Intenso, serrato, gridato,
anche nelle inquadrature che si affidano a primissimi piani, ansiogeno, con
ritmi incalzanti, The Bear (Hulu, in
Italia su Disney+), che è il nomignolo con cui è conosciuto il protagonista, porta
dietro le quinte di una paninoteca-tavola calda di Chicago.
Carmen “Carmy” Berzatto
(Jeremy Allen White), un brillante chef di origine italiana abituato a lavorare
nell’alta ristorazione, dove si confezionano manicaretti che finiscono sulle
riviste patinate ma dove si subiscono anche pensati abusi verbali sul lavoro,
torna a casa per gestire il locale di famiglia dopo il suicidio del fratello
maggiore Mikey (Jon Bernthal, The Walking
Dead), che si è sparato quattro mesi prima di quando cominciano le vicende.
Co-proprietaria del locale, che si chiama The Beef ed è in un mare di debiti, è
la sorella minore dei due, Natalie detta "Sugar", ma il manager di
fatto dell’umile ristorante è Richard "Richie" Jerimovich (Ebon
Moss-Bachrach), loro cugino e miglior amico del defunto. Carmy, si ritrova una
cucina fatiscente e uno staff mal organizzato. Assume come sous-chef la giovane
Sydney Adamu (Ayo Edebiri) desiderosa di fare esperienza con il talentuoso
Carmen, riconoscendone la bravura: lei ha una formazione accademica assicurata
dalla CIA (l’Istituto Culinario Americano) e l’impazienza di lasciare la
propria impronta. Insieme riorganizzano la cucina, nonostante l’iniziale
ostilità di alcuni dello staff che presto però comprende la svolta che possono
avere sotto la nuova guida. Fra loro spiccano Tina (Liza Colón-Zayas), determinata
cuoca storica del posto, e Marcus (Lionel Boyce), panettiere che aspira a
diventare pasticcere.
Ideata da Christopher
Storer, che ha scritto una buona porzione degli episodi e ne ha diretti
diversi, condividendo i credits della
regia con Joanna Calo, la serie, con otto episodi di circa 30 minuti (ma
variabili a seconda della puntata) racconta dei ritmi frenetici delle cucine di
trincea, ma si trattano temi come il lutto, le ambizioni fallite e quelle
nascenti, il mentoring, la famiglia, il cibo, la mascolinità, la salute mentale.
Carmy vuole che come forma di rispetto tutti si riferiscano gli uni con gli
altri come “chef”, e per evitare incidenti in un luogo ristretto dove c’è continuo
movimento e pressione si gridi "Angolo!" o "Dietro!" quando
ci si muove vicino a uno spigolo o dietro a qualcuno. È un’impresa corale, dove
ciascuno ha un suo ruolo ben definito, che deve funzionare alla perfezione per
non crollare nella pressione frenetica delle richieste. Il pianosequenza di
quasi venti minuti di 1.07, in cui esplode la tensione in cucina, che The Atlantic (qui)
ha definito “semi-sadistico”, e il monologo di circa sette minuti di Carmy nel
successivo ultimo episodio (tempesta e quiete), sono memorabili.
Ho trovato molto acuta Lucy
Mangan su The Guardian quando osserva
come parte della genialità di questo programma consiste nel non rendere Carmy
torturato dalla propria brillantezza. Lo è dal dolore, ma “il suo genio è una
cosa imbrigliata e controllata. Non lo usa per alimentare un ego mostruoso o
per giustificare l'aggressività verso i sottoposti, o per fare altre cose
narcisistiche che siamo abituati a credere siano la naturale conseguenza di
doni smisurati. Quando perde il controllo, nel penultimo episodio, deve
lavorare per fare ammenda. The Bear
non perde mai di vista l'impegno necessario non solo per guadagnarsi da vivere,
ma anche per essere un essere umano funzionante e semi-decente”.
Se siete disposti a immergervi in un ambiente caotico e fenetico che è certo di provocarvi ansia al solo guardarlo, chiamatela feel-bad television se volete, potete essere certi di venire premiati con un manicaretto di primordine. Televisione stellata.
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