venerdì 29 aprile 2022

BLACK-ISH: addio dopo 8 stagioni

È suonata molto metatestuale la finalissima di Blackish, semplice e perfetta: quello che dicevano i personaggi è sembrato davvero in parte anche quello che dicevano gli attori che li hanno interpretati.

La famiglia Johnson, dopo otto stagioni e 173 puntate, che ho visto tutte, più qualche speciale, ha salutato un po’ tutti i personaggi essenziali, compresa la vicina bianca razzista Janine (Nicole Sullivan) in apertura e chiusura di series finale, negli Stati Uniti andata in onda lo scorso 19 aprile. Nonno Earl (Laurence Fishburne) e nonna Ruby (Jenifer Lewis) si sono preparati a partire per un lungo viaggio. Papà Dre (Anthony Anderson) ha lasciato il lavoro alla Stevens & Lido e ha salutato il suo capo Stevens (Peter Mackenzie) e i colleghi storici Josh (Jeff Meacham) e Charlie (Deon Cole). E tutta la famiglia, mamma Bow (Tracee Ellis Ross) e i figli Junior (Marcus Scribner), Jack (Miles Brown), Diane (Marsai Martin) e DeVante (August and Berlin Gross) si sono trasferiti in una nuova casa in un quartiere nero. Per dare l’addio alla vecchia è tornata a casa anche la figlia maggiore Zoey (Yara Shahidi), che è qualche stagione che oramai era una presenza saltuaria. Hanno fatto un vero e proprio funerale al passato, con tanto di banda finale e “second line”, alla maniera di New Orleans, con tutto il cast che sorridente e danzante se ne va verso un nuovo futuro. E una coppia ispanica nella loro vecchia casa…

Sono stati i momenti di Dre e Bow da soli a osservare la casa vuota quelli più toccanti. Questa sit-com ideata da Kenya Barris, su cui ho scritto solo occasionalmente in questo blog, ma a cui ho dedicato anche un saggio in passato (qui), è stata talvolta didascalica, ma penso che sia stato necessario ascoltare certi predicozzi, o almeno io bianca penso che sia stato importante per me sentire certe lezioni da bocche nere. Per imparare, per vedere le cose da un punto di vista che troppo spesso passa in secondo piano. Non sempre ho condiviso, o è stata mordace come avrebbe forse potuto, ma mi ha sempre divertita e mi ha fatto sentire l’atmosfera di famiglia.

Chiudere è sempre difficile, ma black-ish lo ha fatto fedele al suo spirito fino alla fine.

mercoledì 20 aprile 2022

SEVERANCE: "unheimlich" e straordinario

Conto già Severance – Scissione (AppleTV+) fra le migliori serie dell’anno. E non ricordo l’ultima volta che sono stata così entusiasta di una season finale. Ero letteralmente on the edge of my seat, come si direbbe in inglese, seduta sul bordo della sedia, con il fiato sospeso e in tensione. È riuscita a emozionarmi, sorprendermi e ad appagarmi come di più difficilmente avrebbe potuto fare. Un must.

La premessa di questo thriller psicologico distopico ideato da Dan Erikson, con la regia di Ben Stiller per sei delle nove puntate della prima stagione e Aoife McArdle per le rimanenti, è abbastanza semplice: siamo in un futuro prossimo in cui un’azienda, la Lumon, ha ideato una procedura biomedica, chiamata “severance - scissione”, grazie alla quale la vita privata dei dipendenti è separata da quella lavorativa - gli “innie” sono le personalità dentro, gli “outie” quelle fuori. Le due parti della persona non sanno nulla l’una dell’altra. Il passaggio avviene attraverso un ascensore che attiva o disattiva una specifica parte del cervello.  

Mark Scout (Adam Scott, Parks and Recreation), o semplicemente Mark S. sul lavoro, dove i dipendenti sono conosciuti con il nome di battesimo e l’iniziale del cognome, lavora per la divisione Macrodata Refinement e ha deciso per la scissione per affrontare il lutto della moglie Gemma. È legato alla sorella Devon (Jenn Tulock) che aspetta un bambino ed è sposata con Ricken (Michael Chernus). I suoi colleghi nel suo dipartimento sono Dylan George (Zach Cherry), che si vanta di essere il più bravo e si gode i vantaggi che questo comporta, e Irving Bailiff (John Turturro), che crede molto nei valori dell’azienda. Una nuova impiegata, Helly Riggs (Britt Lower), arriva a sostituire Petey (Yul Vazquez), di cui Mark era amico, ma alla donna la nuova realtà sta stretta e cerca ogni modo per uscire da quella situazione. Senza successo. Presto, stimolati anche da altri avvenimenti, vogliono scoprire di più su sé stessi e l’azienda per cui lavorano. A controllare strettamente gli impiegati c’è Seth Milchick (Tramell Tillman) che però fa rapporto alla sua diretta superiore, la gelida Harmony Cobel (Patricia Arquette), che nella vita privata è vicina di casa di Mark che la conosce come signora Selvig, e non ha subito la scissione. Fra le persone con cui i dipendenti hanno maggior contatto c’è Casey (Dichen Lachman, Dollhouse), consulente di benessere, e Burt Goodman (Christopher Walken), che lavora per la divisione “Ottica e Design” ed è attratto da Irving.

La serie va ben oltre la critica a una società che ci vuole schizofrenici nel senso etimologico del termine, pronti a separare quello che siamo sul posto di lavoro e nella nostra vita privata, riconoscendo come essenziale l’interezza delle nostre esperienze, anche dolorose, per l’identità di ciascuno, e per la propria autostima. Diversamente è un inferno. E come tale, fatto di rituali triti e senza senso, è la vita dei dipendenti della Lumon – robotica, impersonale, asettica, labirintica - in cui devono ripetersi per autoconvincersi che “il lavoro è misterioso importante”, sostenuti da sentenze che hanno un gusto religioso e un panottico che punisce ogni minima trasgressione. È metafora della vita, ma anche riflessione sulle religioni, sulla solitudine e i rapporti umani, sul potere e la conoscenza, sui pregiudizi (e qui si pensi a 1.05 in particolare) e sul dissenso, sull’arte, sull’identità, sulla consapevolezza e su che cosa ci rende umani.

C’è un po’ di Lost, de Il Prigioniero, di Mr Robot, di Counterpart (nella sigla, nello sdoppiamento e nel rapporto con un’autorità invisibile), di Devs, di Maniac, di Scientology... Se dovessi scegliere un solo aggettivo per descriverla sceglierei, “unheimlich”, perturbante. A partire dalla notevole sigla di apertura realizzata da Oliver Latta, che ha il nome d’arte di Extraweg (qui la sua pagina web), che la descrive come “il viaggio mistico di queste diverse identità, ricordi di esperienze, dolore, perdita e controllo in un unico corpo, attraverso l'uso del surrealismo e sottile umorismo ironico” (si legga questo articolo in proposito).

Due trigger warning importanti: uno su autolesionismo – suicidio (in 1.04-1.05) e l’altro su immagini intermittenti che possono dare problemi a soggetti sensibili.

Sceneggiato e recitato alla perfezione. Straordinario. E poi, anche se non fanno ciao, ci sono le caprette – chi vedrà capirà.

domenica 10 aprile 2022

THE GILDED AGE: il vero erede di "Downton Abbey"

The Gilded Age (HBO, su Sky in Italia) è il vero erede di Downton Abbey. Julian Fellowes aveva provato con Belgravia a replicare il successo della sua più famosa creazione (se escludiamo Gosford Park che gli era valso l’Oscar per la sceneggiatura originale), ma non aveva avuto troppa fortuna. Sembra invece esserci riuscito con questo nuovo altrettanto gustoso period drama ambientato nella New York fa 1870 e 1900, quando la luce elettrica domata da Edison illumina per la prima volta gli edifici e le strade della città nello stupore generale (1.07). All’economia dà impulso la costruzione delle ferrovie, ed è proprio un treno che viaggia fra titoli e azioni bancarie l’immagine con cui esordisce la sigla, per portarci poi fa cilindri, orologi da panciotto e carrozze, spalancando le sue porte su sontuose residenze con imponenti scalinate e lampadari di cristallo, e chiudersi con cesellate rifiniture architettoniche.

Stupisce per opulenza, che è poi quello che vuole fare la famiglia Russell, quando nel 1882 di stabilisce nella (fittizia) villa progettata per loro da (il molto vero) Stanford White. Vi vanno ad abitare George (Morgan Spector), un tycoon delle ferrovie con la moglie Bertha (Carrie Coon, The Leftovers), che mira alle più alte sfere sociali, insieme ai figli Gladys (Taissa Farmiga, American Horror Story), che scalpita per debuttare in società, e Larry (Harry Richardson, Doctor Thorne), che contro i desideri del padre aspira a fare l’architetto. Il loro maggiordomo, Church (Jack Gilpin) ha ancora molto da imparare. Di fronte a loro vivono due sorelle della New York antica, Agnes van Rhijn (Christine Baranski, The Good Fight), che si considera superiore a questi arricchiti con cui non vuole mescolarsi, e Ada (Cynthia Nixon, And just like that) che, meno scaltra e più accomodante, vive sotto la sua ala protettiva. Agnes ha un figlio, Oscar (Blake Ritson), segretamente gay, che punta a un matrimonio di interesse con la figlia dei Russell, Gladys. Nonostante poi Agnes e Ada disprezzassero il fratello, perché le aveva abbandonate a sé stesse dopo la scomparsa del padre, alla sua morte ne accolgono in casa la figlia, Marian Brook (Louisa Jacobson Gummer, una delle figlie di Maryl Streep, al suo debutto televisivo in questo ruolo), che si innamora e frequenta Tom Raikes (Thomas Cocquerel), un giovane avvocato con la carriera in ascesa, contro i desideri di zia Agnes. Le due sorelle tengono sotto il proprio tetto anche Peggy Scott (Denée Benton, apprezzata attrice di teatro) una scrittrice afro-americana che aiuta Marian al suo arrivo, e con cui fa presto amicizia, che viene assunta da Agnes per evadere la propria corrispondenza. Bannister (Simon Jones) è il loro maggiordomo di lunga data.

Al centro delle vicende c’è il braccio di ferro fra due forme di potere, quello del denaro, vilipeso ma cercato, degli snobbati nouveaux riches, in cerca di approvazione e inserimento nei circoli esclusivi, e quello del passato, della vecchia New York arroccata in soffocanti e superate convenzioni che escludono chiunque tranne pochi eletti che si autoproclamano arbitri elegantiae. In questa lotta l’ideologia e i mores mutano e, con un tema che è caro a questo autore, assistiamo a chi a questo cambiamento è resistente e chi invece lo cerca. Come nella migliore tradizione di Downton, quella delle prime stagioni non ancora annacquate da storie melodrammatiche di scarsa qualità, sotto il microscopio sono gli snervanti dettagli di etichetta che si ergono a parametro di appartenenza, e quindi di inclusione o esclusione all’alta società, e appunto di potere.

Fellowes qui in generale si sarebbe ispirato alla letteratura di Edith Wharton, ed in particolare a The Custom of the Country – L’usanza del paese (1913). Un interessante pezzo di Sophie Glibert su The Atlantic, che invito a leggere, si sofferma su questo modello e aspirazione, stroncando la serie. Afferma che “afferra i temi della Wharton ma in qualche modo elude completamente la sua osservazione fondamentale: che questa cultura è così corrotta che le uniche persone che possono prosperare al suo interno sono senza cervello o irredimibili”. Non credo sia il suo obiettivo, non solo perché è più favolistico, ma proprio perché il suo ethos lo porta proprio nella direzione opposta. Tuttavia pur non condividendo molto del contenuto di quell’articolo (anche rispetto a Downton), per quanto interessante, concordo quando dice che “gli occasionali cenni di critica sociale troppo stantii” e che manca completamente una nota essenziale ovvero che “la New York di Wharton è un panottico a cui nessun abitante può sfuggire” dove “la vita dei personaggi è una performance tanto quanto tutto ciò che viene recitato davanti a loro” e loro ne hanno una consapevolezza che qui semplicemente non c’è.

Si può applaudire però la scelta di mostrare per una volta una società nera che è prospera, istruita e socialmente attiva: Marian deve vergognarsi quando va in visita ai genitori di Peggy con l’idea di portar loro dei vecchi stivali usati (1.04) e li vede che vivono in una bellissima brownstone, con personale. Il padre Arthur (John Douglas Thompson) possiede una farmacia, la madre Dorothy (Audra McDonald, The Good Fight) è una pianista. Fellowes ha dichiarato al Los Angeles Times che prima di leggere "Black Gotham", di Carla Peterson non aveva idea che ci fosse una prosperosa comunità nera di classe medio-alta a New York verso la fine del XIX secolo, ma ha voluto incorporarlo perché non sarebbe riuscito a rendere la serie “distintamente americana” se non lo avesse fatto. In quell’articolo si dice anche che Erica Armstrong Dunbar, professoressa di storia alla Rutgers University, il cui lavoro si concentra sulle donne nere americane del XVIII e XIX secolo, è stata assunta come consulente storica e co-produttrice esecutiva per aiutare a garantire l'autenticità e "fare anche una lettura di sensibilità". Il personaggio di Peggy è ispirato a diverse pioniere, non da una persona specifica

Il cast è superbo, anche con personaggi secondari come Jeanne Tripplehorn nel ruolo di Sylvia Chamberlain, una socialite esclusa dalle cerchie più in vista a causa del suo passato, o Nathan Lane nel ruolo di Ward McAllister, arbitro di stile nella vecchia New York.

Dopo una prima stagione di 9 episodi, la serie è già stata confermata per una seconda.  

venerdì 1 aprile 2022

BRIDGERTON: la seconda stagione

La seconda stagione di Bridgerton (Netflix), che mi sono goduta più della prima, è la definizione di frivolezza disimpegnata: un perfetto scacciapensieri che si basa su gusto del gossip, i più tradizionali schemi di romanzo rosa all’insegna del senso del dovere versus i desideri del cuore, una lieve vena parodistica e costumi da fare invidia. “Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze”, diceva Oscar Wilde, e qui di apparenze ce ne sono molte e il suo famoso aforisma calza a pennello allo spirito del programma, anche se lui è lievemente posteriore rispetto all’epoca Regency in cui la serie è ambientata. Ci si è lamentati per le poche scene di sesso, ma io penso che sia stata una buona scelta, e spiegherò perché. Questa creazione di Chris Van Dusen basata sui popolari libri di Julia Quinn, non è alta televisione, ma di certo non è nemmeno trash: sa quello che vuole fare e lo fa bene.

Protagonista di questa seconda stagione è il primogenito della famiglia, Anthony (Jonathan Bailey) - ricordo che i figli sono stati chiamati in ordine alfabetico. Intende prendere moglie ed è subito uno degli scapoli più desiderati della stagione. Lady Danbury (Adjoa Andoh) ha sponsorizzato la famiglia Sharma: lady Mary (Shelley Conn), che a causa della sua scelta di marito è stata ripudiata dai genitori e rientra in Inghilterra dall’India dopo anni di assenza, ha due figlie, Miss Kate Sharma (Simone Ashley), l’altra metà della coppia per cui si fa il tifo in questo arco, e Miss Edwina Sharma (Charithra Chandran). La regina sceglie ogni anno quella che ritiene essere il “diamante” della stagione, e la sua scelta ricade proprio su Edwina. L’obiettivo della regina (Golda Rosheuvel) è quello di scoprire, attraverso di lei, chi sia Lady Whistledown, la misteriosa persona che rivela i pettegolezzi di tutta la città in una periodica newsletter, e che noi dalla fine della scorsa stagione sappiamo essere Penelope (Nicola Coughlan). Anthony decide di sposare Edwina: non è interessato all’amore, vuole solo adempiere a un dovere. Per farlo deve però superare il vaglio della sorella di lei, Miss Sharma, che gli è ostile dal momento che gli ha sentito dire che non è per amore che si sposa. Vuole il meglio per la sorella e sa anche quello che nessun altro di loro sa: i nonni di Edwina, nobili, hanno offerto l'accesso alla fortuna di famiglia se lei sposerà un pari rango per ripristinare l’onore perso a causa della figlia ripudiata. Il visconte Anthony corteggia Edwina, ma è presto evidente che dietro l’apparente ostilità e i battibecchi, la vera attrazione è fra lui e Miss Sharma, che si innamorano progressivamente l’uno dell’altra.

In storie secondarie, Portia (Polly Walker), accoglie il nuovo erede dei Featherington e si trova a dover far fronte alle finanze in bolletta, Penelope cerca di non farsi scoprire e continua ad essere innamorata di Colin (Luke Newton), Eloise (Claudia Jessie) si scalda alle rivendicazioni femministe, Benedict (Luke Thompson) aspira a dedicarsi alla pittura, rivediamo Daphne (Phoebe Dynevor), ora mamma. È tutto un susseguirsi di incontri mondani, feste, giochi balli, cene…E qualche colpo di scena.

Bridgerton ha aggiunto un po’ di colore e necessaria, benvenuta inclusività ai nostri schermi: delle eroine di origine indiana, tanto più nell’ottica del colonialismo inglese, sono una scelta brillante. La serie è una delle più viste al mondo, attingere a un bacino di rappresentazione più ampio del solito è sensato, anche facendo solo dei biechi calcoli interessati. E qui vengo alla presunta carenza di scene di sesso nella storia. Non tutte le culture mostrano il sesso con la stessa facilità di quella americana come coronamento dell’amore. Qui, visto il contesto culturale dei personaggi, un maggiore riservo non è sembrato fuori luogo, e con i k-drama che spopolano e che fanno penare a lungo anche solo un bacio, perché non dovrebbe essere apprezzabile usare lo steso tipo di metro? In fondo è quello che hanno fatto le soap opera e le telenovele per anni. E anche in fondo certa letteratura: farci sospirare perché una coppia si avvicini, e farci appassionare più con la costruzione del rapporto reciproco e la tensione frustrata dell’uno verso l’altra. Il piacere sta nel desiderio e dell’attesa, in questo caso, più che nel suo appagamento. E sta bene così. Mi godo sempre buone scene di sesso, ma allo stesso tempo, penso che siano anche troppo spesso la regola e mi fa piacere che ci sia varietà anche in questo senso. Già di fronte agli onnipresenti allosessuali, se anche ci fossero personaggi che non provano attrazione sessuale non sarebbe poi la fine del mondo, anzi, ma qui non è nemmeno quello: è bello vedere personaggi provare attrazione reciproca non solo per il sesso, ma per temperamento. Probabilmente, se non mi fosse stato fatto notare dalle molte voci che si sono espresse in tal senso, nemmeno ci avrei fatto caso alla scarsità di sesso. La costruzione delle vicende era tale da non renderlo necessario. Poi, quando finalmente cedono alla passione, il climax è stato goduto da loro come dagli spettatori. E anche in chiusura. Io sotto questo profilo sono del tutto soddisfatta.     

Pensieri sparsi: quanto è meta sentire i personaggi parlare della “stagione” (loro pensano a quella sociale, noi a quella televisiva)? Ma perché continuo a sorprendermi che a Benedict piacciano le donne? Non faccio spoiler, era chiaro dove sarebbero arrivate Eloise e Penelope, ma che commozione. Mamma Bridgerton, Violet (Ruth Gemmell). meriterebbe una stagione sua, ma chissà che le sue vicende non abbiano spazio ne vociferato spin-off dedicato alla regina.  Certo, Newton (il cui vero nome è Austin), il corgi delle Sharma, lo avrei voluto un po’ più protagonista. Amo i corgi!