domenica 1 ottobre 2017

THE HANDMAID'S TALE: un superba storia di sopravvivenza


Superba: nella concezione, sceneggiatura, scenografia, recitazione, cinematografia, regia, costumi… La prima stagione di The Handmaid’s Tale (Hulu) può senza difficoltà qualificarsi come la serie migliore dell’anno. Ho letto l’omonimo classico della letteratura firmato da Margaret Atwood, divenuto Il Racconto dell’Ancella in italiano, e anche come lettrice penso che si sia stato fatto un eccellente lavoro di trasposizione sul piccolo schermo.

Siamo a Gilead, un regime totalitario teocratico distopico su parte del territorio di quelli che un tempo erano gli Stati Uniti d’America. A causa del’inquinamento c’è stato un crollo delle nascite, e un gruppo di estrema destra, i Figli di Giacobbe, ha creato un nuovo Stato dove a detenere il potere sono uomini conosciuti come Comandanti. Con la scusa di reagire ad attacchi terroristici sono stati tolti alle persone i diritti civili basilari. È stata operata una retata delle donne fertili che sono poi state “rieducate” in appositi centri sotto il controllo di una “aunt”, una “zia”, e assegnate poi ad un diverso comandante per il solo scopo della procreazione. Queste donne vengono private di tutto, compreso il proprio nome, e la protagonista infatti (di cui però nella serie sapremo che si chiama June) è conosciuta con il nome di Offred (Difred in italiano) (una spettacolosa Elisabeth Moss, Mad Men, Top of the Lake), perché appunto “Of Fred – di Fred”, di proprietà del suo Comandante Fred (Joseph Fiennes). Il nome peraltro, nel suo caso, è un rimando anche a Red, rosso, dal momento che queste ancelle indossano, con un look simile a delle suore, degli abiti rossi. Offred è stata letteralmente rapita, e le è stata tolta la figlia Hannah (Jordana Blake), mentre il marito Luke (O.T. Flegbenle) è riuscito a fuggire in Canada. È stata sottoposta alla rigida disciplina e alle violenze (e qualche volta alle torture) del Red Center insieme anche alla sua amica Moira (Samira Wiley), o alla fragile Ofwarren (Madeline Brewer) sotto la sadica guida di “zia” Lydia (Ann Down, appena reduce di un ruolo altrettanto intenso in The Leftovers). 

I comandati sono sposati e quando è il momento di fertilità della donna in grado di concepire, i tre – con riferimento anche alle Sacre Scritture – partecipano alla “Cerimonia” di “stupro rituale”, che prevede l’ancella in mezzo fra i coniugi, adagiata fra le cosce della moglie -  per Fred è Serena Joy (Yvonne Strahovski, The Astronaut Wives Club) - che le tiene le braccia e a gambe larghe perché il  comandante possa penetrarla nella speranza che risulti in un concepimento. Delle case dei comandanti si prendo cura delle donne diverse ancora, le Marte – qui Rita (Amanda Brugel). Un sistema stringente e oppressivo, in cui gli oppositori vengono impiccati o diversamente puniti e giustiziati – a Diglen (Alexis Bledel, Gilmore Girls, in un ruolo che la rivela molti più brava di quanto non la credessi), ad esempio, viene forzatamente eseguita la mutilazione genitale femminile e le donne in cerchio periodicamente si trovano a lapidare persone che abbiamo violato certi precetti. Il rispetto delle regole è attivamente monitorato dagli Occhi (una sorta di spie) – e l’autista tuttofare del Comandante Fred, Nick (Max Minghella) è uno di loro - e dagli Angeli (uomini armati). Si comincia a formare un resistenza, un movimento chiamato Mayday.

La tematica della libertà riproduttiva è quanto mai attuale, specie negli Stati Uniti dove le paventate limitazioni governative nell’era Trump sono sentite come un rischio molto pressante. La serie la affronta con tinte fortemente femministe – anche se pare (Merian) che sia autrice che cast abbiano cercato di prendere in qualche modo le distanze da questa etichetta, preferendo puntare sull’umanità della questione. Per come la vedo io le questioni femministe sono questioni umane che riguardano fortemente anche gli uomini in ogni caso, e pensare che non sia così è ingiustificato sessismo. È una questione femminista, è una questione umana. L’aberrazione e la schiavizzazione a cui portano il concepire le donne solo come incubatrici e solo per il loro potere riproduttivo – quelle che riescono a rifiutarsi sono considerate non-donne e costrette a lavorare in fabbriche velenose in cui la possibilità di sopravvivenza è solo a breve termine – è lampante e le conseguenze di portare alle logiche conclusioni certi principi sono illustrate con lucidità. Si mettono anche in luce la necessaria complicità delle donne stesse nel sostenere e mantenere strutture patriarcali (attraverso personaggi come Serena Joy o aunt Lydia), e come aberranti situazioni di questo genere possano essere mantenute solo in climi di sospetto, silenzio e ignoranza (alle donne ad esempio è proibito leggere).

La storia, portata sullo schermo da Bruce Miller, è appassionante e coinvolgente quanto agghiacciante. Algida, anche nei momenti più di fuoco. E cruda, cosa attenuata da una fotografia che predilige colori smorti e grigiastri, che aumentano il senso di disperata oppressione. E brutale. Così descritta sembra pesante da seguire, ma non è così. Forse è penosa, ma la sensazione ultima che lascia non è di pena, ma vince il tono emotivo della resilienza dello spirito umano. E la serie è capace di provocare stupore in inquadrature che talvolta mozzano il fiato nella loro linearità e semplicità.

“Nolite Te Bastardes Carbundorum” trova scritto Offred inciso sulla parete di in uno sgabuzzino della stanza di cui vice praticamente prigioniera: “che i bastardi non ti schiaccino” è il significato della frase in latino maccheronico. Alla fine è una storia di sopravvivenza.

Per uno sguardo più approfondito, leggete il mio saggio su questa serie, che ha da poco vinto l'Emmy come miglior serie drammatica, su "Osservatorio TV 2017" (non ancora disponibile, ma di prossima uscita al momento in cui pubblico il post). 

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