalissima campagna).

Un tema emerso in modo esplicito è la pressione a essere un modello per una comunità nera in mancanza di una pluralità di opzioni. Gli Obama vengono menzionati in più di un’occasione  - e i Johnson si vestono anche come  la famiglia Obama per Halloween (2.06) – ma è alla TV che molto si guarda. Casi giudiziari recenti a parte, pure menzionati, ci si inchina dinanzi a “I Robinson” che sono stati un faro da cui si vuole raccogliere la staffetta – ne ripropongono perfino  la sigla, con loro stessi come protagonisti, in pochi secondi che mostrano una volta di più la loro eccellenza (2.21). In alcuni di questi dibattiti, davvero il metatesto si fa testo. Si menzionano comunque altri show “neri”, che siano i più recenti Scandal (2.03) ed Empire (2.08) o i più vintage Arnold o Good Times (2.24). È chiaramente uno show con una propria consapevole identità televisiva, conscio anche dell’eredità che reclama.

Nominata all’Emmy come miglior serie comica, Black-ish, non ha portato quest’anno a casa una statuetta che avrebbe facilmente meritato per una stagione che è stata vincente su tutta la linea: vibrante, appassionata, intelligente, amorevole, esilarante.

martedì 4 ottobre 2016

MACGYVER (2016): stantio


I cosiddetti MacGyverismi ammetto che lasciano sempre un po’ di stucco, ma il nuovo MacGyver, reboot dell’omonima serie TV degli anni ’80 con Richard Dean Anderson, delude moltissimo, anche se alla fine del pilot si spiega l’origine della Phoenix Foundation per cui l’eroe ha sempre lavorato e anche se si intravedono alcune delle sue caratteristiche distintive (la sua riluttanza all’uso delle armi da fuoco, ad esempio). Non è solo che non si rende giustizia all’iconico personaggio ideato da Lee David Zlotoff, è che il risultato è proprio pessimo.

Il giovane Angus MacGyver (Lucas Till), che qui non ha problemi a presentarsi col suo nome di battesimo, mentre nell’originale questo è un gran segreto per lungo tempo, dopo studi all’MTI, esperienza militare e trofei vari vinti in campo scientifico, lavora ora per il segretissimo Dipartimento di Servizi Esterni, al cui vertice c’è Patricia Thornton (Sandrine Holt, Hostages), che deve occuparsi dei soliti progetti di distruzione o conquista del mondo da parte di cattivi di turno. Accanto a lui troviamo Jack Dalton (George Eads, CSI), abile con le armi, e la sua ragazza Nikki (Tracy Spirikados, Revolution). Per la fine del pilot lei è uscita di scena (o forse no?) e al suo posto come analista informatica entra l’hacker fino ad allora tenuta in carcere di massima sicurezza, Riley Davis (Tristin Mays). Mac, come lo chiamano come nomignolo, ha poi un compagno di stanza (il cui ruolo sembra quello di consentire un momento leggero-comico), Wilt (Justin Hires).

Non si capisce davvero perché la CBS abbia deciso di riesumare quello che ha tutta l’aria di uno zombie, se non voleva impegnarsi a fare sul serio. Nessuno si aspetta cronaca vera, ma i personaggi sono così inverosimili da apparire risibili (un esempio per tutti Riley e la sua uscita dal carcere), quasi parodistici. Le vicende sono trite e il dialogo sono puramente di servizio – e nella prima puntata che esordisce con delle scene girate sul lago di Como non si ha avuto nemmeno l’accortezza di assumere degli under-five (così nel sistema americano vengono contrattualmente definiti quegli attori che sono più di mere comparse, ma hanno meno di 5 battute) che sapessero pronunciare l’italiano in modo decente.


Un primo pilot era stato cestinato perché non convinceva. Forse sarebbe stato meglio fare lo stesso con questo. Il cast è anche più che dignitoso, ma la qui non si dice nulla che non sia stato già detto, e meglio, in passato. Questa incarnazione sviluppata da Peter M. Lenkov  odora già di stantio.