giovedì 26 ottobre 2017

VICTORIA: una serie "alla Sissi"


Mi ha lasciato la sensazione che trasmettevano i vecchi film sulla principessa Sissi, la prima stagione della serie britannica Victoria (ITV, su LaEffe in Italia), sulla regina inglese che ha definito un’epoca regnando per quasi 64 anni. Alla stessa maniera infatti, si è storicamente accurati (pur con qualche licenza poetica) – la serie di avvale della consulenza storica di AN Wilson che ne ha scritto una biografia e l’ideatrice Daisy Goodwin si è basata sui numerosi diari autografi della regina -, ma allo stesso tempo il tono della narrazione ha un che di favolistico e romantico. È un mescolanza di Downton Abbey e The Crown.

Le vicende prendono il via dal momento in cui la diciottenne Alexandrina Victoria (Drina per i familiari), che sarà incoronata con il nome di Vittoria (Jenna Coleman, Doctor Who), diventa erede al trono a seguito del decesso dello zio paterno re William e, nelle 8 puntate del primo arco, la si vede imparare i rudimenti del nuovo ruolo guidata da Lord Melbourne (un sottile, magistrale Rufus Sewell, The Man in the High Castle), per cui ha un’infatuazione (esagerata nella finzione, si dice), e innamorasi del cugino coetaneo il principe Albert (Tom Hughes), fino alla nascita della sua prima figlia.

Quello che rende affascinante la serie è che si mostra la crescita di una giovane donna che era sicuramente impreparata a fare da monarca  - come in The Crown, si sottolinea la sua ignoranza rispetto a molti aspetti della vita, il distacco dalla realtà dei suoi sudditi, il peso metaforico della corona, pur nella preparazione costituzionale (le fanno studiare i commentari di Blackstone, ben noti tuttora agli studenti di giurisprudenza che fanno studi transnazionali); allo stesso tempo si fa capire che non è solo fortuna a farla sedere su quel seggio regale, ma anche determinazione, diplomazia e scaltrezza, di fronte ai molti tentativi di sminuirla (fosse anche solo deridendo la sua bassa statura), di metterla di parte, di farla passare per folle anche, se necessario.

Davvero notevole, e inusuale da vedere, quando invece della vita l’ho incontrato molte volte, è il reiterato sottolineare la sua paura per il parto. Se è ragionevole tuttora quel genere di timore, quanto più doveva esserlo in un’epoca in cui la morte per parto era all’ordine del giorno. La cugina, è stato ripetuto da più parti e dai lei stessa, è morta proprio in circostanze simili e lei manifesta in più di una occasione i suoi timori, tanto più che molti altri non aspettano altro. Si sviscera questa possibilità nelle sue implicazioni politiche, con le discussioni anche in parlamento della necessità di un reggente che sostituisca il neonato fino alla maggiore età, nel caso di scomparsa di Sua Maestà; e si esamina la questione da un punto di vista personale: lei è giovane, sana, innamorata, da poco regina e non ha nessun desiderio di morire, ma è costretta a tenere a bada gli avvoltoi che girano a corte e a prendere comunque in considerazione la propria eventuale scomparsa in modo pragmatico.

La serie si fonda appunto su effettivi dati storici – il difficile rapporto con la madre; l’aver costretto ad una visita ginecologica Lady Flora, una delle dame di compagnia della madre, accusandola di una relazione con Sir John Conroy (Paul Rhys), da lei odiato, e di esserne rimasta incinta, quando lei aveva in realtà un tumore; la sua riluttanza a rinunciare alle dame di compagnia da lei volute invece di quelle suggerite da sir Robert Peel, del partito Tory, nel momento in cui gli era stata proposta la carica di primo ministro; l’atteggiamento nei confronti del principe Albert visto con sospetto perché tedesco; l’attentato alla sua vita mentre era incinta…- ed è visivamente molto curata e sensuale. C’è ampio spazio comunque per quotidianità immaginate della vita a Buckingham Palace, compresa una storia secondaria dell’attrazione fra la sua guardarobiera e il pasticcere di corte.

Confermata per una seconda stagione, la serie, leggera e appagante, è previsto che ne abbia sei, anche se non è chiaro se sarà sempre la stessa interprete a dare il volto alla regina Vittoria.


giovedì 19 ottobre 2017

ORPHAN BLACK termina: essere sorelle


“Questo è quello per cui abbiamo combattuto: essere sorelle”. Questa frase della series finale (5.10) di Orphan Black custodisce il senso di un programma che, con una chiusura molto catartica e ottimista, ha lasciato agli spettatori una positiva eredità femminista, perché “il futuro è femmina”, come si è reiterato in più occasioni nella quinta stagione, le cui puntate hanno titoli che sono citazioni della poesia “Protest” di Ella Wheeler Wilcox. Già in passato – si veda questo mio post – si notava la modalità della serie di usare come titoli citazioni da una fonte autoriale specifica ogni volta diversa.

I cloni del progetto Leda, si è rivelato nell’ultima puntata - che ce ne ha fatta conoscere direttamente un’altra (con una sempre sorprendente Tatiana Maslany -, erano ben 274. Felix (Jordan Gavaris), in occasione di una sua mostra che ritraeva le diverse sorelle, ha fornito meta-testualmente egli stesso una ermeneutica di quanto abbiano visto: la personalità e l’identità sono un costrutto sociale. Attraverso questa “costellazione di donne”, come le ha definite lui, e attraverso una trama fitta e densa, molto più stringente di quanto non sia la norma di questi tempi, si sono esplorati moltissimi temi, in primis quello sulla ricerca scientifica e la sperimentazione e la loro etica, sull’autonomia e sulla libertà (particolarmente forti in questa stagione), sulla maternità e sulla famiglia, sull’identità e sull’umanità, sulle scelte di vita e sulla felicità.

E se è vero che Orphan Black è un’utopia femminista (The Guardian) e l’eredità che ci lascia è il suo matriarcato (Paste Magazine), è rassicurante anche vedere che nella concezione degli ideatori Graeme Manson e John Fawcett questo è un lascito che non significa mettere da parte gli uomini, ma li include. Nella dissoluzione di Westmorland (incarnazione del patriarcato) e dei Neoluzionisti che volevano controllare le vite delle “sestras”, quest’ultime sono state affiancate da uomini “veri”: così li definisce Helena quando decide di chiamare i bimbi maschi che ha appena partorito con i nomi di Arthur e Donnie. È significativo qui trovare un messaggio che non vede l’annichilamento maschile nel progresso di parità femminile. Come ha ben scritto Abigail Chadler (The Guardian), “da Scott, il geek del laboratorio, a Ira, il più gentile dei cloni Castor, Orphan Black ha mostrato che gli uomini da ammirare di più non solo quelli che cercano di essere all’altezza dell’idea tossica di mascolinità, ma quelli che rispettano le persone che li circondano”. E come ribadisce Jacob Oller (Paste Magazine) il lascito spirituale della serie non sta tanto nella fantascienza, ma nella scienza sociale, nel mettere in scena “una cultura in cui le donne dominano nella tecnologia, nella scienza e negli affari, e in cui essere una mamma che sta a casa garantisce una copertura narrativa pari a quella di una sperimentazione militare segreta.”

A latere credo sia rilevante osservare, in un momento in cui si discute nei circoli televisivi della parziale (presunta?) dissoluzione del messaggio femminista di Joss Whedon (Buffy, Angel, Firefly), a seguito del suo divorzio dalla moglie e delle accuse di quest’ultima dell’ipocrisia dell’autore, per quanto io personalmente non ritenga che quel messaggio ne sia scalfito, che questi non era la sola campana in favore dell’eguaglianza.

A Helena poi è andato il compito anche di spiegare il titolo della serie. Raggruppata con le sorelle – in un immagine che le fa sembrare moderne “Piccole Donne” - dice che si tratta del titolo del diario che ha tenuto, in cui vengono raccontate le loro storie: tutte loro sono orfane, e Siobhan (compianta, ma presente nella memoria di tutte) aveva un tempo osservato che Sarah era parte di un gruppo di bimbi che erano scoparsi “into the black”, nel buio, nel “nero dell’orfano”, per loro sicurezza. Ora quel buio è dissipato. Alla fine di tutto, quello che viene promosso e che rimane è davvero la sorellanza, con donne che sono un prisma di possibilità, nelle loro diverse incarnazioni e in se stesse, presenti le une per le altre.  

giovedì 12 ottobre 2017

I LOVE DICK: passionale e concettosa


I Love Dick, serie di Amazon portata sullo schermo da Jill Soloway (Transparent) e Sarah Gubbins sulla base dell’omonimo romanzo di Chris Kraus, contiene già nel titolo un doppio senso, per chi non avesse familiarità con l’inglese. Significa infatti tanto “Io amo Dick”, quanto “Mi piace il cazzo”. E in questa ambivalenza è contenuta anche parte del senso della serie.

Chris Kraus (Kathryn Hahn)  - sì, la protagonista della serie si chiama come l’autrice del libro – è una regista femminista e una donna molto indipendente che si trasferisce temporaneamente con il marito Sylvère (Griffin Dunne), uno storico che si occupa di estetica dell’Olocausto, presso una colonia di artisti a Marfa, in Texas. Qui  incontra Dick (Kevin Bacon),  un talento la cui fama è quasi mitologica nella sua comunità – il personaggio è basato su una similare figura del posto, quella di Donald Judd -, un macho egocentrico - si vanta che non legge libri perché ormai lui è “post-idea” - che va in giro vestito da cowboy, ha un atteggiamento condiscendente, è sprezzante delle donne come artiste, e tende ad ignorarla. Lei, fisicamente estremamente attratta da lui, ne rimane ossessionata, e comincia a scrivergli delle lettere d’amore e desiderio, spesso a sfondo erotico, in cui si rivela completamente e si analizza. Con un effetto afrodisiaco, queste missive rinvigoriscono la sua zoppicante intesa sessuale con il marito che in qualche modo le diviene complice, e diventano per lei un’opera d’arte. Inizialmente concepite solo come private, finisce per darle prima a Dick stesso e poi per diffonderle nell’intera cittadina. Alla ricerca di significative rappresentazioni di sé sono anche la drammaturga lesbica Devon (Roberta Colindrez), Toby, che ha studiato pornografia osservandone le forme, e alla sua maniera anche la gallerista di Dick, l’afro-americana Paula (Lily Mojekwu).
    
La serie è un acuto miscuglio di attrazione e repulsione, contemporaneamente assertiva e autodistruttiva, passionale e logica, di una donna nei confronti di un’icona di mascolinità, con tutto quello che rappresenta. Mostra la rabbia di chi, perennemente ignorato e sottovalutato dalla società, fa le capriole per rivendicare il proprio valore. Astraendo, è il femminismo di fronte al muro del patriarcato, è ribellione di fronte alla misoginia. Allo stesso tempo le lettere sono in fondo una scusa perché la protagonista possa indagare se stessa. “Questa non è una lettera d’amore, questo è un manifesto” (1.06), dichiara la protagonista. A volte sa di rendersi ridicola, ma non le importa, presa da una sorta di furia di scoperta. La serie esplora identità di genere,  sessualità e desiderio – a questo proposito particolarmente riuscita è “ A Short History of Weird Girls” (1.05) che si segmenta in una piccola storia sessuale e di desiderio di Chris, Devon, Toby e Paula, con un tono confessionale. L’atmosfera calda di zone desertiche e musiche spagnoleggianti accrescono una sensazione di progressiva disinibizione, che è mentale, prima ancora che fisica.   

L’autrice riposiziona come centrale il female gaze, lo sguardo femminile. Dick si sente umiliato, perché ritiene che Chris abbia indebitamente preso il suo nome, invaso la sua privacy e scritto pornografia su di lui, ed è Sylvère che gli fa notare che è quello che gli uomini hanno sempre fatto alle donne, usandole come muse per la propria creatività. Ambientata nel mondo dell’arte e delle teorie culturali, è una meditazione sul senso di queste imprese, con echi perennemente meta-testuali sulla serie stessa. Quando Toby si mette nuda davanti a una telecamera per una sorta di performance art, come modo per offrire il proprio corpo e il proprio privilegio, i personaggi stessi nella diegesi discutono sul senso di quel gesto, con vari punti di vista, ora definendolo come l’incarnazione della fusione fra accademia, arte e social media, come un bricolage post-moderno di cultura alta e bassa, ora interrogandosi se non sia infliggere il proprio privilegio sugli altri e se non sia per questo irresponsabile, pedestre, non etico, ora proponendo una lettura che lo vede come un esercizio di mutua degradazione di corpi estranei… Se legittimamente ci si chiede se un atto simile sia sovversione e arte o se siano stronzate, la serie non dà una risposta, partecipa a questo dualismo, in equilibrio fra le due possibili soluzioni come su una corda tesa, anche irridendo certi eccessi, o guardandoli con l’indulgenza di chi vi vede irrefrenabili impulsi fuori controllo nell’aspirazione di qualcosa di grande. C’è un sottile umorismo. Ma l’eventuale irrisione non diventa mai disprezzo. Nella sua anima drammatica è frida-kahlo-iana, potremmo dire, ma si celebra, come ha acutamente argomentato Maxinne Swan sul Guardian – la “comic female loser”, la sfigata comica, una figura inusuale e difficile sullo schermo.

Una serie passionale e concettosa.

lunedì 9 ottobre 2017

OSSERVATORIO TV 2017: il libro digitale


È finalmente disponibile online il libro di OSSERVATORIO TV 2017. Lo potete scaricare gratuitamente seguendo questo link: http://www.osservatoriotv.it/Home_Page.html

Io quest'anno partecipo con ben tre saggi, su Jane the virgin, su The Handmaid's Tale e su Westworld, ma in generale è molto ghiotto.

Sotto trovate l’indice. Buona lettura a tutti!



Presentazione di Barbara Maio
Introdozione di Nikki Stafford

Better Call Saul (AMC 2015) Chiara Checcaglini
Big Little Lies (HBO 2017) Elisa Rampone
BoJack Horseman (Netflix 2014) Sara Mazzoni
Deutschland 83 (Sundance Tv 2015) Davide Parpinel
Extant (CBS 2014) Oriele Orlando
Gomorra (Sky Atlantic 2015) Eleonora Degrassi
Hemlock Grove (Netflix 2013) Désirée Favero
In The Flesh (BBC 2013) Daniela Pizzuto
Jane The Virgin (The CW 2014) Giada Da Ros
Jessica Jones (Netflix 2015) Barbara Maio
Narcos (Netflix 2016) Giacomo Tagliani
Rick e Morty (Adult Swim 2013) Gianluigi Rossini
The Get Down (HBO 2016) Paola Ceccarelli
The Handmaid's Tale (Hulu 2017) Giada Da Ros
The Living and the Dead (BBC 2016) Lorenzo Manuel D'Anna
The OA (Netflix 2016) Sara Mazzoni
Twin Peaks (Showtime 2017) Doriana Comandè
Westworld (HBO 2016) Giada Da Ros

giovedì 5 ottobre 2017

THE GOOD DOCTOR: dall'autore del dottor House


Aiuta sapere che The Good Doctor, la nuova serie dell’americana ABC appena confermata per un’intera stagione, è stata sviluppata, sulla base di un successo della TV sudcoreana firmato da Park Jae-bum, da David Shore, già ideatore di House. Questo perché, intuendone il potenziale, si è più ben disposti a chiudere un occhio su alcune ingenuità del pilot.

Shaun Murphy (un eccelente Freddie Highmore, Bates Motel) è un giovanissimo chirurgo che soffre di autismo e con la sindrome del savant. Nell’infanzia è stato oggetto di bullismo da parte dei coetanei, incompreso e oggetto d’abuso in famiglia, in particolare da parte del padre. Solo il fratello minore, finché ha potuto, lo ha difeso e protetto. Suo mentore da quando aveva 14 anni, il dottor Aaron Glassman (Richard Schiff, The West Wing), presidente del San Jose St. Bonaventure Hospital, si batte perché possa essere assunto come residente nel suo ospedale, e, nonostante all’inizio abbia solo il sostegno di Jessica Preston (Beau Garrett, Girlfriend’s Guide to Divorce),  alla fine la spunta. Non tutto lo staff è convinto però perché i colleghi temono che i suoi problemi possano essere un ostacolo maggiore di quanto non sia d’aiuto la sua brillantezza. Lo sostiene con veemenza il primario di chirurgia Marcus Andrews (Hill Harper) e lo fa capire al diretto interessato in sala operatoria il dottor Neal Melendez (Nicholas Gonzales). Chi lo prende in simpatia è la dottoressa Claire Browne (Antonia Thomas,  Lovesick), che ha una storia di sesso con il collega Jared Hulu (Chuku Modu).

Dal pilot, che introduce parecchi personaggi (e relazioni fra i residenti declinati un po’ alla Grey’s Anatomy), è chiaro che ci sono temi cari a Shore, come la presenza di una persona particolarmente dotata intellettualmente che si trova sotto altri aspetti in difficoltà, che deve imparare a convivere con gli altri; i problemi di non essere neurotipici e l’importanza di vedere questa diversità come un potenziale piuttosto che un ostacolo; l’interrogarsi su quanto contino per un medico non solo l’abilità tecnico-professionale, ma anche l’empatia e la capacità di rapportarsi con i propri pazienti sul piano umano; la sinergia e le frizioni fra la parte burocratico-amministrativa e quella clinico-medica di un ospedale… Qui poi, la visione si arricchisce di una sorta di “realtà aumentata” alla CSI poiché i ragionamenti spazio-visuali sul corpo umano (e non solo) che fa il protagonista vendono illustrati per noi con dei disegni in sovrimpressione, con le indicazioni mediche, così come certi termini e procedure vengono spiegate con delle scritte che appaiono sullo schermo: notevole, anche se concretamente un po’ faticoso da seguire per la velocità con cui avviene.

Un punto debole sono stati i flashback del protagonista, ma solo perché un po’ troppo lacrimevoli e “manipolatori” da un punto di vista emozionale, scontati nelle loro conclusioni (la sorte del fratello e il discorso che tiene Shaun che convince tutti a dargli una possibilità) – forse è dovuto alla matrice sudcoreana? E nella narrazione non si sono state molte sottigliezze, per cui si è rimasti tiepidi. Una critica sensata è venuta da Crippled Scholar, che ha le credenziali di un vero esperto (si veda qui),  secondo cui il personaggio è troppo stereotipato, un’incarnazione troppo smaccata dei criteri diagnostici del DSM, con capacità al limite della credibilità e solo inteso come “ispirazione”, infantilizzato e interessato più a vivere per gli altri che per se stesso, cosa che viene rimproverata ad Hollywood per essere il modo standard di ritrarre le disabilità (Crippled Scholar).  Osservazioni pregnanti. Comunque, appunto, il pedigree di Shore permette di trascurare questi aspetti, almeno per ora, e di dare alla serie una possibilità.     

domenica 1 ottobre 2017

THE HANDMAID'S TALE: un superba storia di sopravvivenza


Superba: nella concezione, sceneggiatura, scenografia, recitazione, cinematografia, regia, costumi… La prima stagione di The Handmaid’s Tale (Hulu) può senza difficoltà qualificarsi come la serie migliore dell’anno. Ho letto l’omonimo classico della letteratura firmato da Margaret Atwood, divenuto Il Racconto dell’Ancella in italiano, e anche come lettrice penso che si sia stato fatto un eccellente lavoro di trasposizione sul piccolo schermo.

Siamo a Gilead, un regime totalitario teocratico distopico su parte del territorio di quelli che un tempo erano gli Stati Uniti d’America. A causa del’inquinamento c’è stato un crollo delle nascite, e un gruppo di estrema destra, i Figli di Giacobbe, ha creato un nuovo Stato dove a detenere il potere sono uomini conosciuti come Comandanti. Con la scusa di reagire ad attacchi terroristici sono stati tolti alle persone i diritti civili basilari. È stata operata una retata delle donne fertili che sono poi state “rieducate” in appositi centri sotto il controllo di una “aunt”, una “zia”, e assegnate poi ad un diverso comandante per il solo scopo della procreazione. Queste donne vengono private di tutto, compreso il proprio nome, e la protagonista infatti (di cui però nella serie sapremo che si chiama June) è conosciuta con il nome di Offred (Difred in italiano) (una spettacolosa Elisabeth Moss, Mad Men, Top of the Lake), perché appunto “Of Fred – di Fred”, di proprietà del suo Comandante Fred (Joseph Fiennes). Il nome peraltro, nel suo caso, è un rimando anche a Red, rosso, dal momento che queste ancelle indossano, con un look simile a delle suore, degli abiti rossi. Offred è stata letteralmente rapita, e le è stata tolta la figlia Hannah (Jordana Blake), mentre il marito Luke (O.T. Flegbenle) è riuscito a fuggire in Canada. È stata sottoposta alla rigida disciplina e alle violenze (e qualche volta alle torture) del Red Center insieme anche alla sua amica Moira (Samira Wiley), o alla fragile Ofwarren (Madeline Brewer) sotto la sadica guida di “zia” Lydia (Ann Down, appena reduce di un ruolo altrettanto intenso in The Leftovers). 

I comandati sono sposati e quando è il momento di fertilità della donna in grado di concepire, i tre – con riferimento anche alle Sacre Scritture – partecipano alla “Cerimonia” di “stupro rituale”, che prevede l’ancella in mezzo fra i coniugi, adagiata fra le cosce della moglie -  per Fred è Serena Joy (Yvonne Strahovski, The Astronaut Wives Club) - che le tiene le braccia e a gambe larghe perché il  comandante possa penetrarla nella speranza che risulti in un concepimento. Delle case dei comandanti si prendo cura delle donne diverse ancora, le Marte – qui Rita (Amanda Brugel). Un sistema stringente e oppressivo, in cui gli oppositori vengono impiccati o diversamente puniti e giustiziati – a Diglen (Alexis Bledel, Gilmore Girls, in un ruolo che la rivela molti più brava di quanto non la credessi), ad esempio, viene forzatamente eseguita la mutilazione genitale femminile e le donne in cerchio periodicamente si trovano a lapidare persone che abbiamo violato certi precetti. Il rispetto delle regole è attivamente monitorato dagli Occhi (una sorta di spie) – e l’autista tuttofare del Comandante Fred, Nick (Max Minghella) è uno di loro - e dagli Angeli (uomini armati). Si comincia a formare un resistenza, un movimento chiamato Mayday.

La tematica della libertà riproduttiva è quanto mai attuale, specie negli Stati Uniti dove le paventate limitazioni governative nell’era Trump sono sentite come un rischio molto pressante. La serie la affronta con tinte fortemente femministe – anche se pare (Merian) che sia autrice che cast abbiano cercato di prendere in qualche modo le distanze da questa etichetta, preferendo puntare sull’umanità della questione. Per come la vedo io le questioni femministe sono questioni umane che riguardano fortemente anche gli uomini in ogni caso, e pensare che non sia così è ingiustificato sessismo. È una questione femminista, è una questione umana. L’aberrazione e la schiavizzazione a cui portano il concepire le donne solo come incubatrici e solo per il loro potere riproduttivo – quelle che riescono a rifiutarsi sono considerate non-donne e costrette a lavorare in fabbriche velenose in cui la possibilità di sopravvivenza è solo a breve termine – è lampante e le conseguenze di portare alle logiche conclusioni certi principi sono illustrate con lucidità. Si mettono anche in luce la necessaria complicità delle donne stesse nel sostenere e mantenere strutture patriarcali (attraverso personaggi come Serena Joy o aunt Lydia), e come aberranti situazioni di questo genere possano essere mantenute solo in climi di sospetto, silenzio e ignoranza (alle donne ad esempio è proibito leggere).

La storia, portata sullo schermo da Bruce Miller, è appassionante e coinvolgente quanto agghiacciante. Algida, anche nei momenti più di fuoco. E cruda, cosa attenuata da una fotografia che predilige colori smorti e grigiastri, che aumentano il senso di disperata oppressione. E brutale. Così descritta sembra pesante da seguire, ma non è così. Forse è penosa, ma la sensazione ultima che lascia non è di pena, ma vince il tono emotivo della resilienza dello spirito umano. E la serie è capace di provocare stupore in inquadrature che talvolta mozzano il fiato nella loro linearità e semplicità.

“Nolite Te Bastardes Carbundorum” trova scritto Offred inciso sulla parete di in uno sgabuzzino della stanza di cui vice praticamente prigioniera: “che i bastardi non ti schiaccino” è il significato della frase in latino maccheronico. Alla fine è una storia di sopravvivenza.

Per uno sguardo più approfondito, leggete il mio saggio su questa serie, che ha da poco vinto l'Emmy come miglior serie drammatica, su "Osservatorio TV 2017" (non ancora disponibile, ma di prossima uscita al momento in cui pubblico il post).