lunedì 30 settembre 2019

BOB ♥ ABISHOLA: non diverte


Non fa ridere Bob Abishola (Bob hearts Abishola – Bob cuore Abishola, in italiano forse potremmo dire "Bob Lovva Abishola"), la nuova serie sull'americana CBS di Chuck Lorre (Due uomini e mezzo, The Big Bang Theory) e Eddie Gorodetsky, Al Higgins e Gina Yashere (una comica britannico-nigeriana). Nemmeno un po’. E questo la boccia come sit-com. Funziona meglio sul lato umano e di tenerezza, ma non a sufficienza.

Bob (Billy Gardel, Mike e Molly) è un uomo di mezza età che nella vita ha una fabbrica di calzini a gestione familiare, a Detroit. Fra lo stress lavorativo e quello provocatogli dalla madre Dottie (Christine Ebersole), il fratello Douglas (Matt Jones) e la sorella Christina (Meritbeth Monroe) finisce per avere un attacco di cuore. In ospedale, il Woodward Memorial Hospital, si innamora dell’infermiera di origine nigeriana che si prende cura di lui, Abishola  (Folake Olowofoyeku), che ha un figlio, Dele, per cui sogna la carriera di medico, e che vive con zia Olu (Shola Adewusi) e zio Tunde (Barry Shabaka Henley). Bob inizia a corteggiare Abishola, regalandole dei calzini. A raccogliere le confidenze di lei e a commentare la situazione ci sono anche la collega Gloria (Vernee Watson) e l’amica Kemi (Gina Yashere).

Da una sit-com che infila una scorreggia entro il primo minuto nella speranza di provocare ilarità, si capisce che non si punta troppo in alto, ma la premessa è interessante. Nel podcast di “TV’s Top Five” (puntata del 20 settembre 2019) Lorre dichiara di trovare l’immigrazione un argomento politico, ma gli immigrati un argomento semplicemente umano: vuole celebrarli perché sono loro che hanno reso grande l’America e, con loro, il loro coraggio e la determinazione che ci vogliono  per andare a vivere in un Paese straniero cercando una vita migliore. Nel confronto fra culture diverse spera di poter guardare la realtà in prospettiva fresca, scoprendo valori che magari un tempo appartenevano anche alla cultura americana, ma ora apparentemente non più. Fa l’esempio specifico del rispetto per le persone più vecchie e indica una scena del pilot che in effetti salta agli occhi (ho ascoltato l’intervista dopo aver visto la puntata e ammetto di aver notato da sola quanto diceva): Dele serve la colazione alla madre Abishola. L’intenzione perciò c’è, ed è nobile, e si potrà realizzare lì dove si riuscirà ad evitare la caricatura etnica e gli stereotipi da cui all’esordio non si sfugge (specie con gli zii).

Dove pure c’è potenziale è anche in quello che in The Kominsky Method Lorre ha dimostrato di saper esplorare bene: la vulnerabilità dell’essere umano. Un uomo sentimentalmente solo, ma con desiderio di amare e con un certo fascino gentile, e una immigrata tosta e pragmatica che deve lavorare sodo e crescere un figlio, cominciano a trovarsi interessanti a sufficienza da voler imparare a conoscersi. Può davvero essere la base di qualcosa di autenticamente romantico e questo è evidente che lo comprendono bene. Ugualmente una miniera interessante può essere l’esplorazione del rapporto fra i neri afro-americani e i neri africani. Come già in Mom (pure di Lorre) il riso non preclude parti drammatiche o comunque serie.

La recitazione è buona, i passaggi di scena con le slugline scritte a caratteri cubitali sono quantomeno originali.

Rimane, per il poco che ho visto, il problema enunciato all’esordio: non diverte. E avrà speranza di sopravvivere solo se riuscirà a farlo, presto.

lunedì 23 settembre 2019

EMMY AWARDS 2019: i vincitori

Photo Credit: Kevin Winter/Getty Images (da THR)


Sono stati consegnati ieri sera gli Emmy Awards, giunti alla loro 71esima edizione.


Sotto, i vincitori:

Miglior drama: Game of Thrones (HBO)
Miglior attrice in un drama: Jodie Comer, Killing Eve
Miglior attore in una drama: Billy Porter, Pose
Migliore attrice non protagonista in un drama: Julia Garner, Orzak
Miglior attore non protagonista in un drama: Peter Dinklage, Game of Thrones
Miglior sceneggiatura di un drama: “Nobody is ever missing” di Succession, scritta da Jesse Armstrong
Miglior regia di un drama: “Reparations” di Orzak, diretta da Jaseon Bateman

Miglior comedy: Fleabag (Amazon)
Miglior attrice in una comedy: Phoebe Waller-Bridge, Fleabag
Miglior attore in una comedy: Bill Hader, Barry
Miglior attrice non protagonista in una comedy: Tony Shalhoub, The Marvelous Mrs. Maisel
Miglior attore non protagonista in una comedy: Alex Borstein, The Marvelous Mrs. Maisel
Miglior sceneggiatura per una comedy: “Episode 1” di Fleabag, scritta da Phoebe waller-Bridge
Miglior regia per una comedy: “Episode 1” di Fleabag, diretta da Harry Bradbeer

Miglior limited series o film: Chernobyl
Miglior attrice in una limited series o film: Michelle Williams, Fosse/Verdon
Miglior attore in una limited series o film: Jharrel Jerome, When they see us
Migliore attrice non protagonista in una limited series o film. Patricia Arquette, The Act
Miglior attore non protagonista in una limited series o film: Ben Whishaw, A Very English Scandal
Miglior sceneggiatura per una limited series, film o speciale drammatico: Chernobyl, scritto da Craig Mazin
Miglior regia per una limited series, film o speciale drammatico: Chernobyl, diretto da Johan Renck

Miglior film per la TV: Black Mirror. Bandersnatch (Netflix)


Per altri vincitori, con l’elenco anche di tutti i nominati, si veda qui.

venerdì 20 settembre 2019

THE SOCIETY: adolescenti ricostruiscono la società


The Society è un teen drama di Netflix che vede un gruppo di ragazzi adolescenti che, di ritorno da una sorta di gita interrotta dal maltempo, all’improvviso si ritrovano da soli, isolati e senza adulti in genere, in quella che sembra una copia perfetta della cittadina di West Ham, in Connecticut nel New England, in cui abitavano, circondata solo da foresta, e devono cavarsela con le proprie forze e far funzionare la nuova società che sono costretti a costruire. 

Ideata da Christopher Keyser, che già aveva esplorato il tema dell’assenza dei genitori in Party of Five, questa serie è un po’ Il Signore delle Mosche (a cui è in parte ispirato), un po’ The 100, un po’ Riverdale, un po’ Persons Unknown e Wayward Pines o Under the Dome. Altre influenze, esplicitamente richiamate, sono Walden di Thoreau,  Peter Pan, e Rosencrantz e Guildersten sono morti di Stoppard.

I protagonisti che si contendono la scena sono numerosi: Cassandra Pressman (Rachel Keller, Legion) leader naturale del gruppo, che ha problemi di cuore; sua sorella Allie (Kathryn Newton, Big Little Lies), che presto diventa forzatamente il punto di riferimento della comunità; il loro cugino Sam (Sean Berdy, Switched at Birth), un ragazzo sordo gay, e la sua migliore amica Becca (Gideon Adlon), che è incinta; Il fratello maggiore di Sam, Campbell (Toby Wallace), che mostra tendenze psicopatiche e ha un comportamento abusante e intimidatorio nei confronti della sua ragazza, Elle (Olivia DeJonge); il miglior amico di Allie, Will (Jacques Colimon), cresciuto con genitori in affido e senza una sua casa; Luke (Alexander MacNicol), ex-giocatore di football, e la sua ragazza Helena (Natasha Lui Bordizzo), molto religiosa; Harry (Alex Fitzalan), un ragazzo ricco abituato a spadroneggiare in città e la sua ex Kelly (Kristine Frøseth); e Gordie (Jose Julian), un giovane con aspirazioni da medico che ha una cotta per Cassandra.

Ammetto che sono affascinata dalla premessa di fondo a prescindere, qui mi è anche piaciuto molto come è stata realizzata – a dispetto del pietoso poster. Il mistero del dove siano, perché siano lì, se i loro genitori siano ancora vivi o no (lo si scopre nella finale di stagione) e come fanno eventualmente a tornare “a casa” è un filo presente, ma tenue. È il pretesto, in fondo…

Il cuore delle vicende è più di tipo politico-sociale: qual è il modo migliore di autoregolarsi e gestirsi, la democrazia o la dittatura? Il socialismo o il capitalismo? Che poteri e che limiti deve avere un governo? E le forze dell’ordine? Quali sono le priorità in una comunità? Come cambia le persone il potere? Che confine ci sono fra interessi personali e comuni? Che sacrifici comporta spendersi a favore della comunità? Come affrontare la scarsità di risorse, alimentari, ma anche culturali? Che cosa significa costruire una nuova vita? Come arginare gli elementi distruttivi o pericolosi di una società? Come va gestito il dissenso? Come si infliggono punizioni? Come si fanno rispettare le regole? Come si decide chi comanda e fa rispettare le regole? Come si tengono in equilibrio le vicende personali e quelle della comunità? Che cosa conta nella vita?

Si dibattono perciò queste problematiche di diritto e scienze politiche, ma anche di natura etica e morale, sia esplicitamente che implicitamente, attraverso argomenti ambiziosi e inaspettati colpi di scena. Si mostrano quanto concrete e quotidiane siano queste questioni, con echi alla realtà che viviamo. Attraverso il microcosmo degli adolescenti si ha, in un certo senso, una versione del mondo che potrebbe essere definita ad usum Delphini, ma che non suona esplicitamente pedagogica, ma è più di stimolo alla riflessione in una trama avvincente. Le speculazioni intellettuali dei ragazzi, che dibattono queste questioni in arene pubbliche o privatamente sono stringentemente legate alla loro realtà, non esercizio astratto. Ne va della loro sopravvivenza e della qualità della loro vita.

I dialoghi non sono particolarmente memorabili, ma la costruzione narrativa è molto solida, e gli interpreti sono talentuosi. Al di là delle premessa fantastica è tutto molto credibile. La parte femminile del cast è servita meglio nel senso che i personaggi femminili sono approfonditi di più, mostrano più spina dorsale e sono genericamente ritratte in modo più positivo della controparte maschile, a cui per ora sono stati riservati ruoli antagonistici o di supporto. Ci sarà tempo di approfondire nella confermata seconda stagione. Un YA adatto anche agli adulti.

lunedì 9 settembre 2019

PEN15: vita di due pre-adolescenti


In PEN15 (da leggersi come “pen-fifteen”, ma anche come “penis” ovvero “pene”, dell’’americana Hulu) due attrici trentenni, Maya Erskine e Anna Konkle, co-ideatrici insieme a Sam Zvibleman. interpretano due ragazzine delle medie  – se stesse da giovani, si può immaginare, considerato anche che i personaggi hanno lo stesso nome di battesimo e che la serie è ambientata nei primi anni 2000, in un’epoca pre-cellulari ed e-mail. Con una vibrante commedia in cui si mostrano i dolori e le gioie della pre-adolescenza si porta attenzione, con rara onestà e assenza di pudore, a verità su quella fase della vita che si tendono a dimenticare o ignorare.

Maya, la cui madre (Matsuko Erskine, vera madre dell’attrice) è giapponese, vive con lei e il fratello in un nucleo familiare felice: il padre batterista (Richard Karn) è spesso via per lavoro, ma manda ogni sera un fax alla figlia per farle sentire la sua presenza; Anna è amata dai genitori (interpretati da Taylor Nichols e Melora Walters) che però fra loro non fanno che litigare e sono prossimi al divorzio. Le due amiche sono come sorelle e condividono tutto, che sia giocare coi Sylvanian, fumare la prima sigaretta, parlare delle cotte per i ragazzi o depilarsi per la prima volta…

Ci sono momenti in cui è evidente che si tratta di due adulte che interpretano delle ragazzine, ma la sospensione dell’incredulità funziona alla grande, anche perché per la gran parte del tempo risultano assolutamente credibili. Il resto del cast giovane è composto da ragazzi che hanno effettivamente l’età che si suppone debbano avere, e anche se non ce ne è bisogno perché si immagina, la serie rassicura con una scritta in sovrimpressione che in alcune scene vengono usati dei body double.

Sono partita un pochino tiepida nei confronti di questo programma apprezzato dalla critica. Avevo l’impressione che si proponesse una versione di quell’età un po’ come, quando avevo quegli anni, me la suggeriva la rivista “Cioè” ovvero donne giovanissime interessate solo ai ragazzi, al look e alla musica. Io a quell’età non mi ci ritrovavo, e ora da adulta ritengo tutt’ora che quella versione della pre-adolescenza sia stereotipata e riduttiva, ma anche che probabilmente ero uno po’ fuori dal coro, io che, di fatto, sono sempre probabilmente stata anche percepita come un po’ “strana”, rispetto alle mie coetanee. Ritengo vero, ad esempio, che le persone di quell’età fossero e siano interessate ai cantanti, per quanto a me non avesse mai potuto interessare di meno, quando avevo già un forte interesse nei confronti del piccolo schermo, che veniva all’epoca ignorato. All’inizio vedevo perciò in questa serie un ennesimo specchio distorto, un falso rispetto al mio sentire e pensare a quell’età. Presto però, e con il passare degli episodi, mi sono completamente ricreduta e penso che sia siano raggiunti livelli di profondità notevoli nello scavare nella psiche verde di quei momenti così vulnerabili e fondanti.

PEN15 non mostra adolescenti extra-cool da copertina di rivista patinata, come troppo spesso accade in TV, ma quelle della vita reale, impacciate e inesperte, che cercano di imparare a navigare le prime relazioni sociali, e a gestire situazioni più grandi di loro, il giudizio e le aspettative dei coetanei e degli adulti (1.04 in questo senso è particolarmente significativa), e a capire chi sono (in 1.06 Maya fa i conti con la parte giapponese di sé, ad esempio, e si parla di razzismo in modo sorprendentemente originale, nella misura in cui nasce in modo apparentemente innocuo e sotterraneo, non crudelmente voluto)… da un lato sono apparentemente adulte, dall’altro di un’ingenuità disarmante. Si fanno magari pesanti allusioni sessuali, contemporaneamente ci si incanta ad occhi aperti a vedere il compagno di classe che entra nella stanza, si costruiscono e distruggono amori a ritmo di bigliettini di carta passati fra i banchi di scuole, si scopre la masturbazione…

A quest’ultimo tema è dedicata la puntata “Ojichan” (1.03) e c’è una buona dose di umorismo nel mostrare l’imbarazzo di Maya, che vive questo momento di scoperta del sé come se venisse costantemente osservata da un antenato defunto. Pur consapevole del fatto che questo sia un campo della vita in cui non esiste un’età fissata per essere scoperto, personalmente mi sembrava un’età decisamente molto tardiva. Mi ero posta lo stesso interrogativo, se appunto non fosse un po’ tardi, anche guardando “Ramy” che fa fare le prime esperienze al protagonista maschile grosso modo alla stessa età. Ho cercato di indagare in proposito, ed evidentemente, ammesso appunto che non c’è mai un troppo presto o troppo tardi, è un’età in cui nella media è ragionevole iniziare.

La parte sorprendente è anche quanto espliciti si sia nel mostrare la realtà: la sostanza lubrificante della vagina viene mostrata sulle mani di Maya, che la osserva; quando le arriva il ciclo (che lei non confessa perché ha timore di diventare donna e vorrebbe rimanere ancora un po’ bambina), si vede il sangue, anche raggrumato, sulle mutante e sulla carta igienica; quando si mettono nella vasca da bagno a radersi le gambe, si vedono i peli lunghi. Non ci si nasconde da realtà quotidiane della vita delle giovani donne insomma, quando normalmente queste sono aspetti ancora tabù, che raramente si mostrano senza imbarazzo. Non  ci sono sterilizzazioni e addolcimenti, si aspira all’autenticità.

Lo stesso vale per i sentimenti, le prime cotte e simpatie, delicatissimi e appena abbozzati, tante volte, e proprio per questo forse così difficili da rendere con la pregnanza e l’acume con cui ci si riesce. Qui c’è un lavoro di messa in scena, ma ancora prima di scrittura, davvero lodevole. Le puntate della prima stagione sono 10.