martedì 6 settembre 2022

PATRIOT: ritratto di un uomo triste, con humor

Non mi aspettavo che Patriot fosse così divertente. E in questo momento non avrei scoperto questa piccola gemma che ha debuttato nel 2015 (e disponibile su Amazon Prime), se non fosse stata scelta per il club della TV di Tim Goodman, a cui partecipo.

Su incarico del padre Tom (Terry O’Quinn, Lost), John Tavner (Michael Dorman), deve portare una somma di denaro in Iran per avvantaggiare la vittoria di un politico che impedisca la proliferazione di armi nucleari. Il compito in teoria è semplice, ma molte cose vanno storte. John, per svolgere il suo ruolo come funzionario di intelligence, si fa assumere in un impego di copertura, quello di ingegnere dipendente di un’impresa di tubazioni industriali di Milwakee, che per lavoro gli permette di andare in Lussemburgo, dove si svolge molta dell’azione. Da tutti è conosciuto come John Lakeman. Compone canzoni folk come valvola di sfogo raccontando quello che gli accade. Questo eroe controvoglia detesta il suo lavoro ed è progressivamente sempre più depresso, ma si piega ai desideri del padre. Ad aiutarlo dove necessario c’è il fratello Edward (Michael Chernus), mentre la moglie Alice (Kathleen Munroe) è all’oscuro di tutto. Sul luogo di lavoro, la McMillan, che molto tiene allo spirito aziendale, è costretto ad avvalersi di un collega, Dennis (Chris Conrad) che gli diventa amico, ma non brillando in quello che è chiamato a fare, distratto da i suoi altri compiti, si attira l’aperta ostilità del suo superiore Leslie (Kurtwood Smith, That 70s Show), che ripetutamente cerca di venirgli incontro. Alle calcagna di John, coinvolto in un omicidio, c’è la detective Agathe (Aliette Opheim) della polizia di Lussemburgo.

Patriot è ricco di azione. È evidente che la narrazione è progettata meticolosamente, così come è chiaro da subito quello che viene esplicitato in seguito: quello che stanno facendo a livello narrativo ha a che fare con la dinamica di flusso, quello di cui si occupa l’azienda per cui lavora John, ovvero spostare qualcosa da A a B e affrontare gli elementi (attrito, gravità e altri, in campo ingegneristico) che ostacolano il raggiungimento dell’obiettivo. Forma e contenuto insomma coincidono, e in maniera geniale, anche perché in questa creazione di Steven Conrad una gran parte dell’umorismo nasce proprio da questi stessi ostacoli, che sottolineano la frustrazione del protagonista e lo umanizzano. Come ha ben osservato Steven Rubio, uno dei partecipanti al club della TV menzionato sopra, “il personaggio di base di John è impostato come il tipico eroe maschile, ma a John non viene mai permesso di esserlo. Sarebbe più adatto a un film esistenzialista francese degli anni Cinquanta” (qui).

Molto ha a che vedere con le obbligazioni familiari. Si riflette su quanto non sia facile liberarsene anche quando lo si desidera. La pressione di Tom sul figlio è atroce – e la sigla di apertura con i video dei due fratelli costretti a competere fin da piccoli reitera ad ogni episodio il terreno su cui il rapporto padre-figlio è costruito. John pur magari vedendo possibili alternative di vita che potrebbe prendere che lo renderebbero felice, non riesce a prenderle.

La primissima cosa che mi ha colpito già nel pilot è stata l’evento brutale di John che spinge sotto un camion il rivale Tchoo (Marcus Toji) per il posto di lavoro che deve assolutamente avere – quest’ultimo si riprende, ma ha grandi problemi cognitivi, tanto che deve essere assistito da una terapeuta occupazionale, Ally (Charlotte Arnold), cosa che dalla serie è usata sia in declinazione umoristica che di possibile minaccia per John nel caso in cui questo sventurato ricordasse la dinamica del suo incidente. La mia mente ha avuto un flash su Mr Robot, dove pure accade qualcosa di similare, mutandis mutandis – anche se poi Mr Robot ci ha dato nel tempo una spiegazione molto diversa. Anche se la serie a cui ho ripensato di più, è stata Barry, che è evidentemente in debito nei confronti di Patriot: c’è lo stesso senso di essere costretti a compiere atti violenti e crudeli che sono visti come un modo di andare contro la propria natura pacifica e come un modo di rendersi infelici. Non sono una grande amante della brutalità e della violenza coniugate all’umorismo, ma in Patriot funziona proprio bene. E me lo sono goduto in tanti piccoli dettagli. È sempre sull’orlo della parodia, ma non arriva mai ad esserlo. Le canzoni folk sono brillanti, perché non fanno che dichiarare in modo molto diretto, quasi banale, quello che è successo, e ridiamo perché lo abbiamo visto, ma allo stesso tempo ci fa riflettere su una modalità di costruzione di quel genere di canzoni, e su come probabilmente siamo soliti leggere significati metaforici anche lì dove magari non ci sono. Non so se ho mai visto una tale sicurezza nell’equilibro fra dark e funny.

La connessione perfetto-imperfetto è un tema portante del programma: quello a cui miriamo e il modo in cui viene realizzato. La vita di John è costruita su menzogna e manipolazione, e assistiamo a numerose lezioni in questa direzione. In modo paradossale proprio attraverso questi comportamenti che allontanano il protagonista dalla serenità personale si riflette su come il contatto umano ci salvi e l’importanza di concedersi di essere quello che si è a dispetto di quello che appariamo. Questo, che è il grande messaggio positivo della serie in generale, viene comunicato anche in positivo. Anche le interazioni con i personaggi minori (Icabod, Numi, Mahtma, Jack Birdbath, Lawrence) hanno un ruolo essenziale. 

Questo è il ritratto di un uomo triste, descritto con empatia e con molto humor.

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