giovedì 12 ottobre 2017

I LOVE DICK: passionale e concettosa


I Love Dick, serie di Amazon portata sullo schermo da Jill Soloway (Transparent) e Sarah Gubbins sulla base dell’omonimo romanzo di Chris Kraus, contiene già nel titolo un doppio senso, per chi non avesse familiarità con l’inglese. Significa infatti tanto “Io amo Dick”, quanto “Mi piace il cazzo”. E in questa ambivalenza è contenuta anche parte del senso della serie.

Chris Kraus (Kathryn Hahn)  - sì, la protagonista della serie si chiama come l’autrice del libro – è una regista femminista e una donna molto indipendente che si trasferisce temporaneamente con il marito Sylvère (Griffin Dunne), uno storico che si occupa di estetica dell’Olocausto, presso una colonia di artisti a Marfa, in Texas. Qui  incontra Dick (Kevin Bacon),  un talento la cui fama è quasi mitologica nella sua comunità – il personaggio è basato su una similare figura del posto, quella di Donald Judd -, un macho egocentrico - si vanta che non legge libri perché ormai lui è “post-idea” - che va in giro vestito da cowboy, ha un atteggiamento condiscendente, è sprezzante delle donne come artiste, e tende ad ignorarla. Lei, fisicamente estremamente attratta da lui, ne rimane ossessionata, e comincia a scrivergli delle lettere d’amore e desiderio, spesso a sfondo erotico, in cui si rivela completamente e si analizza. Con un effetto afrodisiaco, queste missive rinvigoriscono la sua zoppicante intesa sessuale con il marito che in qualche modo le diviene complice, e diventano per lei un’opera d’arte. Inizialmente concepite solo come private, finisce per darle prima a Dick stesso e poi per diffonderle nell’intera cittadina. Alla ricerca di significative rappresentazioni di sé sono anche la drammaturga lesbica Devon (Roberta Colindrez), Toby, che ha studiato pornografia osservandone le forme, e alla sua maniera anche la gallerista di Dick, l’afro-americana Paula (Lily Mojekwu).
    
La serie è un acuto miscuglio di attrazione e repulsione, contemporaneamente assertiva e autodistruttiva, passionale e logica, di una donna nei confronti di un’icona di mascolinità, con tutto quello che rappresenta. Mostra la rabbia di chi, perennemente ignorato e sottovalutato dalla società, fa le capriole per rivendicare il proprio valore. Astraendo, è il femminismo di fronte al muro del patriarcato, è ribellione di fronte alla misoginia. Allo stesso tempo le lettere sono in fondo una scusa perché la protagonista possa indagare se stessa. “Questa non è una lettera d’amore, questo è un manifesto” (1.06), dichiara la protagonista. A volte sa di rendersi ridicola, ma non le importa, presa da una sorta di furia di scoperta. La serie esplora identità di genere,  sessualità e desiderio – a questo proposito particolarmente riuscita è “ A Short History of Weird Girls” (1.05) che si segmenta in una piccola storia sessuale e di desiderio di Chris, Devon, Toby e Paula, con un tono confessionale. L’atmosfera calda di zone desertiche e musiche spagnoleggianti accrescono una sensazione di progressiva disinibizione, che è mentale, prima ancora che fisica.   

L’autrice riposiziona come centrale il female gaze, lo sguardo femminile. Dick si sente umiliato, perché ritiene che Chris abbia indebitamente preso il suo nome, invaso la sua privacy e scritto pornografia su di lui, ed è Sylvère che gli fa notare che è quello che gli uomini hanno sempre fatto alle donne, usandole come muse per la propria creatività. Ambientata nel mondo dell’arte e delle teorie culturali, è una meditazione sul senso di queste imprese, con echi perennemente meta-testuali sulla serie stessa. Quando Toby si mette nuda davanti a una telecamera per una sorta di performance art, come modo per offrire il proprio corpo e il proprio privilegio, i personaggi stessi nella diegesi discutono sul senso di quel gesto, con vari punti di vista, ora definendolo come l’incarnazione della fusione fra accademia, arte e social media, come un bricolage post-moderno di cultura alta e bassa, ora interrogandosi se non sia infliggere il proprio privilegio sugli altri e se non sia per questo irresponsabile, pedestre, non etico, ora proponendo una lettura che lo vede come un esercizio di mutua degradazione di corpi estranei… Se legittimamente ci si chiede se un atto simile sia sovversione e arte o se siano stronzate, la serie non dà una risposta, partecipa a questo dualismo, in equilibrio fra le due possibili soluzioni come su una corda tesa, anche irridendo certi eccessi, o guardandoli con l’indulgenza di chi vi vede irrefrenabili impulsi fuori controllo nell’aspirazione di qualcosa di grande. C’è un sottile umorismo. Ma l’eventuale irrisione non diventa mai disprezzo. Nella sua anima drammatica è frida-kahlo-iana, potremmo dire, ma si celebra, come ha acutamente argomentato Maxinne Swan sul Guardian – la “comic female loser”, la sfigata comica, una figura inusuale e difficile sullo schermo.

Una serie passionale e concettosa.

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