È
una gioventù disperata, autolesionista e allo sbando, quella messa in scena con
bravura da Euphoria, il primo teen drama della HBO (in Italia su Sky Atlantic) con vite di sesso,
droga e social media nella seconda decade degli anni 2000. A idearlo, sulla
base di una omonima serie israeliana, è stato Sam Levinson (Assassination Nation, figlio di Barry Levinson) anche
sceneggiatore di tutte le puntate della prima stagione e regista di cinque
delle otto puntate. Per l’autore è anche una storia profondamente personale, autobiografica
per la parte che concerne le droghe (THR).
Rue (una Zendaya da cui
ci si aspetta una carriera di successi) è un’adolescente che comincia il suo
penultimo anno di superiori dopo che è uscita da un centro di disintossicazione
per un’overdose dalla quale l’ha salvata, trovandola, la sorella minore, Gia
(Storm Reid). Lotta costantemente con la dipendenza da sostanze, iniziata
prendendo le pillole del padre morente. Perfino uno spacciatore che tiene a
lei, Fezco (Angus Cloud), cerca di allontanarla da possibili ricadute. Presto
stringe un’amicizia, che diventa anche qualcosa di più, con Jules (Hunter
Schafer), una ragazza trasngender appena arrivata in città. A gravitare intorno
alla sua vita ci sono la sua migliore amica d’infanzia Lexi (Maude Apatow) e i
compagni di scuola: Kat è una ragazza soprappeso, che all’esordio è vergine,
che diventa avventurosa in campo di sesso, anche online, e matura un nuovo
rapporto col proprio corpo; Nate (Jacob Elordi) è uno sportivo che proviene da
una famiglia in vista con forti insicurezze sessuali - ha una ragazza, Maddy (Alexa Demie) con cui
ha un rapporto sentimentale a intermittenza, abusante, e un padre, Carl (Eric
Dane) che nasconde un segreto che
potrebbe rovinargli la reputazione, per dirla in modo eufemistico, e con cui si sviluppa in rapporto
affascinante da seguire; e poi c’è la dolce Cassie (Sydney Sweeney, The Handmaid’s Tale), sorella maggiore
di Lexi, dal colorito passato sessuale che continua a influenzare la sua vita,
che è fidanzata con il giocatore di football Christopher (Algee Smith), che il
padre spinge ad eccellere.
La sceneggiatura ci va
giù pensate, riesce ad essere brutale, e scioccante, ma mai fine a se stessa,
ma proprio come parte del senso che intende trasmettere. Si preme l’acceleratore
su droga e sesso con molta libertà – una puntata si annunciava come quella che
avrebbe mostrato ben 30 membri maschili. La regia punta su toni scuri, plumbei,
ma coperti di glitter, scintillii che mascherano lo straziante squallore, umano
ed emozionale di un buildungsroman che
avrebbe il sapore della distopia se non fosse così crudemente autentico. Cinematograficamente
è stimolante. Ci sono inquadrature insolite, sperimentali, ancora più spinte lì
dove si vuole dare il senso dell’allucinazione tossica e una alterazione del
vissuto. Il senso che trasmette è che questa è la realtà, ma è
una realtà marcia, malata, distorta, non è quello che dovrebbe essere.
Rue nel pilot dice come
la irriti il fatto che quando trapela il nudo di una persona famosa, la gente
critica che tanto per cominciare non avrebbero dovuto scattare una simile foto:
“Mi dispiace, so che la vostra
generazione faceva affidamento su fiori e il permesso del padre, ma è il 2019,
e a meno che tu non sia Amish, i nudi sono la moneta dell'amore. Quindi
smettetela di farci vergognare. Fate vergognare gli stronzi che creano elenchi
online protetti da password di ragazze minorenni nude". (1.01 – traduzione
mia). Non si hanno peli sulla lingua, non
ci si fa problemi a dire cose scomode.
Gli effetti del porno,
la pressione dei coetanei, l’assenza di una bussola morale, le trappole del
web, le famiglie sfasciate, gli abusi fisici e verbali, le app di incontri, gli
adulti assenti, le paure e le insicurezze di un delicato momento della crescita:
c’è molta profondità e umanità, anche se un’umanità di cui è triste rendersi
conto, in questa serie che fa anche affidamento in modo molto estensivo alla voce fuori campo di Rue. Questa, si dice sempre, è una modalità di cui si
approfitta troppo e di cui si potrebbe fare a meno se non viene utilizzata con
una logica specifica che la renda significava. Qui ci sono lunghi brani di
monologhi, e funzionano.
Se la figura dello “spacciatore
buono”, che si dà alla criminalità per sostenere la nonna in coma di cui si
prende cura, nonostante il bravo interprete, mi pare un po’ favolistica, le
altre le ho trovate tutte convincenti, e ho particolarmente apprezzato quella
che coinvolge Nate: l’odio per se stesso e il rapporto tossico con la sua
ragazza, i ricatti che mette in piedi per preservare la sua immagine di bravo
ragazzo, il confronto con il padre (spettacolosa la season finale a questo proposito)…
La prima stagione, a cui
ne farà seguito una seconda, termina, in modo inaspettato ma efficace, con un
numero musicale.
Nessun commento:
Posta un commento