sabato 18 giugno 2022

PACHINKO: quietamente intensa

Il piacere di Pachinko – La moglie coreana (Apple TV+) sta tutto nell’avere la possibilità di commuoversi di fronte a una ciotola di riso bianco, con tutto il peso simbolico che vi si accompagna nei momenti in cui ci viene mostrata, o per il profumo di un indumento che si voleva ancora conservare come ricordo, ma che inavvertitamente è stato lavato (1.05). Le interconnessioni fra passato e presente, la paura, il dolore, la sopravvivenza, i ricordi, l’amore, l’identità, Heimweh, gratitudine, colonizzazione,  sono i temi di questa serie creata da Soo Hugh e tratta dall’omonimo libro del 2017 di Min Jin Lee.

Si tratta di una storia multigenerazionale – le vicende si muovono in un arco di tempo che va dal 1915 al 1989 -, ma in prevalenza dalla prospettiva della protagonista principale che è Sunja, interpretata da Youn Yuh-jung (vincitrice dell’Oscar come attrice non protagonista per Minari) ora che è ormai anziana, e da Kim Min-ha nei ricordi da ragazza (gran pare della storia), quando la Corea di inizio secolo di cui è originaria è dominata dai giapponesi. Romanticamente parlando, due uomini sono stati importanti nella vita di Sunja: Hansu (Lee Min-ho), il suo primo amore da cui ha un figlio, un commerciante e broker del mercato ittico che vive a Osaka, in Giappone, ma che viene regolarmente in Busan, la regione della Corea del Sud di cui è nativo; e Isak (Steve Sanghyun Noh), un ministro protestante che la sposa e da cui ha un secondo figlio, Mozasu (Soji Arai), che da adulto diventa ricco gestendo delle sale di pachinko e che le dà un nipote, Solomon (Jin Ha). Quest'ultimo, laureato a Yale, fa carriera come banchiere di New York, e arriva per aiutare la sua società a concludere un fruttuoso contratto immobiliare in Giappone, dove vive ora la nonna. Sunja, che dopo la morte del padre viveva con la sola madre, una volta sposata si era infatti trasferita a Osaka, a casa del cognato Yoseb (Han Jun-woo) e aveva fatto presto amicizia con la moglie di lui, Kyunghee (Jung Eun-chae). La vita le ha presentato molte difficoltà, ma lei non si è lasciata piegare.

Un focus è il difficile rapporto fra giapponesi e coreani. Scrive appropriatamente il Los Angeles Times: “Ambientato tra la popolazione che i giapponesi chiamano "Zainichi" - coreani giunti in Giappone durante la dominazione coloniale e i loro discendenti, soggetti a restrizioni legali e a discriminazioni generali - è una storia di razzismo, sessismo, classismo, sottomissione, resistenza, assimilazione e ricerca della conoscenza di sé in una società che ti dice chi sei, qual è il tuo posto e cosa puoi fare”.

Sullo sfondo di questo e altri eventi storici come il grande terremoto di Kanto del 1923 (in cui si narra la backstory di Hansu), si tratteggia il ritratto di una donna molto volitiva e risoluta, che pur non sapendo né leggere né scrivere, mostra grande forza d’animo dell’affrontare vere tragedie nella sua vita. Sebbene un ruolo importante lo abbia anche Solomon, specie nella parte professionale – quella personale mi ha convinto molto meno –, e non solo in termini quantitativi, ma per il significato che ha anche in riflesso di quella di nonna Sunja, è indubbiamente quest’ultima la vera eroina della situazione. Si mostra di quanto coraggio ci si deve armare per superare le avversità, talvolta causate anche da ingenuità dovuta a ignoranza. In chiusura, per me inaspettatamente, la serie, che è stata già rinnovata per una seconda stagione, ci dice che questa è una delle tante vicende di donne dell’epoca, e ne intervista brevemente alcune, ormai praticamente, quando non effettivamente, centenarie.

Le vicende sono dipinte con pennellate eleganti, con momenti di quieta intensità. Da situazioni minime si traggono scene di gran respiro e molto toccanti. La portata è epica. Anche in qualche momento un po’ melodrammatico (penso alla scena nell’ultima puntata in cui il bambino di Sunja vede portar via quello che ha sempre considerato suo padre) si tengono le redini ben salde. Se proprio una critica devo rivolgere è che occasionalmente, nelle puntate centrali, c’è una sensazione da telenovela, ma questo non è dovuto né al materiale narrativo che si concentra magari sulle vicende domestiche, né ai dialoghi o alla recitazione, ma esclusivamente alla scenografia, in qualche raro passaggio di ricostruzione interna degli esterni. I passaggi temporali sono fluidi e si viene riportati in quelle case e fra quelle vie come sull’onda del racconto di una lontana parente che ci racconta la propria vita. Si percepisce il vissuto. Nonostante tutto c’è un che di rassicurante, che infonde fiducia perché è la storia di qualcuno che quelle cose le ha superate.

Sicuramente una delle migliori serie dell’anno: da non perdere. 

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