I Love Dick, serie di Amazon portata sullo schermo da Jill
Soloway (Transparent) e Sarah Gubbins
sulla base dell’omonimo romanzo di Chris Kraus, contiene già nel titolo un
doppio senso, per chi non avesse familiarità con l’inglese. Significa infatti
tanto “Io amo Dick”, quanto “Mi piace il cazzo”. E in questa ambivalenza è
contenuta anche parte del senso della serie.
Chris Kraus (Kathryn
Hahn) - sì, la protagonista della serie
si chiama come l’autrice del libro – è una regista femminista e una donna molto
indipendente che si trasferisce temporaneamente con il marito Sylvère (Griffin
Dunne), uno storico che si occupa di estetica dell’Olocausto, presso una
colonia di artisti a Marfa, in Texas. Qui
incontra Dick (Kevin Bacon), un talento la cui fama è quasi mitologica nella sua comunità – il personaggio è
basato su una similare figura del posto, quella di Donald Judd -, un macho egocentrico
- si vanta che non legge libri perché ormai lui è “post-idea” - che va in giro
vestito da cowboy, ha un atteggiamento condiscendente, è sprezzante delle donne
come artiste, e tende ad ignorarla. Lei, fisicamente estremamente attratta da
lui, ne rimane ossessionata, e comincia a scrivergli delle lettere d’amore e
desiderio, spesso a sfondo erotico, in cui si rivela completamente e si
analizza. Con un effetto afrodisiaco, queste missive rinvigoriscono la sua
zoppicante intesa sessuale con il marito che in qualche modo le diviene complice,
e diventano per lei un’opera d’arte. Inizialmente concepite solo come private,
finisce per darle prima a Dick stesso e poi per diffonderle nell’intera
cittadina. Alla ricerca di significative rappresentazioni di sé sono anche la
drammaturga lesbica Devon (Roberta Colindrez), Toby, che ha studiato pornografia
osservandone le forme, e alla sua maniera anche la gallerista di Dick,
l’afro-americana Paula (Lily Mojekwu).
La serie è un acuto
miscuglio di attrazione e repulsione, contemporaneamente assertiva e
autodistruttiva, passionale e logica, di una donna nei confronti di un’icona di
mascolinità, con tutto quello che rappresenta. Mostra la rabbia di chi, perennemente
ignorato e sottovalutato dalla società, fa le capriole per rivendicare il
proprio valore. Astraendo, è il femminismo di fronte al muro del patriarcato, è
ribellione di fronte alla misoginia. Allo stesso tempo le lettere sono in fondo
una scusa perché la protagonista possa indagare se stessa. “Questa non è una
lettera d’amore, questo è un manifesto” (1.06), dichiara la protagonista. A
volte sa di rendersi ridicola, ma non le importa, presa da una sorta di furia
di scoperta. La serie esplora identità di genere, sessualità e desiderio – a questo proposito particolarmente
riuscita è “ A Short History of Weird Girls” (1.05) che si segmenta in una
piccola storia sessuale e di desiderio di Chris, Devon, Toby e Paula, con un
tono confessionale. L’atmosfera calda di zone desertiche e musiche
spagnoleggianti accrescono una sensazione di progressiva disinibizione, che è
mentale, prima ancora che fisica.
L’autrice riposiziona
come centrale il female gaze, lo
sguardo femminile. Dick si sente umiliato, perché ritiene che Chris abbia
indebitamente preso il suo nome, invaso la sua privacy e scritto pornografia su
di lui, ed è Sylvère che gli fa notare che è quello che gli uomini hanno sempre
fatto alle donne, usandole come muse per la propria creatività. Ambientata nel
mondo dell’arte e delle teorie culturali, è una meditazione sul senso di queste
imprese, con echi perennemente meta-testuali sulla serie stessa. Quando Toby si
mette nuda davanti a una telecamera per una sorta di performance art, come modo per offrire il proprio corpo e il
proprio privilegio, i personaggi stessi nella diegesi discutono sul senso di
quel gesto, con vari punti di vista, ora definendolo come l’incarnazione della
fusione fra accademia, arte e social
media, come un bricolage post-moderno di cultura alta e bassa, ora interrogandosi
se non sia infliggere il proprio privilegio sugli altri e se non sia per questo
irresponsabile, pedestre, non etico, ora proponendo una lettura che lo vede
come un esercizio di mutua degradazione di corpi estranei… Se legittimamente ci
si chiede se un atto simile sia sovversione e arte o se siano stronzate, la
serie non dà una risposta, partecipa a questo dualismo, in equilibrio fra le
due possibili soluzioni come su una corda tesa, anche irridendo certi eccessi,
o guardandoli con l’indulgenza di chi vi vede irrefrenabili impulsi fuori
controllo nell’aspirazione di qualcosa di grande. C’è un sottile umorismo. Ma
l’eventuale irrisione non diventa mai disprezzo. Nella sua anima drammatica è
frida-kahlo-iana, potremmo dire, ma si celebra, come ha acutamente argomentato Maxinne
Swan sul Guardian – la “comic
female loser”, la sfigata comica, una figura inusuale e difficile sullo
schermo.
Una serie passionale e
concettosa.
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