In Maniac un gruppo di scienziati ha messo a punto e sperimentano su
cavie umane volontarie tre pillole (A, B e C) che hanno l’obiettivo di
risolvere i problemi mentali che li affliggono: la prima espone il problema, la
seconda propone scenari alternativi per affrontarlo, la terza permette di trovare
una soluzione e superare il problema. Ingerendole, attraverso l’analisi di un
megacomputer “umanizzato”, il GRTA, in cui il progettista ha infuso la
personalità della madre psicoterapeuta, e attraverso situazioni di realtà
virtuale che i protagonisti vivono nella propria mente, si “guarisce”.
Alla sperimentazione della
Naberdine Pharmaceutical Biotech (NPB) partecipano Annie Landsberg (Emma Stone), che ha una
diagnosi di disturbo di personalità borderline e ha perso la sorella in un
grave incidente d’auto e non riesce a superare il lutto, e Owen Milgrim (Jonah Hill), a cui è stata
diagnosticata una schizofrenia, poco apprezzato dalla ricca famiglia e in
particolare dal padre Porter (Gabriel Byrne), che ritiene di avere nella vita
una grande missione di salvare il mondo. A seguire i loro progressi sono gli
scienziati Azumi Fujita (Sonoya Mizuno), che sente una forte pressione dai
superiori a fare un buon lavoro, e James Mantleray (Justin Theroux, The Leftovers), che ha sempre avuto un
complesso di inferiorità nei confronti della famosa madre Greta (Sally Field) e
che finisce per innamorarsi della macchina che ha costruito.
Remake di un’omonima
serie norvegese di Espen PA Lervaag, questa proposta targata Netflix era molto
attesa perché a co-scriverla insieme a Patrick Somerville è stato Cary Fukunaga, qui pure regista
di tutte le puntate così come per la prima celebrata stagione di True Detective. La reazione generale è
stata uno scarso apprezzamento del contenuto, stringi stringi abbastanza vacuo
e nemmeno troppo originale, ma un godimento a livello estetico dell’aspetto
visivo. Personalmente non ho apprezzato nessuno dei due elementi e l’ho
considerato solo una grande perdita di tempo.
Certo, c’è irrisione dei
generi parodistici e bizzarria negli scenari virtuali immaginati, c’è empatia
nei confronti del dolore psichico provato, c’è motteggio delle soluzioni
semplici della pillola risovi-tutto e valorizzazione dei rapporti umani. Il
tono si tiene in un buon equilibrio fra canzonatura e dolore e solitudine, in
un intento comunque chiaramente comico: questo si vede. Gli attori svolgono un
lavoro eccellente e Justin Theroux in particolare, dopo il ruolo iperdrammatico
di The Leftovers, dimostra una
notevole verve comica. Sia sul piano della forma che nel contenuto però non c’è
niente che Legion non abbia già detto
e meglio – incluse le scelte scenografiche e più genericamente di look di una ambientazione
futuristico-vintage. Certo, quest’ultimo si prende forse troppo sul serio in
proporzione, e fa voli pindarici psichedelici in cui è molto più facile
perdersi, ma è allo stesso tempo molto più appagante.
Se il trial clinico
della finzione, a dispetto di tutto, ha portato a qualche risultato, non lo
stesso mi sento di dire del trial televisivo.
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