martedì 21 aprile 2020

DEVS: un thriller fantascientifico deludente


ATTENZIONE SPOILER. La concezione filosofica esplicitamente dichiarata nella diegesi di Devs (dell’americana Hulu) è il determinismo: non esistono eventi casuali, niente si verifica senza una ragione, ma tutto è determinato da qualcosa di precedente. “La vita è solo qualcosa che vediamo dipanarsi, come un film su uno schermo” (1.08). Il libero arbitrio è un’illusione.

Sulla base di questo principio, Forest (Nick Offerman, Parks and Recreations), CEO di una società chiamata Amaya, il nome della figlioletta morta prematuramente in un incidente d’auto, ha creato un misterioso, segretissimo progetto noto appunto come DEVS. Lui è come un messia, tanto che in realtà, come confessa in chiusura quel DEVS è da intendersi come DEUS, in realtà. Dichiara che non gli frega niente della sicurezza nazionale, trova che destinare risorse alle biotecnologie sia uno spreco, e che la fusione fredda sia l’equivalente dell’alchimia. Il suo è un obiettivo ben più ambizioso: grazie all’uso di computer quantistici vuole riuscire a visualizzare momenti del passato e del futuro (anche se per quest’ultima cercano di imporsi di non farlo). In parte ci riescono – individuano Cristo sulla croce (1.02) -, ma è tutto sgranato. A condividere il suo sogno c’è la progettatrice Katie (Alison Pill, Picard). E in questo reparto segretissimo dell’azienda lavorano anche l’anziano Stewart (Stepehn McKinley Anderson) e il giovane Lyndon  (Cailee Spaney – sebbene il personaggio sia un maschio, a interpretarlo è un’attrice ventiduenne, ma devo dire che se non lo avessi letto, non lo avrei mai capito sa sola, non me ne sono accorta alla visione). Quando l’ingegnere Sergei (Karl Glusman) viene ucciso da Forest, subito dopo essere stato assunto, perché voleva spifferare tutto al governo russo, la fidanzata di lui Lily, (Sonoya Mizuno), la principale protagonista, vuole andare a fondo di quanto accaduto. Per aiuto si rivolge al suo ex, Jamie (Jin Ha).

La serie è molto accattivante sul versante della cinematografia, della musica ipnotica pseudo-religiosa, e dell’uso del vuoto sia fisico che verbale nelle interazioni lente e pacate fra i protagonisti, già una cifra stilistica dell’ideatore, sceneggiatore  e regista Alex Garland nel suo film di maggior successo, Ex-Machina, che si evoca facilmente insieme a un pizzico di Westworld, Mr Robot, Osmosis e Counterpart. La recitazione è volutamente fredda, distaccata, mono-tonale, con i personaggi spesso persi a guardare nello spazio davanti a sé. Tutto è molto serio. C’è un mood di fondo molto specifico che lo fa percepire come un prodotto d’autore. Il problema per cui alla fine però delude è che è narrativamente e psicologicamente troppo grossolano.

La trama è forte e ben strutturata, ma rimane la sensazione che si sia “slongata la broda” di quello che, con il taglio del superfluo, sarebbe potuto essere un film, invece di una miniserie. La storia spionistica, anche con un finto senzatetto, Pete (Jefferson Hall), che osservava le vite di Lily e Sergei, era posticcia; le torture dell’addetto alla sicurezza Kenton (Zach Grenier, The Good Wife) inutili e inconcludenti. Ci sono stati passaggi di dialogo di cui vergognarsi. Alla fine della prima puntata l’ex di lei fa un lungo monologo in cui in pratica spiega per filo e per segno che cosa era capitato fra loro: è stata così smaccatamente pedestre che perfino io sarei riuscita a scrivere di meglio.

La conclusione lascia contenti a metà. Lily, a cui è stato mostrato il futuro, commette, a detta di Katie, il peccato originale, quello della disobbedienza, scegliendo di agire contro le previsioni. Sembra un momento “eureka”, ma se fosse stato così semplice non lo avrebbe fatto prima qualcun altro? Loro stessi non ci avrebbero provato almeno? Sembra poco credibile. Poi però, tutto si conclude comunque come da previsione. Strutturalmente mostrare a noi quello che è considerato inevitabile per poi inserire un atteso colpo di scena che in definitiva viene smontato dal fatto che gli eventi hanno comunque la conclusione anticipata è stato ben costruito. E la scelta terminale di una simulazione della realtà da parte del sistema operativo che si qualifica come una “resurrezione” dei protagonisti morti è appagante a sufficienza.

Se dico che è psicologicamente grossolana è perché se da un punto di vista della fisica quantistica viene messa in campo la teoria di De Broglie-Bohm e possibili critiche (l’esistenza di un multiverso, ad esempio), mostrando anche che se ne discute in un’aula universitaria, in campo di psicologia nemmeno ci si prova ad accennare a un paradigma non meccanicista. Vista la soluzione ultima per mettere in crisi il modello, forse una qualche lettura di base in campo psicologico-psicoterapico valeva anche la pena farla. Invece di ripeterci di continuo l’assunto di base, qualche argomentazione filosofica contraria in più, anche di tipo non specialistico, poteva essere abbozzata. Con la “scusa” del determinismo si azzera anche ogni interrogativo morale ed etico, che sia Forest che ammazza Sergei o Katie che istiga al suicidio Lyndon.

C’è un’ambizione intellettuale di fondo, che vuole indagare quesiti essenziali nella storia umana, ed è stimolante riflettere su quanto si mette in campo, ma alla fine questo thriller fantascientifico non ha lo spessore sufficiente per sostenere la ricerca oltre la premessa di base.  

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