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giovedì 19 ottobre 2017

ORPHAN BLACK termina: essere sorelle


“Questo è quello per cui abbiamo combattuto: essere sorelle”. Questa frase della series finale (5.10) di Orphan Black custodisce il senso di un programma che, con una chiusura molto catartica e ottimista, ha lasciato agli spettatori una positiva eredità femminista, perché “il futuro è femmina”, come si è reiterato in più occasioni nella quinta stagione, le cui puntate hanno titoli che sono citazioni della poesia “Protest” di Ella Wheeler Wilcox. Già in passato – si veda questo mio post – si notava la modalità della serie di usare come titoli citazioni da una fonte autoriale specifica ogni volta diversa.

I cloni del progetto Leda, si è rivelato nell’ultima puntata - che ce ne ha fatta conoscere direttamente un’altra (con una sempre sorprendente Tatiana Maslany -, erano ben 274. Felix (Jordan Gavaris), in occasione di una sua mostra che ritraeva le diverse sorelle, ha fornito meta-testualmente egli stesso una ermeneutica di quanto abbiano visto: la personalità e l’identità sono un costrutto sociale. Attraverso questa “costellazione di donne”, come le ha definite lui, e attraverso una trama fitta e densa, molto più stringente di quanto non sia la norma di questi tempi, si sono esplorati moltissimi temi, in primis quello sulla ricerca scientifica e la sperimentazione e la loro etica, sull’autonomia e sulla libertà (particolarmente forti in questa stagione), sulla maternità e sulla famiglia, sull’identità e sull’umanità, sulle scelte di vita e sulla felicità.

E se è vero che Orphan Black è un’utopia femminista (The Guardian) e l’eredità che ci lascia è il suo matriarcato (Paste Magazine), è rassicurante anche vedere che nella concezione degli ideatori Graeme Manson e John Fawcett questo è un lascito che non significa mettere da parte gli uomini, ma li include. Nella dissoluzione di Westmorland (incarnazione del patriarcato) e dei Neoluzionisti che volevano controllare le vite delle “sestras”, quest’ultime sono state affiancate da uomini “veri”: così li definisce Helena quando decide di chiamare i bimbi maschi che ha appena partorito con i nomi di Arthur e Donnie. È significativo qui trovare un messaggio che non vede l’annichilamento maschile nel progresso di parità femminile. Come ha ben scritto Abigail Chadler (The Guardian), “da Scott, il geek del laboratorio, a Ira, il più gentile dei cloni Castor, Orphan Black ha mostrato che gli uomini da ammirare di più non solo quelli che cercano di essere all’altezza dell’idea tossica di mascolinità, ma quelli che rispettano le persone che li circondano”. E come ribadisce Jacob Oller (Paste Magazine) il lascito spirituale della serie non sta tanto nella fantascienza, ma nella scienza sociale, nel mettere in scena “una cultura in cui le donne dominano nella tecnologia, nella scienza e negli affari, e in cui essere una mamma che sta a casa garantisce una copertura narrativa pari a quella di una sperimentazione militare segreta.”

A latere credo sia rilevante osservare, in un momento in cui si discute nei circoli televisivi della parziale (presunta?) dissoluzione del messaggio femminista di Joss Whedon (Buffy, Angel, Firefly), a seguito del suo divorzio dalla moglie e delle accuse di quest’ultima dell’ipocrisia dell’autore, per quanto io personalmente non ritenga che quel messaggio ne sia scalfito, che questi non era la sola campana in favore dell’eguaglianza.

A Helena poi è andato il compito anche di spiegare il titolo della serie. Raggruppata con le sorelle – in un immagine che le fa sembrare moderne “Piccole Donne” - dice che si tratta del titolo del diario che ha tenuto, in cui vengono raccontate le loro storie: tutte loro sono orfane, e Siobhan (compianta, ma presente nella memoria di tutte) aveva un tempo osservato che Sarah era parte di un gruppo di bimbi che erano scoparsi “into the black”, nel buio, nel “nero dell’orfano”, per loro sicurezza. Ora quel buio è dissipato. Alla fine di tutto, quello che viene promosso e che rimane è davvero la sorellanza, con donne che sono un prisma di possibilità, nelle loro diverse incarnazioni e in se stesse, presenti le une per le altre.  

venerdì 31 gennaio 2014

ORPHAN BLACK: la camaleontica Maslany interpreta cloni

 
È il tour de force della camaleontica Tatiana Maslany quello che spicca della serie canadese-americana Orphan Black, la seconda produzione originale di BBC America dopo Copper. Che non abbia ricevuto una nomination all’Emmy è scandaloso, come molti hanno giustamente arguito prima di me: l’attrice dice di trasformarsi da un personaggio all’altro con l’aiuto della musica, creandosi una playlist per ognuna delle diverse identità. Mozza il fiato per come riesce davvero a farti credere di essere ogni volta una persona diversa.
Sarah (la Maslany) è una ragazza punk inglese che si trova a New York. Sul marciapiede della metropolitana vede una donna gettarsi sotto il treno subito dopo averla vista in faccia: con shock si accorge che è identica a lei. Bisognosa di soldi, ne assume l’identità, diventando Beth, una poliziotta, che ha come partner il detective Arthur “Art” Bell (Kevin Hanchard).
L’inizio intriga ma è a carburazione lenta e la serie prende quota a poco a poco. Sarah è un’orfana ed è stata cresciuta in una famiglia affidataria da Mrs S (Maria Doyle Kennedy) insieme al fratello adottivo gay Felix (Jordan Gavaris), ha una bimba piccola, Kira (Skyler Wexler), pure affidata a Mrs S, e quando la conosciamo ha una relazione con uno spacciatore di droga, Vic (Michael Mando). Presto fa una scoperta: giovani donne che le somigliano ce ne sono diverse, perché sono tutte cloni.
E così incontra prima Katja, che viene presto uccisa. Insieme a Alison, una mamma e casalinga di periferia, e Cosima, una biologa lesbica esperta di sviluppo evolutivo, e con loro forma un club dei cloni. Insieme cercano di scoprire che cosa sono loro, chi sono i loro “monitor”, persone addette a tenerle sotto osservazione – quello di Beth era il suo ragazzo Paul (Dylan Bruce), poi diventato amante di Sarah -, per conto di chi e perché. Una, Helena, è una sociopatica che si auto-mutila, a cui viene fatto credere di essere l’originaria e che viene istruita per uccidere una dopo l’altra tutte le altre. Alla fine della prima stagione i cloni conosciuti sono 10.  
Ideata da Graeme Manson e John Fawcett, è una serie che mischia thriller e fantascienza urbana – c’è ad un certo punto un uomo con la coda! E  ci sono i “neoluzionisti”, “Proletiani”, il “pro-clone” Rachel… Il plot diventa sempre più appassionate, e affronta i temi dell’eticità di certi esperimenti, della evoluzione umana, del venire cresciuti dallo stato versus venire cresciuti da un’autorità religiosa (Sarah è stata affidata lo Stato, Helena è venuta su in un convento ucraino), dell’identità, della genetica vs l’ambiente…
Molto sinceramente ho iniziato a vederlo non credendo che avrei proseguito, ma ora so che lo farò di certo.