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venerdì 10 novembre 2017

ATYPICAL: sesso, amore, autismo


Cresce notevolmente dopo il pilot la serie Atypical, ideata da Robia Rashid (The Goldbergs) per Netflix, che racconta la scoperta dell’amore e del sesso di un diciottenne, Sam Gardner (interpretato con acume, tenerezza e humor da Keir Gilchrist), che è nello spettro del’autismo ed è altamente funzionante.

Sam è uno studente di liceo che ha una grande passione per l’Antartide e i pinguini – la serie era conosciuta originariamente come Antarctica, e questa regione si presta in modo evidente come metafora della condizione del personaggio. La sua vita si svolge fra la scuola, dove ad aiutarlo e proteggerlo c’è la sorella minore Casey (Brigette Lundy-Paine), una promessa della corsa sportiva,  il lavoro da Techtropolis (una sorta di Mediaworld o Trony), e le sedute con la psicologa, Julia Sasaki (Amy Okuda), per la quale sviluppa presto una cotta. A casa è da sempre stato il centro dell’universo della madre Elsa (Jannifer Jason Leigh), mentre il padre Doug (Michael Rapaport) non è mai riuscito ad accettare fino in  fondo le difficoltà del figlio.

Frizzante e leggero, questo dramedy di primo acchito non convince del tutto perché presenta un personaggio principale che è una collezione stereotipata di criteri diagnostici dell’autismo, e le scene fra i genitori sono troppo forzate nell’essere una sorta di spiegazione riassuntiva di quanto avvenuto fino ad allora (mentre il rapporto con la sorella è più genuino). Però è una rarità vedere una famiglia mostrata in medias res, ovvero non al momento della scoperta della situazione, ma quando ormai è un pezzo che la vive e con il passare delle puntate si guadagna in spessore. ATTENZIONE SPOILER. Sebbene non vengano mostrati magari i danni in autostima sul ragazzo di una madre iper-controllante (un tropo in questo genere di situazioni), la si comprende di fronte a un padre che quando il momento si è fatto duro è sparito. Che, ora che il figlio è più grande, trovi una valvola di sfogo in una relazione extra-coniugale con il barista Nick (Raúl Castillo, Looking) ha senso. Sotto questo profilo i personaggi appaiono via via più tridimensionali e umani.

Se è vero che quello messo in scena è un caso troppo “da manuale”, è anche vero che si vuole insegnare un po’ l’ABC di quella che, viene detto, “è una patologia neurologica, non una malattia curabile” (1.04) spiegando ad esempio, attraverso un gruppo di supporto a cui si rivolge la madre, che non si dice “autistico”, ma si cerca una formulazione che faccia venire la persona prima della diagnosi, così come ci si esprime in termini di “neuro tipici” e “neuro atipici”. Sono aspetti molto di base che, per chi non ha familiarità con la questione, sono comunque essenziali.

L’obiettivo sembra poi essere quello di mostrare che tutte le relazioni sentimentali sono difficili e motivo di confusione su come sarebbe meglio comportarsi in assenza di regole chiare e di molte ambiguità comunicative. Chi ha problemi di autismo ha sicuramente difficoltà in più, ma anche gli altri prendono molte cantonate e commettono errori. Questo si vede dal rapporto fra i genitori del protagonista, ma anche da quello della psicologa che va in crisi con il fidanzato per via di un fraintendimento causato involontariamente proprio da Sam, così come dal nascente amore fra Casey ed Evan (Graham Rogers, Quantico). E se Sam è particolarmente imbranato e maleducato con la sua “ragazza per far pratica”, Paige (Jenna Boyd), non è solo perché ha problemi neurologici, ma anche perché è una adolescente che riceve consigli da un altro adolescente che si crede un grande amatore, l’amico Zahid (Nik Dodani), il classico nerd asiatico, evidentemente scritto a fini umoristici.     

Persone nello spettro dell’autismo hanno valutato offensiva la rappresentazione fatta. Sebbene gli autori abbiano “fatto i compiti” – hanno avuto come consulente Michele Dean, che ha lavorato per il Centro per la Ricerca e il Trattamento dell’Autismo alla California State University (Paste) - , l’assenza di qualcuno fra di loro che viva effettivamente questa realtà è stata rimproverata, e i comportamenti del protagonista nelle diverse situazioni in cui è stato messo sono state giudicate “violente, viscide, crudeli e fanno sembrare il personaggio autistico un mostro. Quando il programma poi cambia marcia per farci sentire tristi per Sam, la caratterizzazione diventa ancora più offensiva. Sostenere che coloro che hanno patologie neurologiche non dovrebbero essere ritenute responsabili di ferire gli altri è tanto paternalistico quanto socialmente irresponsabile”. (Salon) Raccolgo queste osservazioni, che venendo da persone direttamente interessate ha più peso di altre, ma ammetto di non aver avuto la stessa percezione, forse perché ho letto la narrazione in un registro decisamente più umoristico. È vero poi che Sam è apparso molto duro, ma non mi è capitato di sentirmi triste per lui (semmai per chi lo circondava), né di credere che i suoi comportamenti lo esimevano da eventuali responsabilità. Forse, non soffrendo io di questo genere di problemi, non sono in grado di vedere l’offensività di alcune rappresentazioni, e questo è eventualmente un mio limite.   

giovedì 5 ottobre 2017

THE GOOD DOCTOR: dall'autore del dottor House


Aiuta sapere che The Good Doctor, la nuova serie dell’americana ABC appena confermata per un’intera stagione, è stata sviluppata, sulla base di un successo della TV sudcoreana firmato da Park Jae-bum, da David Shore, già ideatore di House. Questo perché, intuendone il potenziale, si è più ben disposti a chiudere un occhio su alcune ingenuità del pilot.

Shaun Murphy (un eccelente Freddie Highmore, Bates Motel) è un giovanissimo chirurgo che soffre di autismo e con la sindrome del savant. Nell’infanzia è stato oggetto di bullismo da parte dei coetanei, incompreso e oggetto d’abuso in famiglia, in particolare da parte del padre. Solo il fratello minore, finché ha potuto, lo ha difeso e protetto. Suo mentore da quando aveva 14 anni, il dottor Aaron Glassman (Richard Schiff, The West Wing), presidente del San Jose St. Bonaventure Hospital, si batte perché possa essere assunto come residente nel suo ospedale, e, nonostante all’inizio abbia solo il sostegno di Jessica Preston (Beau Garrett, Girlfriend’s Guide to Divorce),  alla fine la spunta. Non tutto lo staff è convinto però perché i colleghi temono che i suoi problemi possano essere un ostacolo maggiore di quanto non sia d’aiuto la sua brillantezza. Lo sostiene con veemenza il primario di chirurgia Marcus Andrews (Hill Harper) e lo fa capire al diretto interessato in sala operatoria il dottor Neal Melendez (Nicholas Gonzales). Chi lo prende in simpatia è la dottoressa Claire Browne (Antonia Thomas,  Lovesick), che ha una storia di sesso con il collega Jared Hulu (Chuku Modu).

Dal pilot, che introduce parecchi personaggi (e relazioni fra i residenti declinati un po’ alla Grey’s Anatomy), è chiaro che ci sono temi cari a Shore, come la presenza di una persona particolarmente dotata intellettualmente che si trova sotto altri aspetti in difficoltà, che deve imparare a convivere con gli altri; i problemi di non essere neurotipici e l’importanza di vedere questa diversità come un potenziale piuttosto che un ostacolo; l’interrogarsi su quanto contino per un medico non solo l’abilità tecnico-professionale, ma anche l’empatia e la capacità di rapportarsi con i propri pazienti sul piano umano; la sinergia e le frizioni fra la parte burocratico-amministrativa e quella clinico-medica di un ospedale… Qui poi, la visione si arricchisce di una sorta di “realtà aumentata” alla CSI poiché i ragionamenti spazio-visuali sul corpo umano (e non solo) che fa il protagonista vendono illustrati per noi con dei disegni in sovrimpressione, con le indicazioni mediche, così come certi termini e procedure vengono spiegate con delle scritte che appaiono sullo schermo: notevole, anche se concretamente un po’ faticoso da seguire per la velocità con cui avviene.

Un punto debole sono stati i flashback del protagonista, ma solo perché un po’ troppo lacrimevoli e “manipolatori” da un punto di vista emozionale, scontati nelle loro conclusioni (la sorte del fratello e il discorso che tiene Shaun che convince tutti a dargli una possibilità) – forse è dovuto alla matrice sudcoreana? E nella narrazione non si sono state molte sottigliezze, per cui si è rimasti tiepidi. Una critica sensata è venuta da Crippled Scholar, che ha le credenziali di un vero esperto (si veda qui),  secondo cui il personaggio è troppo stereotipato, un’incarnazione troppo smaccata dei criteri diagnostici del DSM, con capacità al limite della credibilità e solo inteso come “ispirazione”, infantilizzato e interessato più a vivere per gli altri che per se stesso, cosa che viene rimproverata ad Hollywood per essere il modo standard di ritrarre le disabilità (Crippled Scholar).  Osservazioni pregnanti. Comunque, appunto, il pedigree di Shore permette di trascurare questi aspetti, almeno per ora, e di dare alla serie una possibilità.     

sabato 29 ottobre 2016

THE A WORD: l'autismo in primo piano


Già rinnovata per una seconda stagione, The A Word (BBC1), ha come protagonisti un bimbo autistico – la A del titolo sta appunto per ‘autismo’ - e i suoi familiari ed è stata sviluppata e interamente scritta da Peter Bowkers sulla base di una serie israeliana, Yellow Peppers di Keren Margalit.

Joe Hughes (Max Vento) ha 5 anni. Trascorre gran parte del suo tempo con delle enormi cuffie sulle orecchie, ascoltando canzoni di cui conosce testi e autori, e cantandole a voce alta – la colonna sonora che accompagna le vicende ha una certa pregnanza. Lo fa per tagliare fuori il mondo. Lo incontriamo la prima volta che cammina solo per una solitaria via immersa nella rigogliosa, fredda, silenziosa natura del Lake District nel nord-ovest dell’Inghilterra, finché un camioncino non lo va a riprendere e lo porta a casa. Glielo vedremo fare più volte nel corso delle 6 puntate della prima stagione, così come lo vedremo chiudere ogni volta la porta del tutto prima di aprirla per entrare da qualche parte. È un bambino diverso. E i familiari inizialmente non vogliono accettarlo, ma alla fine devono ascoltare le parole degli esperti. È bravo, gentile e affettuoso, ma ha significativi problemi di comunicazione, ha difficoltà nel processo uditivo, non nel senso di non riuscire a sentire, ma nel dar senso a ciò che sente e del dare priorità a quel che sente, ha difficoltà nella risposta emozionale e comportamenti di auto-rassicurazione. In una parola è autistico, ho meglio è nello spettro dell’autismo perché, spiegano e ribadiscono, non si tratta di un singolo disturbo e non è una malattia, ma si tratta di una serie di comportamenti che creano difficoltà nella comunicazione sociale. La diagnosi è dura per tutta la famiglia.

Mamma Alison (Morven Christie) in particolare non vuole l’etichetta, perché teme che la comunità del paese dove vivono finisca per ridurre suo figlio solo a quello. Cerca di fare il meglio per il piccolo, a rischio di prevaricare gli altri, e trascurando anche la figlia sedicenne Rebecca (Molly Wright) i cui problemi diventano invisibili.  Dopo che la sua prima storia di sesso e amore finisce male riesce a confidarsi più che con i genitori con gli zii che sono venuti a vivere vicini, Eddie (Greg McHugh) che ora gestisce il birrificio di famiglia, fratello della madre, e sua moglie Nicola (Vinette Robinson), che cerca la riconciliazione dopo averlo tradito. Per papà Paul (Lee Ingleby) si tratta del primo figlio biologico e quasi vorrebbe farne un altro per avere una seconda possibilità, pur essendo oberato di lavoro per l’imminente apertura di un gastropub. Nonno Maurice (il sempre eccellente Christopher Eccleston, in un cast tutto molto solido) non sempre ha il miglior rapporto con i figli (Alison e Eddie), pur cercando a modo suo di essere presente per il nipotino e la famiglia. Non  ha ancora superato del tutto la morte della moglie e instaura una relazione con la sua insegnante di musica Louise (Pooky Quesnel), che ha un figlio con la sindrome di Down.

Si comincia a parlare parecchio di autismo in TV, e il modello più vicino che viene alla mente in questo caso è quello di Parenthood, visto anche il similare approccio attraverso la lente del nucleo familiare. Ci sono diversi parallelismi. Qui in The A Word spesso ci sono domande e non risposte. Quale è il tipo di scuola migliore? Meglio lasciare Joe in una scuola “normale”, educarlo in casa o mandarlo in una scuola specializzata a trattare casi simili al suo? (1.02) Che tipo di sentimenti prova il piccolo? Troppi, troppo pochi? Bisogna forzarlo a provarne, a mostrarli? (1.05) Che tipo di relazioni e di vita potrà avere? C’è un Joe più reale di quello che si vede dentro quello che traspare? Per un momento (1.04) Alison si illude che possa essere miracolosamente guarito – gli aneddoti e qualche articolo di letteratura parlano di situazioni in cui, in momenti di febbre alta, i soggetti hanno una diminuzione della loro sintomatologia, cosa che accade a lui. Quale delusione risvegliarsi la mattina successiva e vedere che quella gioia era un’illusione, frammenti di una realtà che devono rassegnarsi a non poter avere. Il grande tema di fondo, legato alla sua situazione specifica, ma anche a quella di tutti i familiari, è quello della comunicazione, di come sia difficoltosa e poco lineare. Messi intorno a un tavolo da una terapeuta, le modalità di ciascuno di gestire il relazionarsi reciproco, talvolta disfunzionale, emergono esplicitamente.

La serie non ha soluzioni facili. È stata criticata perché manca di umorismo, quando certi comportamenti degli autistici spesso provocano involontaria ilarità, e perché nell’essere accurata è stata troppo da manuale, quando il fatto che c’è uno spettro dell’autismo significa proprio che c’è una certa varietà di fenotipi comportamentali, diciamo così, che hanno la propria specifica individualità. (The Guardian) Rimane spazio per superare questi eventuali limiti in stagioni successive. Il prisma dei rapporti familiari e interpersonali in generale sono quello che brilla in questa serie. Spesso i momenti migliori si hanno non quando si guarda direttamente alla tematica scelta, ma quando si mostra la quotidianità che nulla ha a che vedere con quello, ma che ne viene condizionata.