lunedì 15 giugno 2015

STITCHERS: una serie Frankenstein


Kirsten (Emma Ishta), una ragazza che soffre di una fittizia malattia chiamata displasia che la rende incapace di percepire lo scorrere del tempo, viene arruolata in un programma di “tessitura”: con un sistema bioelettrico gestito da una  agenzia federale segreta guidata da Maggie (Salli Richardson-Whitfield, Eureka), la sua coscienza viene “tessuta” (“stitched” in inglese) nella memoria di persone da poco morte, al fine di recuperare a vari fini i loro ultimi ricordi. Nel pilot, ad esempio, la “cuciono” nella mente di una persona che ha posizionato delle bombe pronte ad esplodere, per capire dove si trovano e per disinnescarle. Una squadra, di cui fanno parte il neuroscienziato Cameron Goodkin (Kyle Harris) e l’ingegnere bioelettrico Linus Ahluwalia (Ritesh Rajan), monitorizza le sue reazioni, pronta ad intervenire lì dove è necessario e a “scucirla”.

Questa è la  base narrativa da cui parte Stitchers: un pizzico di Fringe, un po’ di iZombie, qualche goccia di Alias e una spruzzata di The Big Bang Theory.  Ideata da Jeffrey Alan Schechter, che non la considera fantascienza ma fiction speculativa, questa serie di ABC Family avrebbe anche avuto del potenziale. Poteva diventare un telefilm capace di indagare i limiti della memoria e del tempo, nella confezione di un procedurale leggero. È ben lungi dall’esserlo: si prende decisamente troppo sul serio, o forse semplicemente quando cerca di scherzare non ci riesce fino in fondo.

La protagonista si vuole che sia poco reattiva e competente emozionalmente – con la compagna di stanza Camille Engelson (Allison Scagliotti) ha un pessimo rapporto, se tale si può definire; il suo passato familiare pure ha molte aree poco chiare. Questo sulla carta è una buona base per consentirle un apprendimento mediato dalla psiche degli altri. È evidente che è quella sarebbe l’intenzione, ma sullo schermo non si vede che ci si possa riuscire, se non in modo molto superficiale.

Almeno in partenza, la serie è scritta alla carlona e assemblata quasi fosse una specie di Frankenstein: gli stitches narrativi, i punti di sutura, sono troppo approssimativi e visibili. Ne è uscito un mostro.

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