“Questo è quello per cui
abbiamo combattuto: essere sorelle”. Questa frase della series finale (5.10) di
Orphan Black custodisce il senso di un programma che, con una chiusura molto
catartica e ottimista, ha lasciato agli spettatori una positiva eredità
femminista, perché “il futuro è femmina”, come si è reiterato in più occasioni
nella quinta stagione, le cui puntate hanno titoli che sono citazioni della
poesia “Protest” di Ella Wheeler Wilcox. Già in passato – si veda questo mio
post – si notava la modalità della serie di usare come titoli citazioni da
una fonte autoriale specifica ogni volta diversa.
I cloni del progetto
Leda, si è rivelato nell’ultima puntata - che ce ne ha fatta conoscere
direttamente un’altra (con una sempre sorprendente Tatiana Maslany -, erano ben
274. Felix (Jordan Gavaris), in occasione di una sua mostra che ritraeva le
diverse sorelle, ha fornito meta-testualmente egli stesso una ermeneutica di
quanto abbiano visto: la personalità e l’identità sono un costrutto sociale.
Attraverso questa “costellazione di donne”, come le ha definite lui, e
attraverso una trama fitta e densa, molto più stringente di quanto non sia la
norma di questi tempi, si sono esplorati moltissimi temi, in primis quello
sulla ricerca scientifica e la sperimentazione e la loro etica, sull’autonomia
e sulla libertà (particolarmente forti in questa stagione), sulla maternità e
sulla famiglia, sull’identità e sull’umanità, sulle scelte di vita e sulla
felicità.
E se è vero che Orphan
Black è un’utopia femminista (The
Guardian) e l’eredità che ci lascia è il suo matriarcato (Paste
Magazine), è rassicurante anche vedere che nella concezione degli
ideatori Graeme Manson e John Fawcett questo è un lascito che non significa
mettere da parte gli uomini, ma li include. Nella dissoluzione di Westmorland
(incarnazione del patriarcato) e dei Neoluzionisti che volevano controllare le
vite delle “sestras”, quest’ultime sono state affiancate da uomini “veri”: così
li definisce Helena quando decide di chiamare i bimbi maschi che ha appena
partorito con i nomi di Arthur e Donnie. È significativo qui trovare un
messaggio che non vede l’annichilamento maschile nel progresso di parità
femminile. Come ha ben scritto Abigail Chadler (The Guardian), “da Scott, il
geek del laboratorio, a Ira, il più gentile dei cloni Castor, Orphan Black ha
mostrato che gli uomini da ammirare di più non solo quelli che cercano di
essere all’altezza dell’idea tossica di mascolinità, ma quelli che rispettano
le persone che li circondano”. E come ribadisce Jacob Oller (Paste Magazine) il
lascito spirituale della serie non sta tanto nella fantascienza, ma nella
scienza sociale, nel mettere in scena “una cultura in cui le donne dominano
nella tecnologia, nella scienza e negli affari, e in cui essere una mamma che
sta a casa garantisce una copertura narrativa pari a quella di una
sperimentazione militare segreta.”
A latere credo sia
rilevante osservare, in un momento in cui si discute nei circoli televisivi
della parziale (presunta?) dissoluzione del messaggio femminista di Joss Whedon
(Buffy, Angel, Firefly), a seguito del suo divorzio dalla moglie e delle accuse
di quest’ultima dell’ipocrisia dell’autore, per quanto io personalmente non
ritenga che quel messaggio ne sia scalfito, che questi non era la sola campana
in favore dell’eguaglianza.
A Helena poi è andato il
compito anche di spiegare il titolo della serie. Raggruppata con le sorelle –
in un immagine che le fa sembrare moderne “Piccole Donne” - dice che si tratta
del titolo del diario che ha tenuto, in cui vengono raccontate le loro storie:
tutte loro sono orfane, e Siobhan (compianta, ma presente nella memoria di
tutte) aveva un tempo osservato che Sarah era parte di un gruppo di bimbi che
erano scoparsi “into the black”, nel buio, nel “nero dell’orfano”, per loro
sicurezza. Ora quel buio è dissipato. Alla fine di tutto, quello che viene
promosso e che rimane è davvero la sorellanza, con donne che sono un prisma di
possibilità, nelle loro diverse incarnazioni e in se stesse, presenti le une
per le altre.
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