martedì 8 ottobre 2019

CHERNOBYL: una ricostruzione parenetica che onora eroi senza nome


“Essere uno scienziato vuol dire essere un ingenuo. Siamo così presi dalla nostra ricerca della verità da non considerare quanto pochi siano quelli che vogliono che la scopriamo, ma la verità è sempre lì, che la vediamo o no, che scegliamo di vederla o no. Alla verità non interessano i nostri bisogni, ciò che vogliamo, non le interessano i governi, le ideologie, le religioni. Lei rimarrà lì, in attesa, tutto il tempo. E questo, alla fine, è il dono di Chernobyl. Se una volta temevo il costo della verità ora chiedo solo: qual è il costo delle bugie?” (1.05)
Ha vinto l’Emmy come miglior miniserie del 2019, ha ricevuto approvazione quasi universale dalla critica con un punteggio su Metacritic di 83, è stata biasimata dai russi come propaganda statunitense che li vuole mettere in cattiva luce tanto che vogliono girarne una contro-versione (si legga qui in proposito): Chernobyl è stata una coinvolgente coproduzione HBO-Sky sul disastro nucleare del 26 aprile 1986 che diversi di noi (sicuramente quelli che come me all’epoca erano adolescenti) ricordano bene: l’esplosione del reattore numero quattro di una centrale in Ucraina che ha diffuso una radioattività considerata pari a centinaia di volte la bomba di Hiroshima.  

Ideata e scritta da Craig Mazin, che si è ispirato al libro Preghiera per Černobyl’ della premio Nobel per la letteratura Svjatlana Alexievič, e diretta da Johan Renck, questa ricostruzione degli eventi segue lo scienziato Valerij Legasov (Jared Harris, Mad Men, The Crown), vicedirettore dell’Istituto di energia atomica Kurchatov, e il politico Boris Shcherbina (Stellan Skarsgård), vicedirettore del consiglio dei Ministri, a capo dell’ufficio per il combustibile e l’energia e della commissione che deve indagare sull’evento. Il rapporto fra i due, e la progressiva presa di consapevolezza degli eventi da parte di quest’ultimo, che da arrogante burocrate si trasforma facendo tutto quello che può per rimediare alla situazione, è il vero punto di forza della narrazione, uno spettacolo nel modo sottile, ma evidente, di costruzione della stima reciproca, se non addirittura amicizia, fra due uomini che la sorte ha gettato insieme. Il vero successo artistico per me sta qui. Altro personaggio di rilievo è stata Ulana Khomyuk (Emily Watson) una scienziata bielorussa dell’istituto per l’energia nucleare che indaga sul disastro. Come espresso esplicitamente in chiusura, quando vengono riportati i dati sull’evento al di là della ricostruzione della finzione, si tratta di un personaggio inventato che rappresenta tutti quei fisici e ingegneri che nella realtà si sono spesi per risolvere l’incidente.   

Il resto della trama di costruisce su personaggi minori: il pompiere fra i primi soccorritori che lascia la moglie incinta; la moglie di lui che non vuole allontanarsi dal suo amato e che finirà per perdere il bimbo che porta in grembo; il ragazzo imberbe incaricato di uccidere tutti gli animali che trova perché contaminati e, se trova il coraggio di sparare a un cane dopo che cerca di farlo scappare, non ha cuore di liberarsi di una cucciolata con la madre; i contadini costretti ad evacuare (incarnati da una donna anziana che si rifiuta di lasciare la sua casa e continua a mungere la sua mucca); i minatori mandati in missione suicida nei sotterranei; gli operai lasciati per pochi secondi sui tetti radioattivi; semplici abitanti del luogo che avevano assistito al tragico spettacolo da un ponte, di cui non ne sopravvivrà nemmeno uno, ci viene raccontato in chiusura. Qui, al di là dei volti riconoscibili che umanizzano le vicende, ci sono tanti, tantissimi volti anonimi, che bene esprimono quello che è il prezzo di quanto è accaduto, ovvero migliaia di vite a cui non riusciremo mai a dare un volto o un nome che hanno pagato un prezzo altissimo soffrendo e sacrificandosi (a loro è dedicata quest’opera). Si onorano tanti eroi senza nome.   

E il senso del racconto è poi quello di cercare e di capire il perché tutto questo sia accaduto, di mostrare la concatenazione di tanti piccoli errori – ignoranza, insabbiature, bugie, abusi, arroganza, segreti, incompetenza -  che nell’insieme hanno portato alla catastrofe, e, come fa notare la citazione finale che ho messo come cappello introduttivo, il rischio dell’omertà, che sia dovuta a ideologia o vigliaccheria, e delle menzogne. E in questo senso quest’opera ha sicuramente un senso parenetico, di monito a non ricadere nella stessa trappola, alla quale siamo inevitabilmente destinati se la situazione non cambia.

Notevole è stata l’inquietante colonna sonora di Hildur Gudnadottir. Come  ha ben scritto Randall Coburn (AVClub): “Anche se nulla spezza i nervi come un dosimetro scoppiettante, i droni elegiaci a ripetizione di Gudnadottir evocavano il lamento marcescente di una sirena lontana, fungendo da manifestazione uditiva dell'aria velenosa”. Stilisticamente è stata tesa, senza un momento sosta, ma per il resto anche è stata anche una produzione molto classica.

Se colpa significa negligenza, imprudenza e imperizia, qui ci troviamo ad un esempio lapalissiano di colpa, e di consapevolezza della necessità di prendersene la responsabilità. Una miniserie che esorta a guardare in faccia l’orrore morale perché non si concretizzi in altre forme e guarda negli occhi con altrettanta chiarezza alla forza umana di far fronte alle sue conseguenze.

2 commenti:

  1. Miniserie decisamente impressionante. Harris è inarrivabile secondo me. Oltre Mad Men e The Crown, c'è anche The Terror in cui giganteggia.

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    1. Sì. notevole davvero. Non ho (ancora) visto "The Terror".

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