“Essere uno scienziato vuol dire essere un
ingenuo. Siamo così presi dalla nostra ricerca della verità da non considerare
quanto pochi siano quelli che vogliono che la scopriamo, ma la verità è sempre
lì, che la vediamo o no, che scegliamo di vederla o no. Alla verità non
interessano i nostri bisogni, ciò che vogliamo, non le interessano i governi,
le ideologie, le religioni. Lei rimarrà lì, in attesa, tutto il tempo. E
questo, alla fine, è il dono di Chernobyl. Se una volta temevo il costo della
verità ora chiedo solo: qual è il costo delle bugie?” (1.05)
Ha vinto l’Emmy come
miglior miniserie del 2019, ha ricevuto approvazione quasi universale dalla
critica con un punteggio su Metacritic di 83, è stata biasimata dai russi
come propaganda statunitense che li vuole mettere in cattiva luce tanto che
vogliono girarne una contro-versione (si legga qui
in proposito): Chernobyl è stata una coinvolgente
coproduzione HBO-Sky sul disastro nucleare del 26 aprile 1986 che diversi di
noi (sicuramente quelli che come me all’epoca erano adolescenti) ricordano
bene: l’esplosione del reattore numero quattro di una centrale in Ucraina che
ha diffuso una radioattività considerata pari a centinaia di volte la bomba di
Hiroshima.
Ideata e scritta da
Craig Mazin, che si è ispirato al libro Preghiera
per Černobyl’ della
premio Nobel per la letteratura Svjatlana Alexievič, e
diretta da Johan Renck, questa ricostruzione degli eventi segue lo scienziato
Valerij Legasov (Jared Harris, Mad Men,
The Crown), vicedirettore dell’Istituto
di energia atomica Kurchatov, e il politico Boris Shcherbina (Stellan Skarsgård),
vicedirettore del consiglio dei Ministri, a capo dell’ufficio per il
combustibile e l’energia e della commissione che deve indagare sull’evento. Il
rapporto fra i due, e la progressiva presa di consapevolezza degli eventi da
parte di quest’ultimo, che da arrogante burocrate si trasforma facendo tutto
quello che può per rimediare alla situazione, è il vero punto di forza della
narrazione, uno spettacolo nel modo sottile, ma evidente, di costruzione della
stima reciproca, se non addirittura amicizia, fra due uomini che la sorte ha
gettato insieme. Il vero successo artistico per me sta qui. Altro personaggio
di rilievo è stata Ulana Khomyuk (Emily Watson) una scienziata bielorussa
dell’istituto per l’energia nucleare che indaga sul disastro. Come espresso
esplicitamente in chiusura, quando vengono riportati i dati sull’evento al di
là della ricostruzione della finzione, si tratta di un personaggio inventato
che rappresenta tutti quei fisici e ingegneri che nella realtà si sono spesi
per risolvere l’incidente.
Il resto della trama di
costruisce su personaggi minori: il pompiere fra i primi soccorritori che
lascia la moglie incinta; la moglie di lui che non vuole allontanarsi dal suo
amato e che finirà per perdere il bimbo che porta in grembo; il ragazzo imberbe
incaricato di uccidere tutti gli animali che trova perché contaminati e, se
trova il coraggio di sparare a un cane dopo che cerca di farlo scappare, non ha
cuore di liberarsi di una cucciolata con la madre; i contadini costretti ad
evacuare (incarnati da una donna anziana che si rifiuta di lasciare la sua casa
e continua a mungere la sua mucca); i minatori mandati in missione suicida nei
sotterranei; gli operai lasciati per pochi secondi sui tetti radioattivi; semplici
abitanti del luogo che avevano assistito al tragico spettacolo da un ponte, di
cui non ne sopravvivrà nemmeno uno, ci viene raccontato in chiusura. Qui, al di
là dei volti riconoscibili che umanizzano le vicende, ci sono tanti, tantissimi
volti anonimi, che bene esprimono quello che è il prezzo di quanto è accaduto,
ovvero migliaia di vite a cui non riusciremo mai a dare un volto o un nome che
hanno pagato un prezzo altissimo soffrendo e sacrificandosi (a loro è dedicata
quest’opera). Si onorano tanti eroi senza nome.
E il senso del racconto
è poi quello di cercare e di capire il perché tutto questo sia accaduto, di
mostrare la concatenazione di tanti piccoli errori – ignoranza, insabbiature, bugie,
abusi, arroganza, segreti, incompetenza - che nell’insieme hanno portato alla
catastrofe, e, come fa notare la citazione finale che ho messo come cappello
introduttivo, il rischio dell’omertà, che sia dovuta a ideologia o
vigliaccheria, e delle menzogne. E in questo senso quest’opera ha sicuramente
un senso parenetico, di monito a non ricadere nella stessa trappola, alla quale
siamo inevitabilmente destinati se la situazione non cambia.
Notevole è stata
l’inquietante colonna sonora di Hildur Gudnadottir. Come ha ben scritto Randall Coburn (AVClub):
“Anche se nulla spezza i nervi come un dosimetro scoppiettante, i droni
elegiaci a ripetizione di Gudnadottir evocavano il lamento marcescente di una
sirena lontana, fungendo da manifestazione uditiva dell'aria velenosa”. Stilisticamente è stata tesa, senza un momento sosta, ma per il resto
anche è stata anche una produzione molto classica.
Se colpa significa
negligenza, imprudenza e imperizia, qui ci troviamo ad un esempio lapalissiano
di colpa, e di consapevolezza della necessità di prendersene la responsabilità.
Una miniserie che esorta a guardare in faccia l’orrore morale perché non si
concretizzi in altre forme e guarda negli occhi con altrettanta chiarezza alla
forza umana di far fronte alle sue conseguenze.
Miniserie decisamente impressionante. Harris è inarrivabile secondo me. Oltre Mad Men e The Crown, c'è anche The Terror in cui giganteggia.
RispondiEliminaSì. notevole davvero. Non ho (ancora) visto "The Terror".
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