sabato 31 dicembre 2022

LA LISTA DELLE LISTE di METACRITIC, sui migliori programmi TV dell'anno

 

Chiudo l’anno come sempre segnalando “la lista delle liste”, ovvero l’elenco che Metacritic compila riunendo moltissime liste di migliori programmi stilata dai critici televisivi. È sempre un buon punto di riferimento per capire quali sono quelli meglio considerati nell’opinione prevalente.

La lista viene aggiornata grosso modo fino a fine gennaio e si può trovare qui.  

Sotto trovate lo screenshot delle prime posizioni in lista (sono in tutto 30) per come è oggi. 



martedì 27 dicembre 2022

LE MIGLIORI NUOVE SERIE DEL 2022, secondo me

Ogni anno scelgo quelle che ritengo essere state le nuove migliori serie dell’anno. Non ci provo nemmeno a selezionare le migliori in assoluto, perché già è complicato scegliere i nuovi debutti. Con la selezione sempre più ampia che si offre, non si riesce nemmeno, o almeno io non riesco nemmeno, a vedere in tempo utile quelle che si vocifera siano meritevoli: Mo? Bad Sisters? Saranno meravigliosi esempi di televisione seriale, ma io non ho ancora avuto modo di darci una possibilità. Se non fosse del 2015, ad esempio, nella mia lista ci sarebbe indubbiamente Patriot, che io ho guardato solo quest’anno.

Alla fine tutte le liste lasciano il tempo che trovano, quindi mi sta bene semplicemente segnalare programmi che hanno debuttato quest’anno che ho trovato meritevoli. Senza ulteriori indugi, ecco la mia selezione:

Severance: per me la più elettrizzante dell’anno. Non vedo l’ora che ricominci. Ne ho parlato qui.

This is going to hurt: una serie inglese, di cui ho scritto qui.

The Bear: di cuore l’ho amata meno di altre, un po’ troppo ruvida per me, ma intellettualmente è indubbiamente nell’Olimpo: qui.

Somebody Somewhere: una chicca d’autrice di cui parlerò prossimamente.

Heartstopper: perché questo YA LGTBQ+ ha saputo davvero scaldare il cuore: qui.

House of the Dragon: il prequel-sequel del Trono di Spade è stato appassionante: qui.

Pachinko: già a giugno la indicavo fra le migliori dell’anno – qui.

Interview with the Vampire: una notevole rendition dell’omonimo romanzo della scomparsa Anne Rice. Ne parlerò prossimamente.


Ho apprezzato parecchio anche The Rehersal, che tanti stanno indicando fra le migliori serie dell’anno, ma non ho terminato di vederla, e mi sembra più un esperimento che altro, e non sono sicura del tutto di ciò che ne penso umanamente. Dovrei metterci anche Wednesday? Se valuto il buzz e l’impatto culturale, non posso non indicarla fra le migliori dell’anno, diversamente ho qualche riserva, nonostante la sua godibilità. Che dire di Station Eleven? Alla fine mi ha deluso. Vedo in qualche lista altrui anche Star Trek. Strange New Worlds, che sicuramente caldeggio, ma fra le migliori dell’anno addirittura? Nonostante il mio amore per quell’universo, sono perplessa. Vedo indicate anche Yellowjackets ed Abbott Elementary, ma per me è decisamente no per entrambe, sopravvalutate. Sono sempre combattuta nello scegliere. Per inserirle fra le migliori, non devono solo piacermi, possono di fatto piacermi di più anche serie che ho trovato meno buone, ma devono darmi uno specifico brivido che mi fa dire “wow”. In modo più semplice in questo momento non saprei come diversamente spiegarlo.

Che cosa rende una serie meritevole di essere giudicata la migliore, secondo voi? Quali sono i vostri debutti migliori dell’anno?

venerdì 23 dicembre 2022

WEDNESDAY: un gustoso YA creepy

Wednesday, o se preferite Mercoledì, la rivisitazione per Netflix ad opera di Tim Burton del noto personaggio, è diventato un successo istantaneo, già un culto, ed è facile capire il perché: è un sapiente cocktail che miscela umorismo macabro, rivalità e riti di passaggio adolescenziali, mistero e investigazione che incrocia Nancy Drew a  Stranger Things, con un pizzichino di Riverdale e una spruzzata di Buffy, sullo sfondo di un look che mescola l’attuale trend per l’estetica dark-academia e studenti con poteri sovrannaturali alla Harry Potter, pure inseriti in un simile contesto scolastico e di corpo docenti, con un’eroina sicura di sé, ma in fondo vulnerabile, che sardonicamente enuncia battute graffianti. In più è ancorata a un cult della TV, e lo reinterpreta dando anche letture nuove ad elementi ricorsivi ben noti, come lo schioccare delle dita che i protagonisti fanno nella sigla originaria. Godibilissimo.

Mercoledì Addams - una Jenna Ortega che in questo ruolo non viene mai vista battere le ciglia, cosa che ne aumenta l’aria vagamente inquietante, e che si merita tutti gli applausi che sta ricevendo per la sua memorabile iconica interpretazione – viene espulsa da scuola per aver liberato dei piraña in una piscina della scuola, piena di compagni, che avevano maltrattato suo fratello minore, Pugsley. È ormai l’ottava scuola da cui viene cacciata e i genitori, la madre Morticia (Catherine Zeta-Jones) e il padre Gomez (Luis Guzmán), decidono di iscriverla nella loro alma mater, la Nevermore Academy (nome che è un riferimento ad Edgar Allan Poe), che accoglie emarginati di ogni genere, vampiri, lupi mannari, gorgoni, sirene, e persone con poteri particolari, come ad esempio Xavier (Percy Hynes White ), che ha il potere di far vivere la propria arte (se disegna un ragno, questo può animarsi e uscire dal figlio) o Eugene Otinger (Moosa Mostafa) che ha il potere di controllare le api…

La preside Weems (Gwendoline Christie, Il Trono di Spade), ex-allieva della scuola nonché vecchia compagna di Morticia, la accoglie con entusiasmo e Mercoledì, pur contro la sua volontà, si vede costretta a frequentare la scuola e a frequentare sedute di psicoterapia con la dottoressa Valerie Kinbott (Riki Lindhome, del duo comico Garfunkel and Oates). Punto di riferimento adulto per ogni necessità è la “normie”, come chiamano i “normali”, Marilyn Thornhill (Christina Ricci, che ricordiamo ha interpretato lei stessa Mercoledì nel film La Famiglia Addams degli anni ‘90), insegnante di botanica. A “vegliare” su di lei c’è in ogni caso Mano (Thing in originale, Victor Dorobantu), una mano senziente che riesce a vedere e comunicare con lei. Anche zio Fester fa una comparsata (1.07) – e chi avrebbe detto che Fred Armisen (Portlandia) sarebbe stato così perfetto per la parte?

La giovane Addams, che accompagna il look gotico e un atteggiamento nichilista a un broncio d’ordinanza, si vede pure costretta a dividere la sua stanza con la gioiosa, radiosa, sorridente e coloratissima Enid (Emma Myers), una licantropa, che ha una cotta per un gorgone, Ajax (Georgie Farmer), che cerca comunque di farsela amica. Raccoglie immediatamente la dichiarata rivalità di una sirena, Bianca Barclay (Joy Sunday), brillante studentessa. Mercoledì scopre di avere il potere psichico di visioni del passato e del futuro, che la colgono all’improvviso, senza che lei possa controllarlo o prevederlo. Un compagno di classe viene ucciso da una misteriosa creatura e lei indaga, nonostante questo le attiri l’ostilità dello sceriffo Donovan Galpin (Jamie McShane) della Jericho, la cittadina del Vermont dove si trova la scuola. Il figlio di lui, Tyler (Hunter Doohan), che non ha un buon rapporto col padre, e lavora al locale coffee shop, dimostra un interesse per lei.

Se dalla seconda puntata ne ho capito lo spirito, il pilot non mi aveva troppo entusiasmata, devo ammettere. Mi ha preso in contropiede perché trovavo la protagonista spocchiosa e che si reputava superiore agli altri (cosa che lei esplicitamente in seguito dice di non sentirsi), e non gradivo il disprezzo che dimostrava nei confronti dei compagni: non trovavo affatto divertenti le battute dirette a ferirli. Non ci ho visto nemmeno sadismo, solo noia.  Non sono mancati i detrattori in generale, che hanno accusato Netflix di aver confezionato un prodotto troppo alla CW, ovvero una classica storiella adolescenziale, solo decorativamente gotica, poco realistica e prevedibile, incapace di staccarsi dai classici tropi delle rivalità scolastiche, rivelazioni sul passato dei genitori e indecisioni romantiche, e di sguazzare in modo derivativo in quei cliché tribali dell’adolescenza a cui la protagonista dice di non essere interessata. Non basta darle qualche tratto autistico, renderla asociale e non farle volere un cellulare per renderla anticonvenzionale.

Parte delle critiche a questa creazione di Alfred Gough e Miles Millar (entrambi già ideatori di Smallville) hanno fondamento, ma in realtà la serie funziona ugualmente, e in parte anche perché dietro alle risate che l’eccesso di impassibilità, il gusto per il macabro e le battute taglienti garantiscono – se guardi gli Addams non è il realismo dei dialoghi che cerchi - si vede comunque una persona che si percepisce come diversa, e che non ha timore di mostrarlo, come celebra la gloriosa scena di ballo alla festa della scuola in “Woe what a Night” (1.04) ormai diventata virale: è un inno alla propria bizzarra individualità e indubbiamente una delle scene televisive memorabili dell’anno.

Intrattenimento YA creepy mortalmente gustoso.

mercoledì 14 dicembre 2022

THE BEAR: televisione stellata

Intenso, serrato, gridato, anche nelle inquadrature che si affidano a primissimi piani, ansiogeno, con ritmi incalzanti, The Bear (Hulu, in Italia su Disney+), che è il nomignolo con cui è conosciuto il protagonista, porta dietro le quinte di una paninoteca-tavola calda di Chicago.

Carmen “Carmy” Berzatto (Jeremy Allen White), un brillante chef di origine italiana abituato a lavorare nell’alta ristorazione, dove si confezionano manicaretti che finiscono sulle riviste patinate ma dove si subiscono anche pensati abusi verbali sul lavoro, torna a casa per gestire il locale di famiglia dopo il suicidio del fratello maggiore Mikey (Jon Bernthal, The Walking Dead), che si è sparato quattro mesi prima di quando cominciano le vicende. Co-proprietaria del locale, che si chiama The Beef ed è in un mare di debiti, è la sorella minore dei due, Natalie detta "Sugar", ma il manager di fatto dell’umile ristorante è Richard "Richie" Jerimovich (Ebon Moss-Bachrach), loro cugino e miglior amico del defunto. Carmy, si ritrova una cucina fatiscente e uno staff mal organizzato. Assume come sous-chef la giovane Sydney Adamu (Ayo Edebiri) desiderosa di fare esperienza con il talentuoso Carmen, riconoscendone la bravura: lei ha una formazione accademica assicurata dalla CIA (l’Istituto Culinario Americano) e l’impazienza di lasciare la propria impronta. Insieme riorganizzano la cucina, nonostante l’iniziale ostilità di alcuni dello staff che presto però comprende la svolta che possono avere sotto la nuova guida. Fra loro spiccano Tina (Liza Colón-Zayas), determinata cuoca storica del posto, e Marcus (Lionel Boyce), panettiere che aspira a diventare pasticcere.

Ideata da Christopher Storer, che ha scritto una buona porzione degli episodi e ne ha diretti diversi, condividendo i credits della regia con Joanna Calo, la serie, con otto episodi di circa 30 minuti (ma variabili a seconda della puntata) racconta dei ritmi frenetici delle cucine di trincea, ma si trattano temi come il lutto, le ambizioni fallite e quelle nascenti, il mentoring, la famiglia, il cibo, la mascolinità, la salute mentale. Carmy vuole che come forma di rispetto tutti si riferiscano gli uni con gli altri come “chef”, e per evitare incidenti in un luogo ristretto dove c’è continuo movimento e pressione si gridi "Angolo!" o "Dietro!" quando ci si muove vicino a uno spigolo o dietro a qualcuno. È un’impresa corale, dove ciascuno ha un suo ruolo ben definito, che deve funzionare alla perfezione per non crollare nella pressione frenetica delle richieste. Il pianosequenza di quasi venti minuti di 1.07, in cui esplode la tensione in cucina, che The Atlantic (qui) ha definito “semi-sadistico”, e il monologo di circa sette minuti di Carmy nel successivo ultimo episodio (tempesta e quiete), sono memorabili.

Ho trovato molto acuta Lucy Mangan su The Guardian quando osserva come parte della genialità di questo programma consiste nel non rendere Carmy torturato dalla propria brillantezza. Lo è dal dolore, ma “il suo genio è una cosa imbrigliata e controllata. Non lo usa per alimentare un ego mostruoso o per giustificare l'aggressività verso i sottoposti, o per fare altre cose narcisistiche che siamo abituati a credere siano la naturale conseguenza di doni smisurati. Quando perde il controllo, nel penultimo episodio, deve lavorare per fare ammenda. The Bear non perde mai di vista l'impegno necessario non solo per guadagnarsi da vivere, ma anche per essere un essere umano funzionante e semi-decente”.

Se siete disposti a immergervi in un ambiente caotico e fenetico che è certo di provocarvi ansia al solo guardarlo, chiamatela feel-bad television se volete, potete essere certi di venire premiati con un manicaretto di primordine. Televisione stellata. 

lunedì 5 dicembre 2022

THIS IS GOING TO HURT: crudo e venato di umorismo

This is going to hurt, ovvero “Farà male”: questo è il titolo della serie della BBC1 (e co-prodotta dalla AMC, in Italia disponibile su Disney+) ideata e interamente scritta da Adam Kay che l’ha basata sul suo memoir dallo stesso titolo, che racconta le vicende in un reparto di ostetricia e ginecologia di un ospedale inglese del servizio sanitario nazionale. Perciò non si può certo dire che non ci abbiano avvertito. È stato in effetti doloroso, e per la migliore delle ragioni possibili. L’episodio 6 è stata una delle pagine di televisione più belle e devastanti che abbia visto quest’anno: costruita lentamente, montata puntata dopo puntata. Ineccepibile nel dire senza dire, come nessuno meglio degli inglesi sa fare. Se penso all’ultima battuta del personaggio di Shruti (Ambika Mod) in quella puntata, sono capace di mettermi a piangere anche ora. E c’è il dolore fisico ginecologico, che è difficile venga mostrato in un simile ventaglio di situazioni.

All’esordio, nonostante le eccellenti recensioni che la preannunciavano, ero rimasta un po’ infastidita dai commenti sarcastici del protagonista che rompeva la quarta parete, alla Fleabag. Mi parevano inadeguati. Poi si sono fatti più soft o io ho imparato a conoscerlo, chissà…in ogni caso mi ha conquistata. Adam (Ben Whishaw, A Very English Scandal) è un giovane medico completamente assorbito e sfinito per il proprio lavoro nel reparto maternità, tanto che commette l’errore di mandare a casa una paziente che poi necessita un parto cesareo perché in pericolo. Nigel Lockhart (Alex Jennings), suo diretto superiore, deve intervenire e anche Tracy (Michele Austin), la capo ostetrica lo tiene d’occhio. La sua vita privata ne soffre molto perché trascura il ragazzo con cui esce, Harry (Rory Fleck Byrne), e inizialmente lo tiene nascosto ai colleghi e alla madre (Harriet Walter). Il suo affrontare le tensioni con sarcasmo non gli impedisce di sentirsi pressato dal ritmo incalzante delle richieste, dalla scarsità delle risorse, dalla burocrazia e dagli interessi personali, dalle aspettative altrui. Shruti, un’empatica tirocinante, pure è sopraffatta dal lavoro e dallo studio: un collega la invita fuori, ma non ha tempo; i genitori sono orgogliosi di lei, ma ne sente la pressione; scoppia e avere il lavoro che per lei era il sogno di una vita non si rivela quello che si aspettava. Vicky (Ahsley McGuire), sua supervisora al lavoro, la avverte che è sempre così, è molto stressante (1.04), e non tutti ci sono portati.

Le descrizioni delle situazioni sono molto oneste e anche brutali. Io credo di poter dire di sapere una cosa o due sulla fatica, e non so se l’ho mai l’ho vista rappresentata così bene. I protagonisti sono davvero esausti e sono spesso lì per crollare, fisicamente, ma anche proprio per le responsabilità e il burn-out, tirati continuamente da tutte le parti. In questo senso ha particolarmente brillato la summenzionata puntata numero 6, dove si fa un confronto fra il servizio delle cliniche private e quello delle strutture pubbliche e non si dice quello che ci si aspetterebbe: è un applauso ai medici pubblici sottopagati e sovraccarichi di lavoro che fanno davvero miracoli in situazioni impossibili.  Anche sul fronte delle pazienti le situazioni sono toste: c’è quella razzista, quella che subisce abusi in ambito domestico, quella che si taglia con la forbice le grandi labbra perché le trova esteticamente strane…E il parto nella season finale (1.07) è un unicum: non ne ho mai visto uno mostrato in tale dettaglio e realismo, con la telecamera sparata in mezzo alle gambe della partoriente. Non poteva essere più appropriato e di impatto.

Cruda, ma venata di un umorismo che alla fine è necessario, la serie evita il melodramma, anche lì dove sarebbe facile caderci. La recitazione è al massimo livello. Da non perdere.