venerdì 25 giugno 2021

THE GOOD FIGHT - 5.01 - precedentemente, nel 2020

The Good Fight (da adesso sull’americana Paramount+) è tornata con la quinta stagione, e… che inizio! Solo Robert e Michelle King potevano scrivere un’intera puntata di “Previously on”  - proprio il titolo della 5.01 – e terminare con la sigla d’apertura che ha sostituito la furia distruggi-tutto delle precedenti a cui eravamo abituati, in fondo uno sfogo di tutta la rabbia anti-Trump, per sostituirla con gattini, porcellini, pulicini, cagnetti, e agnellini… tenerezza.

È stata un riassunto del 2020, e non poteva essere più denso: pandemia e Jay (Nyambi Nyambi) con il COVID-lungo (fatemi sperare per un momento che troveranno spazio per parlare anche di questo); George Floyd; il secondo emendamento; ZOOM; il white guilt; la morte di RBG, il riot di inizi gennaio alla Casa Bianca…e cenni alla formazione giuridica, all’apprezzamento professionale, al valore dei capelli nella cultura nera, al senso della politica…The Good Fight ha sempre tanta di quella carne al fuoco da togliere il fiato. “Talk. Understand. Unite.” Parla. Comprendi. Unisci.” Questa la strada da percorrere?

Perdiamo Lucca (Cush Jumbo) e Adrian (Delroy Lindo): la pandemia con la conseguente accorciata quarta stagione non ha permesso di raccontarne l’uscita come intendevano, ma sono riusciti a renderlo entusiasmante ugualmente con questa loro apparizione di cortesia ora, a risolvere le questioni sospese. Marissa (Sarah Steele) dà una svolta alla sua vita. Diane (Christine Baranski) e Liz (Audra McDonald) saranno al timone, e si attendono nuove entrate. So già che non rimarrò delusa.

Mi sono divertita a vedere Karl Marx, Malcom X, Gesù e Frederick Douglass discutere con Jay – chi altri infila personaggi simili nelle sue storie? Il riferimento a una pubblicità in Soul Train risalente agli anni ’70 non sono stata in grado di coglierlo se non lo avessero specificatamente menzionato, ma ammetto che la critica televisiva che è in me si è commossa quando ha visto Diane e Adrian avvicinarsi alle porte all’ascensore che si è spalancato sul vuoto del pozzo in cui quasi hanno rischiato di cadere, un evidentissimo riferimento a uno dei momenti iconici del piccolo schermo, l’uscita di scena di Rosalind (Diana Muldaur) da L.A. LAW – Avvocati a Los Angeles morta proprio così (qui).   

Come sempre questa serie mi lascia carica e so che non mancheranno gli stimoli legati all’attualità e alle questioni politico-sociali più discusse del momento. Non vedo l’ora.  

venerdì 18 giugno 2021

PRIX ITALIA 2021: “It’s a sin” vince - evviva, ma...

It’s a sin ha vinto il Prix Italia 2021. L’ho saputo dalla pagina Instagram dell’autore stesso, Russell T. Davies, da cui ho preso l’immagine di cui sopra. Sono molto contenta ed è supermeritato. Salvo sorprese, penso che sia probabile che finirà per essere il programma migliore dell’anno, per me.

Solo, mi rammarico del fatto che Prix Italia finisce per premiare programmi che poi, tristemente, il grande pubblico nemmeno ha mai sentito nominare. E questo almeno è andato in onda (su Starz).

Nel 2013 hanno premiato Äkta människor. Io ci ho scritto un saggio (qui). Anche in quel caso penso fosse meritato, ma in Italia non mi risulta che sia mai andato in onda. È assurdo. Penso che premiare qualcosa con l’etichetta “Italia” che nessuno poi in Italia fuori dai festival ha modo di vedere sia scandaloso.

Io parlo spesso di programmi che nessuno ha modo di vedere, se non facendo a volte salti mortali, e mi si potrebbe rivolgere la stessa critica. Credo che sia legittimo per chi si occupa di un settore farlo a tutto tondo. Non avrebbe senso diversamente, tanto più nel mondo globalizzato di ora. Cercate voci nuove e diverse è anche il ruolo di un critico. “Se leggi solo i libri che tutti gli altri stanno leggendo, puoi solo pensare quello che tutti gli altri stanno pensando” è una citazione attribuita a Murakami. Penso possa valere anche per il piccolo schermo.

Quello che intendo è che si dovrebbero instaurare dei meccanismi virtuosi per cui quello che è giudicato il meglio possa primo essere fruibile da chiunque voglia avervi accesso, e secondo sia idealmente promosso a un pubblico più ampio, ma non mi pare che chi ha potere in tal senso faccia granché. 

sabato 12 giugno 2021

GENERA+ION: gli adolescenti della Generazione Z

Generation (dell’americana HBO Max), reso graficamente come “Genera+ion” racconta di un gruppo di liceali alla scoperta della sessualità e della vita. La serie ha fatto parlare di sé perché è stata ideata da una ragazza ora diciannovenne, ma sedicenne quando ha iniziato il progetto, Zelda Barnz, insieme a uno dei suoi due padri, Daniel Barz. L’altro suo padre pure è parte del team come produttore esecutivo, così come lo è Lena Dunham (Girls), che a sceneggiato la quinta puntata. E sebbene il titolo si intenda come gruppo di persone nate anagraficamente nello stesso periodo, in questo caso la cosiddetta Generazione Z, con il “più” ad indicare una consapevolezza LGBTQ+ (gruppo a cui appartiene la maggior parte dei personaggi), vuole avere anche il senso di “creazione”.

Siamo nel sud della California. Chester (Justice Smith) è un ragazzo gay molto disinibito, ma anche molto solo, che vive con sua “nonna” (in italiano nell’originale), e finisce per innamorarsi del nuovo consulente scolastico, Sam (Nathan Stewart-Jarrett) dal quale viene spedito per reiterate violazioni del codice d’abbigliamento scolastico. Greta (Haley Sanchez) è una ragazza Latinx che gode un momento di libertà ora che la madre è stata deportata e vive con la zia Ana (Nava Mau), ma sa che non durerà, e non riesce a concedersi di poter avere una storia con la ragazza da cui è attratta, Riley (Chase Sui Wonders), appassionata di fotografia. Nathan (Uly Schlesinger) è bisessuale, ma quando la sorella gemella Naomi (Chloe East) scopre che se la fa con il suo ragazzo, viene presto a scoprirlo anche la madre Megan (Martha Plimpton). Arianna (Nathanya Alexander), sebbene etero, si permette battute dagli altri considerate omofobe in virtù del fatto che ha due padri gay (J. August Richards e John Ross Bowie). Delilah (Lukita Maxwell), che non si era resa conto di essere incinta, partorisce nel bagno di un centro commerciale, ma non si sente di dirlo ai suoi, e d’accordo con il ragazzo che l’ha messa incinta, J (Sandy Mae Diaz), decide di dare la  neonata in adozione.  

Nel pilot e in alcune altre puntate, ma non sempre e oculatamente (sarebbe diventato troppo pesante), le stesse situazioni vengono riprese guardando allo stesso momento da più punti di vista. Ci sono i classici tropi dei teen drama di generazioni precedenti. Una differenza significativa è che i ragazzi sono iperconnessi: la tecnologia, cellulari e social in particolare, sono onnipresenti. Sebbene questo sia realisticamente rappresentato, non è grande spunto di riflessione, pare. Un teen contemporaneo che come tale potrebbe venir richiamato è Euphoria, ma se quello è artisticamente più riuscito, è anche più disperato, liminale e lisergico. I personaggi qui meglio messi a fuoco sono Chester e Greta, decisamente più tridimensionali. E il rapporto di Chester con Sam, è stato veramente ben costruito, anche se la gestione da parte di quest’ultimo dell’intera faccenda mi ha lasciato qualche perplessità.

Uno degli aspetti che mi ha colpita di più, e che non riesco a decifrare quanto sia voluto e quanto sia un difetto, è il fatto che si sbanda continuamente fra una cosa che si vuole dire, e il fatto di dirla in modo eccessivo, esagerato, come se non si avesse il controllo di quell’idea. Credo che sia vero dell’adolescenza. Si testano in qualche maniera i propri limiti, e si approcciano certe idee di cui non sempre si ha la maturità di gestire in modo appropriato. La storia di Delilah che partorisce, che ci accompagna nel teaser prima dei titoli di testa, spezzettata per tutta la stagione, è proprio emblematica di questa caratteristica. Tuttavia, appunto, non riesco a capire in che termini propriamente interpretarla. Mi spiego meglio calandola in un paio di situazioni specifiche.

È più che evidente che si è molto consapevoli di questioni progressiste sociali e di equità, tuttavia il modo in cui vengono usate darebbe ragione a coloro che ritengono certe battaglie senza senso, solo performative, un modo di atteggiarsi ma di fatto ridicole. Porto qualche esempio. Durante una lezione di matematica (1.01), Delilah si lamenta con il professore che, all’interno del problema da risolvere, si divide la classe in maschi e femmine, perpetrando l’idea della binarietà della sessualità che la studentessa oppone. Il professore le risponde nei termini di orientamento sessuale (“facciamo finta che tutti gli studenti in questa classe fittizia siano etero”), piuttosto che di gender, cosa che non sfugge alla ragazza che lo rimarca (“penso che la parola che intendesse usare fosse cisgender”). Se da un lato, si simpatizza con la preoccupazione della studentessa, perché certi stereotipi e certe idee a volte passano più in modo trasversale che in modo diretto, contemporaneamente sembra completamente ridicolo e pretestuoso, una fesseria, quando quello che lì si deve fare è imparare la matematica. Si ci può stare che una ragazza molto zelante si comporti così, sembra che qualche volta lo faccia anche la serie. Arianna cade in questo più volte: al supermercato, dice all’addetto alla sicurezza che sta cercando di spiegarle una cosa, di smetterla di fare mansplaining, cosa che di fatto non stava facendo. Quando prende un gran numero di bicchieri da un’attività commerciale dicendo che non intende pagarli e scappa via gridando “Reparations” (Riparazioni) – ovvero il risarcimento pecuniario che alcuni ritengono si debba ai neri contemporanei per il fatto che i propri avi sono vissuti in una situazione di schiavitù - di certo non fa una bella figura, o bene alla causa.

Si vede perciò grande consapevolezza di determinate questioni, ma vengono usate in modo tale da avere l’effetto contrario. Forse bisogna constatare che è il modo in cui vengono usate da tanti ragazzi. Forse non è un limite della sceneggiatura, ma un limite della società, se così vogliamo dire, che viene riflettuta da questo tipo di rappresentazione. È questo che non riesco a stabilire, se sia una cosa una cosa o l’altra.

Esamino un altro piano in cui lo vedo verificarsi. La serie è sboccata, ma mentre in alcune situazioni ci sta completamente ed era anche appropriato all’età dei personaggi, in altre sono rimasta molto perplessa. Concretamente, quando ragazzi partono per andare in gita a San Francisco (1.06) e devono salire sul pulmino, qualcuno suggerisce di battezzare con un nome l’autobus su cui viaggeranno. Qualcuno suggerisce “bussy”, partendo dalla radice “bus” (autobus), ma che in slang gay indica l’ano di un uomo (in italiano lo tradurrei “pulm-ano”, per quando questa in italiano non sia una effettiva parola, diversamente da “bussy”). I ragazzi lo usano più volte in più frasi, in modo divertito, con gli adulti uno che sorride accettandolo come la ragazzata che è, l’altra senza avere idea del significato. Ci stava completamente, è stato sia divertente, sia realistico. Quando invece Megan (1.08) chiama i figli perché ha visto un bacio a tre di Nathan filmato da Naomi, la ragazza dice al fratello un equivalente di “sta cercando di fotterci entrambi”. Quello che io qui ho tradotto come “fotterci” perché non sarei in grado tradurlo con una sola parola, nell’originale era “fisting” (la penetrazione con il pugno). L’ho trovato un po’ forte e stonato, detto da un’adolescente etero rispetto alla propria madre. Magari mi sbaglio, magari è una cosa che un adolescente direbbe, ma a me è sembrato fuori luogo.

In fondo, come dicevo quando ho introdotto questa mia osservazione, lo si vede proprio anche da Delilah che decide di dare in adozione la bimba che appena partorito. Non sapeva di essere incinta, e deve far cercare su Google alle amiche come procedere per partorire, o come lasciarla perché venga data in adozione (con anche un momento di gruppo molto toccante, sul dunque), ma poi quando decide di farlo, esprime un lungo elenco di desideri e aspettative di giustizia sociale in cui vorrebbe che sua figlia fosse cresciuta. Da un lato si è infantili e inconsapevoli, dall’altro molto maturi e fin troppo coscienti. Suppongo sia in effetti una definizione di adolescenza e quindi promuovo questo progetto che continuerò a seguire se verrà rinnovato per una seconda stagione.

mercoledì 2 giugno 2021

INDUSTRY: neolaureati al lavoro nell'alta finanza

Sesso, droga e iperlavoro, non necessariamente in quest’ordine, sono gli elementi fondanti di Industry (HBO, BBC2), su un gruppo di neolaureati che cominciano un periodo di prova presso un’importante banca londinese, la Pierpoint & Co.: alla fine del ciclo (e della stagione televisiva) verranno valutati per capire chi di loro vale la pena assumere. Giovani donne e uomini che si mettono alla prova e scoprono chi sono in un mondo del lavoro ulttracompetitivo. Il pilot trasmette proprio quella tensione performativa e quell’ansia da prestazione che vivono i protagonisti, uno dei quali per questa ragione fa una brutta fine. Il titolo è comunque generico perché, sebbene qui si sia nel mondo dell’alta economia e finanza, è applicabile anche ad altri settori: quello che è sotto i riflettori sono le mircopolicy di certi ambienti (cfr l’intervista con gli autori in TV’s Top5).

Harper (Myha’la Herrold) è un’americana che ha mentito sulle proprie credenziali per essere lì, ma supera la paura di venire scoperta quando Eric (Ken Leung, Lost), suo mentore, la prende sotto la sua ala. Yasmin (Marisa Abela), che ha genitori di origina libanese e parla fluentemente anche arabo e spagnolo, viene da una famiglia economicamente e socialmente privilegiata, e vive con il fidanzato con il quale c’è un rapporto un po’ fiacco. Robert (Harry Lawtey) è un laureato a Oxford proveniente dalla classe operaia che è desideroso di apprendere i costumi del nuovo ambiente in cui ora si trova a navigare e presto comincia a provare attrazione per Yasmin e a flirtare con lei. Augustus "Gus" (David Jonsson), un gay nero britannico laureato in studi classici a Eton e Oxford, che condivide un alloggio con Robert, sa di valere. Hari, un laureato della scuola pubblica, figlio di immigrati di lingua urdu, è tesissimo e ansioso: finisce per dormire nella toilette perché non ha nemmeno il tempo di tornare a casa. A supervisonarli ci sono numerosi dipendenti senior della banca, ma in particolare creano un rapporto con Daria (Freya Mavor). Sara Dhadwal (Priyanga Burford) è la presidente della banca.

Mickey Down e Konrad Kay, che hanno una formazione nel mondo dell’alta finanza e hanno ideato la serie, hanno reso quel mondo in modo realistico, riuscendo a rendere appetibili e comprensibili situazioni economiche complicate: anche quando non capisci, riesci a comunque a comprendere che cosa sta accadendo. Hanno attivato anche l’interesse di Lena Dunham (Girls), che ha diretto il pilot, e si sente come possa essere vicino alla sua sensibilità, specie nelle relazioni personali. Anche nella descrizione degli atti sessuali la serie è molto esplicita, anche se non l’ho mai percepita come volgare.

Come si possa essere molto bravi e molto inesperti viene reso alla perfezione qui: è uno dei punti di forza del programma, che nel finale decolla proprio, mostrandosi più di mero escapismo. Poco dopo la metà della stagione, Eric chiude la porta della sala riunioni, dove le chiede di andare per parlarle in privato, e fa una ramanzina ad Harper. ATTENZIONE SPOILER. Su quel chiudere quella porta si costruiscono successivi ben calibrati colpi di scena, fino alla detonazione finale. La regia è stata sottile a sufficienza da far notare che la porta veniva chiusa – io so di aver percepito che mi sarei sentita a disagio, per il fatto che veniva chiusa a chiave, se fosse capitato a me nella vita vera -, ma non così tanto lì per lì, da far capire che poteva essere un potenziale problema. Quando Harper chiede di aprire la porta, lui lo fa subito senza problemi. Questo mi aveva rilassata, e mi sono detta che forse ero io che avevo percepito una situazione “di potenziale pericolo”.  

Appena Harper nella puntata successiva (1.06) lo menziona a Daria, lei sottolinea come sia un comportamento inadeguato, e Eric viene licenziato, e ad Harper viene chiesto di firmare una sorta di NDA. In chiusura però Harper viene messa davanti a una scelta: dire che è stata forzata da Daria a fare quella dichiarazione, e così reintegrare Eric, oppure lasciare che le cose stiano come stanno. Daria e la presidente della banca, Sara, le dicono che vogliono l’opportunità di cambiare la cultura. All’uomo invisibile vogliono sostituire la donna visibile.

La scelta finale di Harper, che non spoilero, è interessante perché in qualche modo apparentemente mette in contrapposizione istanze e aspirazioni femministe e lealtà personali, ma in realtà fa riflettere su che cosa significhi anche eventualmente fare delle scelte femministe. In questo entra in gioco anche una molestia che Harper ha dovuto subire da una cliente proprio nel pilot. E che cosa significhino l’integrità e la relazione personale in una ambiente in cui apparente non hanno un valore. Ad un certo punto, viene insegnato alla ragazza come misurare, con la clessidra, il tempo al telefono in cui, prima di parlare d’affari ci si dedica alle vicende personali del cliente, per dare l’illusione di un legame, che in realtà ha interesse solo in termini economici. Su quello standard ci si misura. E si riflette, anche su quello che è apparente e performativo, e quello che è sostanziale.  

Alla fine, un programma notevole, che alla luce della prima stagione intendo proseguire. Che avesse menzioni agli Emmy in qualche categoria non mi sorprenderebbe.