Station Eleven, la miniserie post-apocalittica della HBO Max
basata sull’omonimo romanzo di Emily St. John Mandel, è ambientata vent’anni
dopo una pandemia che ha portato al collasso della civilizzazione. Mi ha deluso
rispetto alle aspettative, ma gli stimoli che lancia sono notevoli.
Fra i pochi sopravvissuti,
c’è un gruppo di attori itineranti che propone lungo il proprio percorso i
classici di Shakespeare – e gli estimatori del Bardo, che torna in modo
ricorsivo con citazioni di varia natura, sapranno cogliere più livelli di
lettura di quanto non abbia fatto io. Ma già dal pilot, una copia del Re Lear, per terra fra le macerie dove
mangiano i maiali, è accostata di fatto al fumetto che invece viene preservato,
e mi ha fatto pensare che si voglia in qualche modo far passare l’idea che i
prodotti culturali considerati meno intellettualmente elevati ci dicono poi di
più sulla realtà presente e hanno potenzialmente lo stesso l’impatto di opere
culturalmente più riverite. In qualche modo, di fronte alla distruzione, la
cultura umanistica sopravvive in ogni caso. Le storie sono tutto ciò che conta,
il potere delle narrazioni è quella di farci vivere in altri mondi, la forza
del talento e il potere delle performance ci permettono di sopravvivere, produrre
arte ha valore. Shakespeare continua ad essere evocato, attraverso molte opere,
ma mai veramente messo in scena, se non per piccoli frammenti, che da soli
aprono un mondo. Con l’arte non c’è un prima e un dopo, è presente, è eternità.
ATTENZIONE SPOILER IN
QUESTO PARAGRAFO DI TRAMA. Star di questa compagnia, la Traveling Symphony (Orchestra
Sinfonica Itinerante, nel libro che non ho letto - al mio scrivere una versione
in italiano della serie ancora non c’è), è Kirsten (Mackenzie Davies, e da più
piccola Matilda Lawler), che da bambina, persi i genitori per il crollo della società,
era stata presa sotto l’ala protettrice di Jeevan (Himesh Patel), e per un breve
periodo dal fratello di lui, Frank (Nabhaan Rizwan). Già da piccola recitava accanto
al famoso attore Arthur Leander (Gael García Bernal), e ora viaggia con, fra
gli altri, Sarah (Lori Petty), co-fondatrice della compagnia, e Alexandra che,
giovanissima, non è una “pre-pan” ovvero non ha conosciuto la civiltà per come
era prima. Incontrano il capo adulto di una violenta setta religiosa composta
da bambini, Tyler (Daniel Zovatto, e da bambino Julian Obrados), figlio del sopracitato
Arthur e della sua seconda moglie Elizabeth (Caitlin FitzGerald, Masters of Sex), che insieme all’ex-migliore
amico di Arthur, Clark (David Wilmot), vive in una comunità in auto-isolamento presso
l’aeroporto di Severn City. La prima moglie di Arthur, Miranda Carroll (Danielle
Deadwyler), è l’autrice di una graphic
novel intitolata “Station Eleven”, che molta importanza ha avuto dall’infanzia
nella formazione sia di Kirsten che di Tyler.
Il primo aspetto che ho
apprezzato è che il virus che decima la popolazione è rappresentato in modo
realistico e “naturale”, non come il grande nemico da sconfiggere (alla Helix).
E mi è piaciuta la scelta di creare una dicotomia fra gli elementi di pandemia
e di distruzione con il sovraffollamento - penso al pronto soccorso e alle
macchine parcheggiate fuori (1.01) - e quelli di sopravvivenza con il vuoto e
l’isolamento - il supermercato, il rapporto fra Jeevan e Kirsten, che è la
spina dorsale degli episodi iniziali. Mettere insieme sullo schermo un uomo
adulto e una bambina di otto anni che non è sua parente e che non lo conosce
può presentare delle problematicità e qui sono riusciti a renderlo credibile e
sano. Mi ha trasmesso serenità vedere che la post-fine-del-mondo è più bella,
più verde, più lussureggiante, più brillante del presente a cui si deve dire
addio (in cui prevalgono i colori grigi e scuri). Mi ha fatto ripensare
all’anime televisivo giapponese della mia infanzia “Conan – il ragazzo del
futuro” di Miyazaki (1978), che ritorna alla mente in più occasioni.
Molte sono però le
suggestioni che lancia la serie portata sullo schermo da Patrick Somerville: le continue traslazioni spazio-temporali,
anche se mi hanno fatto pensare anche a Lost,
mi hanno evocato più Watchmen,
nel senso che ho avuto sì la evidente percezione che si andasse su e giù nel
tempo, ma anche contemporaneamente come se tutto stesse accadendo nello stesso
momento, in un eterno presente che si ripete; vengono richiamati The
Leftovers, Counterpart,
il maestro del fumetto Mœbius, Legion,
The
Walking Dead…e poi Star Trek.
Quando sono stati
menzionati gli “undersea” (1.04), ho immediatamente pensato all’episodio della
serie originale di Star Trek intitolato
“Miri” (1.08). Nell'episodio, cito da Wikipedia, “l'Enterprise scopre un esatto
duplicato della Terra, dove gli unici sopravvissuti a una mortale epidemia
causata dall'uomo sono alcuni bambini del pianeta”. Si può immaginare poi la
mia sorpresa quando in seguito Kirsten bambina ne guarda alla TV un episodio, e
corre poi a leggere il fumetto come se avesse avuto una rivelazione - non ero
stata in grado di individuare a memoria l’episodio, ma mi sono segnata il
personaggio che menzionano, il dottor Thomas Leighton, e ho recuperato di quale
si tratta, “La magnificenza del re” (1.13), un titolo preso da Amleto e dove il
capitano Kirk incrocia il leader di una compagnia di attori shakespeariani che
si trova sul pianeta in cui è stato convocato e che è sospettato di essere
stato un dittatore pluriomicida 20 anni prima. E nell’episodio successivo di
Station Eleven (1.05), fra gli oggetti da conservare a testimonianza del
passato c’è una action figure di
Spock. L’amore per la serie ideata da Gene Roddenberry non può essere negato.
“We need new words – Abbiamo
bisogno di parole nuove” si dice in “Dr. Chaudhary” (1.09): le parole
costruiscono il nostro mondo, e per cambiarlo e rifondarlo abbiamo bisogno di termini
nuovi. Qui sono molte le parole, interconnesse, che si rincorrono: umanità,
perdita, passato e, come accennavo sopra, arte. L’arte è civilizzazione, l’arte
è ciò che ci permette di dare un senso al mondo (penso ad esempio a Kirsten che
scopre della morte dei genitori e che recita), dà senso, ha potere terapeutico,
è una forma di comunicazione che ci fa riconoscere gli uni negli altri e
travalica spazio e tempo. Poetica, anche se criptica, la narrazione ci regala
riflessioni sull’amore, la morte, le emozioni, le scelte della vita e il
significato di quello che facciamo: importa, non si tratta di sopravvivenza. Il
messaggio ultimo per me è stato che niente muore finché siamo capaci di riconoscere
noi stessi negli altri. Ho continuato a rimanere impressionata del modo
chirurgico di collegare passato e presente, di tessere maglie strette fra
eventi e persone apparentemente distanti. Tutto torna e si ripete, in forme
diverse, tutto è collegato.
Se una metafora volessi
trovare per la mia esperienza di visione di questa serie, alla fine direi che è
stata quella di trovarmi di fronte a uno specchio in frantumi che mi mostra
molte me, o uno di quegli specchi da luna park che ti mostra contemporaneamente
in molte diverse prospettive. O forse, anche meglio, penso a una rete
neuronale, e agli impulsi delle sinapsi che mi portano in un istante in mille
luoghi contemporaneamente.
E per ultima, la cosa più importante: è decisamente rassicurante sapere che anche se arriva l’apocalisse, possiamo sempre contare su un delizioso barattolo di Nutella (1.07). Quindi c’è speranza dopotutto.
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