venerdì 16 settembre 2022

STATION ELEVEN: una realtà post-apocalittica

Station Eleven, la miniserie post-apocalittica della HBO Max basata sull’omonimo romanzo di Emily St. John Mandel, è ambientata vent’anni dopo una pandemia che ha portato al collasso della civilizzazione. Mi ha deluso rispetto alle aspettative, ma gli stimoli che lancia sono notevoli.

Fra i pochi sopravvissuti, c’è un gruppo di attori itineranti che propone lungo il proprio percorso i classici di Shakespeare – e gli estimatori del Bardo, che torna in modo ricorsivo con citazioni di varia natura, sapranno cogliere più livelli di lettura di quanto non abbia fatto io. Ma già dal pilot, una copia del Re Lear, per terra fra le macerie dove mangiano i maiali, è accostata di fatto al fumetto che invece viene preservato, e mi ha fatto pensare che si voglia in qualche modo far passare l’idea che i prodotti culturali considerati meno intellettualmente elevati ci dicono poi di più sulla realtà presente e hanno potenzialmente lo stesso l’impatto di opere culturalmente più riverite. In qualche modo, di fronte alla distruzione, la cultura umanistica sopravvive in ogni caso. Le storie sono tutto ciò che conta, il potere delle narrazioni è quella di farci vivere in altri mondi, la forza del talento e il potere delle performance ci permettono di sopravvivere, produrre arte ha valore. Shakespeare continua ad essere evocato, attraverso molte opere, ma mai veramente messo in scena, se non per piccoli frammenti, che da soli aprono un mondo. Con l’arte non c’è un prima e un dopo, è presente, è eternità.

ATTENZIONE SPOILER IN QUESTO PARAGRAFO DI TRAMA. Star di questa compagnia, la Traveling Symphony (Orchestra Sinfonica Itinerante, nel libro che non ho letto - al mio scrivere una versione in italiano della serie ancora non c’è), è Kirsten (Mackenzie Davies, e da più piccola Matilda Lawler), che da bambina, persi i genitori per il crollo della società, era stata presa sotto l’ala protettrice di Jeevan (Himesh Patel), e per un breve periodo dal fratello di lui, Frank (Nabhaan Rizwan). Già da piccola recitava accanto al famoso attore Arthur Leander (Gael García Bernal), e ora viaggia con, fra gli altri, Sarah (Lori Petty), co-fondatrice della compagnia, e Alexandra che, giovanissima, non è una “pre-pan” ovvero non ha conosciuto la civiltà per come era prima. Incontrano il capo adulto di una violenta setta religiosa composta da bambini, Tyler (Daniel Zovatto, e da bambino Julian Obrados), figlio del sopracitato Arthur e della sua seconda moglie Elizabeth (Caitlin FitzGerald, Masters of Sex), che insieme all’ex-migliore amico di Arthur, Clark (David Wilmot), vive in una comunità in auto-isolamento presso l’aeroporto di Severn City. La prima moglie di Arthur, Miranda Carroll (Danielle Deadwyler), è l’autrice di una graphic novel intitolata “Station Eleven”, che molta importanza ha avuto dall’infanzia nella formazione sia di Kirsten che di Tyler.

Il primo aspetto che ho apprezzato è che il virus che decima la popolazione è rappresentato in modo realistico e “naturale”, non come il grande nemico da sconfiggere (alla Helix). E mi è piaciuta la scelta di creare una dicotomia fra gli elementi di pandemia e di distruzione con il sovraffollamento - penso al pronto soccorso e alle macchine parcheggiate fuori (1.01) - e quelli di sopravvivenza con il vuoto e l’isolamento - il supermercato, il rapporto fra Jeevan e Kirsten, che è la spina dorsale degli episodi iniziali. Mettere insieme sullo schermo un uomo adulto e una bambina di otto anni che non è sua parente e che non lo conosce può presentare delle problematicità e qui sono riusciti a renderlo credibile e sano. Mi ha trasmesso serenità vedere che la post-fine-del-mondo è più bella, più verde, più lussureggiante, più brillante del presente a cui si deve dire addio (in cui prevalgono i colori grigi e scuri). Mi ha fatto ripensare all’anime televisivo giapponese della mia infanzia “Conan – il ragazzo del futuro” di Miyazaki (1978), che ritorna alla mente in più occasioni.

Molte sono però le suggestioni che lancia la serie portata sullo schermo da Patrick Somerville: le continue traslazioni spazio-temporali, anche se mi hanno fatto pensare anche a Lost, mi hanno evocato più Watchmen, nel senso che ho avuto sì la evidente percezione che si andasse su e giù nel tempo, ma anche contemporaneamente come se tutto stesse accadendo nello stesso momento, in un eterno presente che si ripete; vengono richiamati The Leftovers, Counterpart, il maestro del fumetto Mœbius, Legion, The Walking Dead…e poi Star Trek.

Quando sono stati menzionati gli “undersea” (1.04), ho immediatamente pensato all’episodio della serie originale di Star Trek intitolato “Miri” (1.08). Nell'episodio, cito da Wikipedia, “l'Enterprise scopre un esatto duplicato della Terra, dove gli unici sopravvissuti a una mortale epidemia causata dall'uomo sono alcuni bambini del pianeta”. Si può immaginare poi la mia sorpresa quando in seguito Kirsten bambina ne guarda alla TV un episodio, e corre poi a leggere il fumetto come se avesse avuto una rivelazione - non ero stata in grado di individuare a memoria l’episodio, ma mi sono segnata il personaggio che menzionano, il dottor Thomas Leighton, e ho recuperato di quale si tratta, “La magnificenza del re” (1.13), un titolo preso da Amleto e dove il capitano Kirk incrocia il leader di una compagnia di attori shakespeariani che si trova sul pianeta in cui è stato convocato e che è sospettato di essere stato un dittatore pluriomicida 20 anni prima. E nell’episodio successivo di Station Eleven (1.05), fra gli oggetti da conservare a testimonianza del passato c’è una action figure di Spock. L’amore per la serie ideata da Gene Roddenberry non può essere negato.

“We need new words – Abbiamo bisogno di parole nuove” si dice in “Dr. Chaudhary” (1.09): le parole costruiscono il nostro mondo, e per cambiarlo e rifondarlo abbiamo bisogno di termini nuovi. Qui sono molte le parole, interconnesse, che si rincorrono: umanità, perdita, passato e, come accennavo sopra, arte. L’arte è civilizzazione, l’arte è ciò che ci permette di dare un senso al mondo (penso ad esempio a Kirsten che scopre della morte dei genitori e che recita), dà senso, ha potere terapeutico, è una forma di comunicazione che ci fa riconoscere gli uni negli altri e travalica spazio e tempo. Poetica, anche se criptica, la narrazione ci regala riflessioni sull’amore, la morte, le emozioni, le scelte della vita e il significato di quello che facciamo: importa, non si tratta di sopravvivenza. Il messaggio ultimo per me è stato che niente muore finché siamo capaci di riconoscere noi stessi negli altri. Ho continuato a rimanere impressionata del modo chirurgico di collegare passato e presente, di tessere maglie strette fra eventi e persone apparentemente distanti. Tutto torna e si ripete, in forme diverse, tutto è collegato.

Se una metafora volessi trovare per la mia esperienza di visione di questa serie, alla fine direi che è stata quella di trovarmi di fronte a uno specchio in frantumi che mi mostra molte me, o uno di quegli specchi da luna park che ti mostra contemporaneamente in molte diverse prospettive. O forse, anche meglio, penso a una rete neuronale, e agli impulsi delle sinapsi che mi portano in un istante in mille luoghi contemporaneamente.    

E per ultima, la cosa più importante: è decisamente rassicurante sapere che anche se arriva l’apocalisse, possiamo sempre contare su un delizioso barattolo di Nutella (1.07). Quindi c’è speranza dopotutto.  

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