ATTENZIONE SPOILER. La
concezione filosofica esplicitamente dichiarata nella diegesi di Devs (dell’americana Hulu) è il
determinismo: non esistono eventi casuali, niente si verifica senza una
ragione, ma tutto è determinato da qualcosa di precedente. “La vita è solo
qualcosa che vediamo dipanarsi, come un film su uno schermo” (1.08). Il libero
arbitrio è un’illusione.
Sulla base di questo
principio, Forest (Nick Offerman, Parks
and Recreations), CEO di una società chiamata Amaya, il nome della
figlioletta morta prematuramente in un incidente d’auto, ha creato un
misterioso, segretissimo progetto noto appunto come DEVS. Lui è come un messia,
tanto che in realtà, come confessa in chiusura quel DEVS è da intendersi come
DEUS, in realtà. Dichiara che non gli frega niente della sicurezza nazionale,
trova che destinare risorse alle biotecnologie sia uno spreco, e che la fusione
fredda sia l’equivalente dell’alchimia. Il suo è un obiettivo ben più
ambizioso: grazie all’uso di computer quantistici vuole riuscire a visualizzare
momenti del passato e del futuro (anche se per quest’ultima cercano di imporsi
di non farlo). In parte ci riescono – individuano Cristo sulla croce (1.02) -,
ma è tutto sgranato. A condividere il suo sogno c’è la progettatrice Katie
(Alison Pill, Picard). E in questo
reparto segretissimo dell’azienda lavorano anche l’anziano Stewart (Stepehn
McKinley Anderson) e il giovane Lyndon
(Cailee Spaney – sebbene il personaggio sia un maschio, a interpretarlo
è un’attrice ventiduenne, ma devo dire che se non lo avessi letto, non lo avrei
mai capito sa sola, non me ne sono accorta alla visione). Quando l’ingegnere
Sergei (Karl Glusman) viene ucciso da Forest, subito dopo essere stato assunto,
perché voleva spifferare tutto al governo russo, la fidanzata di lui Lily, (Sonoya
Mizuno), la principale protagonista, vuole andare a fondo di quanto accaduto.
Per aiuto si rivolge al suo ex, Jamie (Jin Ha).
La serie è molto
accattivante sul versante della cinematografia, della musica ipnotica pseudo-religiosa,
e dell’uso del vuoto sia fisico che verbale nelle interazioni lente e pacate
fra i protagonisti, già una cifra stilistica dell’ideatore, sceneggiatore e regista Alex Garland nel suo film di maggior
successo, Ex-Machina, che si evoca
facilmente insieme a un pizzico di Westworld,
Mr Robot, Osmosis e Counterpart. La
recitazione è volutamente fredda, distaccata, mono-tonale, con i personaggi
spesso persi a guardare nello spazio davanti a sé. Tutto è molto serio. C’è un mood di fondo molto specifico che lo fa
percepire come un prodotto d’autore. Il problema per cui alla fine però delude
è che è narrativamente e psicologicamente troppo grossolano.
La trama è forte e ben
strutturata, ma rimane la sensazione che si sia “slongata la broda” di quello
che, con il taglio del superfluo, sarebbe potuto essere un film, invece di una
miniserie. La storia spionistica, anche con un finto senzatetto, Pete
(Jefferson Hall), che osservava le vite di Lily e Sergei, era posticcia; le
torture dell’addetto alla sicurezza Kenton (Zach Grenier, The Good Wife) inutili e inconcludenti. Ci sono stati passaggi di
dialogo di cui vergognarsi. Alla fine della prima puntata l’ex di lei fa un
lungo monologo in cui in pratica spiega per filo e per segno che cosa era
capitato fra loro: è stata così smaccatamente pedestre che perfino io sarei
riuscita a scrivere di meglio.
La conclusione lascia
contenti a metà. Lily, a cui è stato mostrato il futuro, commette, a detta di
Katie, il peccato originale, quello della disobbedienza, scegliendo di agire
contro le previsioni. Sembra un momento “eureka”, ma se fosse stato così
semplice non lo avrebbe fatto prima qualcun altro? Loro stessi non ci avrebbero
provato almeno? Sembra poco credibile. Poi però, tutto si conclude comunque
come da previsione. Strutturalmente mostrare a noi quello che è considerato inevitabile
per poi inserire un atteso colpo di scena che in definitiva viene smontato dal fatto
che gli eventi hanno comunque la conclusione anticipata è stato ben costruito.
E la scelta terminale di una simulazione della realtà da parte del sistema
operativo che si qualifica come una “resurrezione” dei protagonisti morti è
appagante a sufficienza.
Se dico che è psicologicamente
grossolana è perché se da un punto di vista della fisica quantistica viene
messa in campo la teoria di De Broglie-Bohm e possibili critiche (l’esistenza
di un multiverso, ad esempio), mostrando anche che se ne discute in un’aula
universitaria, in campo di psicologia nemmeno ci si prova ad accennare a un
paradigma non meccanicista. Vista la soluzione ultima per mettere in crisi il
modello, forse una qualche lettura di base in campo psicologico-psicoterapico valeva
anche la pena farla. Invece di ripeterci di continuo l’assunto di base, qualche
argomentazione filosofica contraria in più, anche di tipo non specialistico,
poteva essere abbozzata. Con la “scusa” del determinismo si azzera anche ogni
interrogativo morale ed etico, che sia Forest che ammazza Sergei o Katie che
istiga al suicidio Lyndon.
C’è un’ambizione
intellettuale di fondo, che vuole indagare quesiti essenziali nella storia
umana, ed è stimolante riflettere su quanto si mette in campo, ma alla fine questo
thriller fantascientifico non ha lo spessore sufficiente per sostenere la
ricerca oltre la premessa di base.
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