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mercoledì 5 maggio 2021

RESIDENT ALIEN: uno spassoso extra-terrestre

Resident Alien (SyFy, Rai4), tratta da un’omonima serie di fumetti ideata da Peter Hogan e Steve Parkhouse, è una delle serie più leggere e spassose che mio abbia seguito negli ultimi tempi. Sarei rimasta sinceramente delusa se non l’avessero rinnovata per una seconda stagione.

Harry Vanderspiegle (Alan Tudyk, Firefly, Suburgatory) è un alieno con la missione di distruggere l’umanità che per errore precipita sul nostro pianeta, in un paesino montano chiamato Patience, in Colorado. Uccide il vero Harry, un medico, e ne assume l’identità, vive nella baita sul lago sperduta fra i boschi che gli apparteneva, imparando tutto il necessario guardando in TV Law & Order. Quando il medico locale viene trovato morto, Harry viene chiamato a sostituirlo e deve interagire, seppur goffamente, con i locali, in particolare con Asta (Sara Tomko), una nativa americana della tribù degli Ute, che lavora come assistente nella clinica del medico e che ha come migliore amica D’Arcy (Alice Wetterlund), una ex-sciatrice olimpica che dopo un incidente gestisce il bar della città il 59 (nome legato a una leggenda cittadina). Lo sceriffo Mike (Corey Reynolds), che vuole che tutti lo chiamino Big Black, investiga con una apparente pugno di ferro, ma chi fa tutto il lavoro è la sua brillante vice Liv (Elizabeth Bowen). La situazione di Harry è complicata dal fatto che, sebbene tutti lo vedano come umano, non è così per il bimbo di nove anni Max (Judah Prehn), figlio del giovane sindaco Ben (Levi Fiehler) e della moglie Kate (Meredith Garretson), che a causa di una mutazione genetica riesce a non farsi ingannare dalla sua ricostruzione molecolare e lo riconosce come effettivamente è, nell’aspetto una specie di anfibio (imparentato però coi i polipi), cosa che lo spaventa facendolo diventare la sua spina nel fianco. Una generale (Linda Hamilton) dell’esercito intanto cerca di provare l’esistenza aliena ed è sulle sue tracce.

Se in 3rd Rock from the Sun – Una famiglia del terzo tipo, John Lithgow interpretava Dick Solomon come una persona spumeggiante e piena di entusiasmo talvolta vagamente indignata, qui Alan Tudyk ha un approccio opposto, di rigidità, riserbo e molta perplessità, che non di meno risulta grandemente esilarante. Lo humor, oltre che dalle espressioni facciali e dal suo tremendo forzato modo di sorridere e ridere, viene dall’incapacità sociale del protagonista, ma anche dalla sua semplice inesperienza di cose umane. Una volta gli diventa duro e guardandosi in mezzo alle gambe esclama “il mio pene è morto!”, pensando al rigor mortis (1.05). Rimarca a D’Arcy che lei non deve essere molto intelligente e lei si arrabbia; lui preoccupato osserva “Oh no, gli uomini umani non devono dire cose cattive alle donne, se non mi scuso saprà che sono un alieno” (1.05). L’attrito poi fra il suo cercare di farsi passare per umano e un persona che, come medico, aiuta gli altri, e i suoi pensieri minacciosi che sperano nell’annichilamento totale, costituiscono una forte di risate sempre gustose. L’altra colonna portante dell’umorismo è affidata allo sceriffo e la sua vice, lui ipercontrollante e sicuro di sé, lei bravissima, ma il cui contributo non viene debitamente riconosciuto. È costruito in modo ideale, e l’ho pensato come una possibile parodia di Fargo, anche se funziona indipendentemente da riferimenti extratestuali.   

C’è molta attenzione e tenerezza nelle situazioni, anche le più intense, e occasionalmente un pizzico di malinconia, e a questo si aggiunge la scoperta da parte del neoumano, un po’ disgustato dall’idea di esserlo, di che cosa significhi essere veramente tali, “infettati” di umanità, come la vede lui: che cosa si prova, fisicamente ma soprattutto psicologicamente ed emotivamente. Il fatto che si sia a contatto con dei Nativi americani – il padre di Asta, Dan (Gary Farmer), è il proprietario di una locanda – e che il piccolo Max abbia come miglior amica una bambina musulmana, Sahar (Gracelyn Awad Rinke), fanno bene intendere che c’è una consapevolezza, da parte della serie, del concetto di “alieno” in senso più ampio, metaforico (vengono definiti “resident alien” negli USA gli immigrati non ancora cittadini), per quanto finora non si sia esplicitamente riflettuto in questa direzione ed è un’occasione sprecata. A un ritrovo sugli extra-terrestri, Harry non gradisce che la propria identità sia trattata come un costume, Asta commenta con un equivalente di “dillo a me”, ma il massimo a cui si è arrivati è piantare l’idea che un alieno possa essere un “Cristoforo Colombo dello spazio” (1.09).

Il richiamo che viene elicitato in modo più forte è a Northern Exposure - Un medico fra gli Orsi, con un piccolo paesino dove finisci per conoscere un po’ alla volta i personaggi pittoreschi locali o le leggende del posto, cosa che aggiunge una nota di fascino e stimola lo spettatore a tornare. Anche per la presenza della cultura indigena, ovviamente. La sceneggiatura di questa creazione di Chris Sheridan non è a quei livelli, ma non ci si sente alieni, è il caso di dirlo, ma accolti. Con garbo. Ho sentito criticata la serie perché cercherebbe di essere troppe cose contemporaneamente: non la condivido perché gli elementi si compenetrano ibridandosi alla perfezione.

Molta della serietà del programma viene dalle backstory di Asta (una relazione abusante e una bimba data via alla nascita) e di D’Arcy, infelice, che beve un bel po’ ed è alla ricerca di una relazione, così come l’elemento di avventura è assicurato dalle indagini dello sceriffo, come dal tentativo del protagonista di ritrovare il device che gli permetterebbe di annientare l’umanità e di riprendere la propria nave e tornare a casa. Il messaggio ultimo va in direzione dell’amicizia e dell’amore.

Notare che le scritte in sovrimpressione appaiono in caratteri alieni (in realtà in esperanto, secondo Wikipedia), prima di apparire in inglese. Anche la sigla, ogni volta diversa, con vignette a fumetti che illustrano che cosa in una situazione è appropriato fare e che cosa no, è una chicca. 

venerdì 6 febbraio 2015

DOMINION: fragile


Le recensioni erano negative e, forse per le basse aspettative, mi aveva favorevolmente colpito il pilot di Dominion, che poi invece ha deluso, nella prima stagione di soli otto episodi a cui comunque farà seguito una seconda. 
Basata sul film del 2010 Legion, e ideata da Vaun Wilmott, questa serie apocalittico-sovrannaturale ha una premessa intrigante: Dio scompare e la colpa viene data agli esseri umani che lo hanno deluso. Gli angeli, di vario livello, si dividono in due fazioni: quella guidata da l’Arcangelo Michele(Tom Wisdom)  è a favore dell’umanità; quella che segue l’Arcangelo Gabriele (Carl Beukes) invece vuole distruggerla per punirla. A Vega però (un tempo Las Vegas), una delle poche città sopravvissute e ora fortificate, vive il prescelto, il sergente Alex Lannon (Christopher Egan), che ha sul corpo dei tatuaggi che solo lui riesce a leggere con impresse le “parole del Padre” che dovrebbero portare l’umanità alla salvezza. Parallelamente alla battaglia fra le due fazioni, c’è anche un’intensa attività politica a capo della città, che vede come figure di spicco il generale Edward Riesen (Alan Dale, The OC, Lost) e il console David Whele (Anthony Head, Buffy), scaltro amministratore . Il primo è Lord della città e suo comandante militare, nonché padre di Claire (Roxanne McKee), insegnante e sua erede politica, innamorata, ricambiata, del “prescelto”. Il secondo è un potente senatore il cui figlio, William (Luke Allen Gale), promesso e poi sposo di Claire, è il leader spirituale della Chiesa del Salvatore, ma segretamente un accolito dell’Arcangelo Gabriele.   
Il reticolato di base, abbastanza complesso, non regge a causa di una recitazione fiacca, ad esclusione dei due anziani politici – Head e Dale sono sempre convincenti. Il prescelto in particolare manca di carisma, e non si capisce davvero perché lo abbiamo selezionato per il ruolo, se non per il fatto che aveva avuto un ruolo relativamente similare nel rimpianto Kings, dove pure era l’anello debole. Spunti interessanti ce ne sono anche: gli angeli come forze oscure, ad esempio, o il rapporto con il “padre”, tema pregnante della serie, con Dio padre che abbandona l’umanità e il prescelto che è stato abbandonato da suo padre e lui stesso che in finale di stagione (1.08) si vede costretto ad abbandonare il proprio figlio non ancora nato… La sceneggiatura però è fragile e i dialoghi completamente dimenticabili per cui la portata dell’idea, potenzialmente potente, non ne viene sorretta.

sabato 4 gennaio 2014

HELIX: i primi 15 minuti

 
Helix, la nuova attesissima serie di fantascienza firmata da Ronald D. Moore (Battlestar Galactica), ha reso disponibile in anteprima i primi quindici minuti del pilot, che debutta il 10 gennaio sulla rete Syfy. Eccoli sotto. 


martedì 6 novembre 2012

Battlestar Galactica: BLOOD & CHROME: sul web da venerdì


 
Secondo quanto riporta l’Hollywood Reporter, debutta questo venerdì sul web, sul canale di YouTube Machinima, il prequel di Battlestar Galactica, Battlestar Galactica: Blood & Chrome, diviso in 10 episodi della lunghezza dai 7 ai dodici minuti che verranno caricati fino a febbraio, per rimanere fino ad aprile. In data ancora da stabilire andrà poi in onda su SyFy.
Questa, da me tradotta, è la sinossi ufficiale: “Il film è ambientato nel mezzo della Prima Guerra dei Siloni. Mentre attraverso il mondo delle colonie infuria la battaglia fra gli umani e le loro creazioni, i siloni , robot senzienti, il dotato pilota da combattimento William Adama (Pasqualino), si trova assegnato a una delle più potenti navi stellari da combattimento della flotta coloniale: il Galactica. Pieno di ambizione e fame d’azione, Adama si trova presto a scontrarsi con il suo co-pilota, l’ufficiale Coker (Cotton), stanco della battaglia. Con soli 47 giorni di servizio rimanentigli, Coker desidera una fine della battaglia almeno quanto Adama ne brama l’inizio”.
Sotto, il promo.   
 

giovedì 28 luglio 2011

ALPHAS: un "Heroes" dei poveri



In prima battuta, con un pilot che al netto della pubblicità dura poco più di un’ora, Alphas, la nuova serie ideata da Zak Penn (X-Men) e Michael Karnow in onda sull’americana SyFy dallo scorso 11 luglio, dopo che era stata progettata in origine per la ABC, mi è parsa una sorta di Heroes dei poveri con i protagonisti che giocano a CSI.
Sotto la direzione del dottor Lee Rosen (David Strathairm, Temple Grandin, Good Night, and Good Luck ), neurologo e psichiatra impiegato dal dipartimento della difesa degli Stati Uniti, lavora un gruppo di persone che vengono chiamate Alpha perché hanno poteri straordinari, conosciuti appunto come abilità alpha, dovute a differenze neurologiche loro proprie. Si tratta di Nina Theroux (Laura Mennell, Watchmen), una “influenzatrice” che con lo sguardo riesce a piegare le persone alla propria volontà (nel pilot la vediamo far mangiare a un vigile urbano la contravvenzione che le ha appena fatto); di Bill Harken (Malik Yoba, New York Undercover) un ex-agente dell’FBI che, iperadrenalinico, in alcune circostanze assume una grande forza e risulta quasi immune al dolore; di Rachel Pirzad (Azita Ghanizada, Castle), una ragazza “sinestetica”, che concentrandosi riesce temporaneamente a potenziare fortemente uno dei propri sensi a scapito degli altri; e di Gary Bell (Ryan Cartwright, Mad Men, Bones), un “trasduttore”, un giovane che è una sorta di antenna umana capace di captare onde televisive, radio, telefoniche… A costoro alla fine del pilot si aggiunge, non senza una certa resistenza, Cameron Hicks (Warren Christie, October Road) che, grazie a quella che chiamano “ipercinesi”, ha mira, equilibrio e attività motorie eccellenti. Il pilot si apre proprio con lui che, in una sorta di trance, ammazza un uomo, dopo che ogni parola che sentiva e ogni messaggio che leggeva gli intimava che “è tempo di uccidere” e “premi il grilletto”, un inizio accattivante che per lui si è chiuso con una altrettanto intrigante chiusura, con il cattivo di turno che prima di morire gli dice che sta dalla parte sbagliata.  
Nonostante la possibilità di relazionarsi a protagonisti che, come persone comuni, sono improbabili supereroi, e a dispetto di una storia iniziale raccontata in modo diretto e anche solida, la narrazione mi è parsa forzata e semplicistica, con il sapore di tanti telefilm dimenticabili degli anni ’80, primo fra tutti Misfits of Science - in italiano semplicemente Misfits, ma che indico con il titolo originale anche per non confonderlo con l’omonima contemporanea serie inglese -, e, se si esclude il segmento del pilot prima della comparsa del titolo, molto “già vista” da un punto di vista registico.