venerdì 3 aprile 2020

STAR TREK: PICARD: sulla perdita e la memoria


SPOILER NEL PRIMO PARAGRAFO. In Star Trek: Picard (Amazon Prime), l’ammiraglio Jean-Luc Picard (Patrick Stewart) è ormai in pensione e trascorre il suo tempo fra i vigneti della sua tenuta in campagna, consapevole che non gli rimane molto da vivere a causa di un problema cerebrale. Una giovane donna, Dahj (Isa Briones) si rivolge a lui per aiuto e scoprono che si tratta di un androide biologico creato dal dottor Bruce Maddox sulla base del cervello positronico del comandate Data, cosa che la fa considerare sua “figlia”. Quando viene uccisa, l’anziano ufficiale mette insieme una squadra per cercare di salvare almeno la sorella gemella di Dahj, Soji, che rischia la stessa sorte: Cristobal “Chris” Rios (Santiago Cabrera) è un esperto pilota che viene assoldato insieme alla sua nave, La Sirena; la dottoressa Agnes Jurati (Alison Pil, Devs), che ha lavorato con Maddox, è la maggiore esperta di intelligenza artificiale; Rafaella “Raffi” Musiker (Michelle Hurd) è una ex-ufficiale della flotta stellare che in passato aveva lavorato con JL; Elnor (Evan Evagora) è un esperto di combattimento salvato da bambino dall’ammiraglio. Il loro obiettivo è salvare Soji, che inizialmente vive su un cubo Borg conosciuto come l’Artefatto, dove si cerca di recuperare all’umanità gli ex-Borg, che è presa di mira dai Romulani (nello specifico dalla Zhat Vash, una sorta di antica fazione della Tal Shiar, la loro polizia segreta), che vogliono distruggere ogni forma di intelligenza artificiale perché ritengono che saranno altrimenti la causa della fine del mondo biologico: vedono in Soji la Distruttrice. Per cercare di carpirle informazioni e spiarla diventa suo amante il romulano Narek (Harry Treadaway, Penny Dreadful).

In 10 puntate sviluppate con una narrazione orizzontale ad arco, senza puntate verticali autoconclusive, le vicende della più recente aggiunta al franchise ideato da Gene Roddenberry si basano sui personaggi di ST: The Next Generation, ma sono ugualmente seguibili da chi non avesse familiarità con il canone. Lo dico con cognizione di causa, perché sebbene l’originario Star Trek fosse quasi una religione per me e abbia seguito Enterprise e Discovery, sono digiuna di Deep Space Nine e Voyager e ho solo scarsa familiarità con STTNG. La comparsa come guest star (Riker, Data, Seven of Nine, Deanna Troi) è una chicca per gli aficionados, ma non crea ostacoli agli altri.

Le chiavi di lettura della prima stagione, che si è chiusa lo scorso 26 marzo, sono state principalmente due, per me. La prima è una citazione in bocca s Soji in “The End is the Beginning” (1.03) che incontra una ex-B (una ex-borg cioè). È affascinata dal fatto che i romulani possano creare una mitologia, una “struttura narrativa comune per capire il loro trauma, radicata in archetipi profondi, ma rilevante quanto le notizie del giorno”. “È proprio quello che spero di fare io”, dice, e se non sono queste parole con un significato metatestuale che rivelano la poetica degli autori, non so quali possano esserlo.

La seconda chiave di lettura si intreccia con la prima. Showrunner di questa serie, ideata insieme a Alex Kurtzman, Kirsten Beyer e Akiva Goldsman, c’è nientemeno che Michael Chabon, vincitore del Pulitzer per Le fantastiche avventura di Kavalier & Clay. Ha scritto sul New Yorker (11 novembre 2019) una saggio di storia personale, The Final Frontier, in cui racconta del suo rapporto col padre morente, poi scomparso, con il quale condivideva la passione per la serie. Questo ha informato, come lui stesso ammette, la sua scrittura di questi episodi dove la mortalità e la perdita si rincorrono come temi musicali. Insieme a quello della memoria, mi pare. Nella season finale questo è particolarmente evidente.

Non condivido la posizione del Guardian che giudica questa incarnazione come pessimista. Non è più una Federazione che non commette errori, ma se l’istituzione è imperfetta, i rapporti di lealtà e amicizia fra le persone e di valore umano rimangono una forza trasformante positiva e ottimista. Quello che è vero è che, così come in Discovery, non c’è più uno Star Trek che è un viaggio conoscenza, alla ricerca di nuovi mondi e nuove civiltà, ma uno che fa esperienza delle stessa ansia cui ci hanno abituato molte altre serie – da Black Mirror ad Äkta Människor, o Humans, da Battlestar Galactica a The Orville (la più fedele allo spirito originario di Roddenberry) – ovvero quella per il timore che la tecnologia ci sfugga di mano con la creazione di robot umanoidi così evoluti e perfetti da sopraffarci. Ma proprio in “Et in Arcadia Ego – Part II” (1.10) si vede l’ottimismo della consapevolezza che è sempre questione di scelte e la paura non deve essere ciò che ci guida.

Sono rimasta appagata da Picard, anche per come è riuscito ad esporre in modo sufficientemente lineare una mitologia molto ricca e complessa. Non ne sono forse uscita esaltata, ma ho apprezzato pur nell'incalzare avventuroso degli eventi il tono pacato, intellettuale e gentile che si collega al personaggio interpretato dall’ormai 79enne Stewart, e che qui di fondo pervade l’intero racconto.    

Per la prevista seconda stagione posso solo dire: engage (attivare).

Nessun commento:

Posta un commento