lunedì 26 aprile 2021

LUPIN: ha il gusto della narrativa YA

Ha il gusto leggero della narrativa young adult la serie televisiva francese Lupin, di cui Netflix ha rilasciato la prima parte all’inizio dell’anno in attesa di una seconda durante l’estate – l’interruzione è stata causata dal COVID. Non è quello che mai considererei grande televisione, ma è un diversivo ben congegnato che non delude per colpi di scena e meccanismi narrativi che lasciano con il piacere di aver assistito a un piccolo gioco di prestigio. Nel guardarlo poi, sarà anche perché esordisce con un furto di un collier in un museo, ma mi ha richiamato alcune atmosfere di Caccia al ladro d’autore, una serie italiana degli anni ’80.

Assane Diop (Omar Sy) è un giovane uomo di origine senegalese emigrato in Francia da bambino insieme al padre Babakar (Fargass Assandé), che lavorava come autista per la famiglia Pellegrini – Hubert (Hervé Pierre), uomo d’affari senza scrupoli, sua moglie Anne (Nicole Garcia) e la figlia Juliette (Clotilde Hesme), ora a capo di una fondazione benefica, che conosce Assane fin dall’infanzia. Babakar, accusato del furto di una preziosa collana, si impicca in carcere. Venticinque anni dopo il gioiello ricompare e Assane decide di rubarlo come parte di un progetto più ampio: ha sempre creduto il padre innocente e incastrato dai suoi datori di lavoro e intende vendicare la sua memoria.

Nel suo operato si ispira a Arsenio Lupin, la creazione letteraria di Maurice Leblanc, da cui la serie stessa è liberamente tratta, di cui è un grande ammiratore fin da bambino, passione che cerca di instillare anche nel suo stesso figlio Raoul (Etan Simon), avuto dall’ex-moglie Claire (Ludivine Sagnier). A conoscere le sue intenzioni e a fiancheggiarlo c’è Benjamin (Antoine Gouy), un amico che ha un negozio di antiquariato. La polizia, con a capo il capitano Ramain Laugier (Vincent Londez), indaga sul furto. L’agente, Youssef (Soufiane Guerrab) si accorge dei collegamenti con la storia di Lupin, mentre la collega Sofia (Shirine Boutella) è piuttosto scettica in proposito.

Ideata da George Kay e François Uzan, questa fiction d’evasione sul noto ladro gentiluomo si poggia in modo saldo sull’innegabile carisma del solido interprete principale che, in apparenza imperscrutabile, riesce a rendere credibile sia la sua innocua amabilità che la sua sorprendente astuzia nell’inganno. Ammettiamolo, il solo capace di rubargli la scena è il delizioso cagnetto “J’accuse”, che il protagonista riceve in “eredità”, mettiamola così, e che abbaia al solo sentir nominare il nome Pellegrini, che – mi raccomando – viene rigorosamente pronunciata “Pellegrinì”.   

Più a fondo è una denuncia della danarosa borghesia che crede di poter agire impunemente a proprio vantaggio alle spalle di poveri onesti immigrati, e c’è il senso di rivalsa e di giustizia che l’acume strategico e l’intelligenza tattica riescono a far prevalere. Questo ethos, incarnato come è in un personaggio segreto e avventuroso ma di nobili principi, non va mai troppo oltre diventando solo sete di vendetta.

Assane è capace di farsi pugnalare pur di entrare in contatto con una persona che può essergli di aiuto, ma è la sua abilità il fascino del personaggio. Non usa grandi apparati per mettere in atto i suoi piani, in fondo sufficientemente “a basso costo”. I travestimenti sono minimali. Eppure, anche a dispetto di una notevole presenza scenica passa inosservato: una voluta frecciata all’invisibilità dovuta a pregiudizio razziale o uno delle molte sospensioni dell’incredulità di cui ci fa fare esercizio la serie per mettere a segno eventi così goduriosamente incredibili? Superman con Clark Kent docet.

Diventata subito un successo, la serie ha chiuso la prima metà con un cliffhanger.

sabato 17 aprile 2021

BELGRAVIA: dall'autore di Downton Abbey

Se si ha nostalgia per le atmosfere di Downton Abbey, non si sbaglia a immergersi nelle sei puntate di Belgravia (ITV), dall’autore di entrambe Julian Fellows che ha basato questa sua ultima creazione su un suo romanzo dallo stesso titolo. La regia è di John Alexander (Sense and Sensibility). Ambientazione vintage, trame che sanno di soap opera, colpi di scena inaspettati e risoluzioni utili all’atteso lieto fine. Tutto sullo sfondo della Londra posh del quartiere che dà il nome alla miniserie. 

Gli eventi principali sono preceduti da un antefatto di 25 anni prima: a Bruxelles nel giugno del 1815, due giorni prima della battaglia di Waterloo e alla vigilia della battaglia di Quatre Bras, la contessa di Richmond tiene un gran ballo in onore del Duca di Wellington. A quella festa partecipano Edmund Bellasis (Jeremy Neumark Jones) e Sophia Trenchard (Emily Reid). Lui è il figlio dei conti di Brokenhurst, Caroline (Hariet Walter) e Peregrine (Tom Wilkinson), una delle più ricche e importanti famiglie; lei è la figlia Anne (Tamsin Greig, Episodes) e James (Philip Glenister), un mercante di successo noto come Il Mago per la sua capacità di fornire cibo e vestiario all’esercito. Edmund e Sophia sono molto innamorati, ma le famiglie, quella di lui in particolare, disapprovano per la differenza sociale fra i due. Entrambi muoiono giovani a poca distanza l’uno dall’altra, ma quello che c’è stato fra loro e quello che è accaduto quella notte si riflette tutt’ora su tutti gli altri.

Anne e James, oltre alla defunta Sophia, hanno un altro figlio, Oliver (Richard Gouldin), non portato per gli affari ma per la vita di campagna, che comincia ad essere geloso delle attenzioni che il padre riserva a Charles Pope (Jack Bardoe), un ragazzo che invece sul piano lavorativo si prospetta molto in gamba e che si innamora, ricambiato, di Lady Maria Grey (EllaPurnell), figlia della Contessa di Templemore, che vuole che la figlia sposi John Bellasis (Adam James), destinato ad ereditare la fortuna di quella famiglia, sebbene il padre, un reverendo, sperperi le fortune di famiglia nel gioco. John acconsente al fidanzamento, ma intesse una tresca con la moglie di Oliver, Susan (Alice Eve).  

Nonostante i molti intrecci è un talento di Fellows quello di saper delineare con chiarezza e in modo credibile questi intricati rapporti e nonostante l’utilizzo di un deus ex machina al momento giusto (una donna in possesso di alcune lettere e documenti risolutivi), tanto gli ostacoli che costruiscono il motore della storia quanto gli escamotage per risolverli sono sia consoni e stringenti rispetto ai mores che ritrae, sia fluidi e sensati nel loro appagante superamento.

Se il gusto e il clima, e molto la musica anche, ricordano quelle del maggior successo televisivo dell’autore, ci sono anche notevoli differenze. In primo luogo il fatto che qui non si parla della decadenza di una famiglia e del declino dei costumi aristocratici, ma all’opposto di borghesi che lavorano e sono emergenti. Siamo agli inizi dell’epoca Vittoriana e c’è molta voglia di fare. Certi contrasti sono più apparenti: la stessa servitù è vista meno come famiglia, più come impiegati. Sono ancora tutti vincolari da etichetta e valori di convenienza e apparenza, facili  vergogne ed imbarazzi sociali. Se i titoli nobiliari hanno ancora un peso, anche il vile denaro non ha un ruolo indifferente.

Centrali sono i rapporti familiari, ma si medita sul lutto e sul valore dei ricordi e della memoria, così come sui pregiudizi, che tanto condizionano a tutti i livelli i comportamenti  e le vite dei protagonisti. Le donne, e quelle più mature, sono in primo piano qui: Caroline e Anne in particolare, le madri dei due defunti innamorati, sono uno i due punti di riferimento essenziali e il loro rapporto riesce ad avere notevole nuance in mano ad attrici consumate. Non manca per altri aspetti una buona dose di prevedibili villain che si arricciano i baffi per la cattiveria, in quanto a  finezze siamo più sul livello del film di Downton che non a quello degli albori della serie, e non c’è una Lady Violet che con umorismo graffiante alleggerisca le situazioni.

Sebbene Belgravia sia autoconclusiva e il programma non abbia ricevuto le lodi che, specie al debutto, avevano ricevuto i conti di Grantham, ci potrebbe essere una seconda stagione (si legga qui su RadioTimes). Se è la vostra tazza di tè, come direbbero gli inglesi, ovvero se è il vostro genere, è una tazza di tè che si sorseggia gradevolmente senza grosso impegno.  

venerdì 9 aprile 2021

KUNG FU: non è "Kung Fu"

In un momento storico come questo, in cui si è assistito negli Stati Uniti ad un’impennata di razzismo nei confronti dei cinesi specificatamente e degli orientali in senso ampio, è magnifico vedere una nuova serie che ha come eroina una grintosa giovane donna proprio di origine cinese. È la prima serie drammatica di un network statunitense ad avere un cast prevalentemente asiatico, e viene da dire che era anche ora. Kung Fu, di cui è protagonista, che ha debuttato il 7 aprile sull’americana The CW ed è per ora inedita in Italia, non è tanto un roboot dell’omonima serie degli anni 70, quando una vera e propria re-immaginazione delle vicende, a partire da una premessa similare. Va però per la sua strada. Avrò anche seguito l’originale con David Carradine più di trent’anni fa, ma sono piuttosto certa che non prevedesse una spada magica. C’è un influsso de La Tigre e il Dragone, come è stato notato.

SPOILER SUL PILOT. Nicky Chen (Olivia Liang) è una ragazza che viene mandata dalla madre in Cina: in teoria per conoscere la cultura delle sue origini, in realtà per trovare un marito. Lei, che non è intenzionata, scappa e si rifugia in un monastero shaolin di giovani donne guerriere dove trascorre tre anni ad imparare il Kung Fu, mollando così di fatto università, ragazzo e famiglia.

Un giorno vengono attaccati, tutto viene bruciato, e una ribelle, Zhilang (Yvonne Chapman) uccide Pei Ling (Vanessa Kai), la sua shifu, rubando una spada che in seguito scoprirà avere presunte proprietà magiche. Decisa a vendicare la memoria della sua maestra traovando la colpevole, decide di tornare nella nativa San Francisco ripresentandosi senza preavviso alla sua famiglia d’origine. La madre Mei-Li (Kheng Hua Tan) la accoglie dicendo che sua figlia è morta tre anni prima. Sono imminenti le nozze della sorella Althea (Shannon Dang), una vera esperta di computer, con Dennis (Tony Chung), mentre il fratello Ryan (Jon Prasida), aspirante medico, le rinfaccia che ha dovuto fare coming out da solo un anno prima con i genitori, visto che lei se ne era andata privandolo del suo sostegno (era l’unica che sapesse che era gay). Il padre Jin (Tzi Ma, The Farewell), proprietario e cuoco di un ristorante, viene pestato da degli strozzini collegati alla Triade, che vogliono da lui una grossa somma di denaro. Nicky, forte delle sue abilità di lottatrice, decide di assicurare alla giustizia questi criminali, anche con l’aiuto del suo ex Evan (Gavin Stenhouse), ora assistente procuratore distrettuale, che nel frattempo si è trovato un’altra ragazza. Nicky, al suo ritorno, conosce anche Henry (Eddi Liu) un appassionato di arti marziali e sinologia, che l’aiuta a indagare su questa misteriosa spada, che le rivela essere uno di otto oggetti che daranno grande potere a chi li possiede.

Dal pilot di questo terzo tentativo di riportare Kung Fu sugli schermi televisivi, sviluppato da Christina M. Kim, abbastanza esplicativo e diretto nel dichiarare le proprie premesse, sembra che non mancheranno avventure gradevoli e piene di coreografiche scene di combattimento, di una volitiva giovane donna che intende combattere il crimine e le ingiustizie che vede, farcite un po’ con una storia pseudo-mitologica e con una missione videogioco di ritrovamento di manufatti, qualche spruzzata di romanticismo qui e lì e (benvenuti) semi di cultura cinese. Qualcuno si è lamentato che fa troppo affidamento sul rallenty nelle scene di combattimento, ben coreografate, ma a me non è dispiaciuto. Nulla di male, è una serie d’azione come tante, solo, non è Kung Fu.

Certo, quando tocca la spada per la prima volta, la protagonista si ustiona la mano. Si ripensano ai marchi che aveva Caine… Ma lì, c’era proprio la lezione ultima imparata dall’allievo, che rinchiuso, per aprirsi la porta e non morire, doveva spostare con le proprie braccia un pentolone rovente, rimanendo così marchiato a vita con il simbolo della scuola.

Quello che rendeva speciale le vicende di Caine era la filosofia e l’etica che guidavano il suo comportamento, appresi negli anni del monastero. Nell’originale, le lezioni imparate dal maestro cieco Po (Keye Luke) e dal maestro Kan (Philip Ahn) venivano illustrate attraverso dei flashback e attraverso il ricordo si capiva come informavano le azioni del presente. Lui, un monaco a tutti gli effetti per quanto in fuga, era una persona molto mite, ora adulta, che viveva comunque la spiritualità che gli era stata insegnata. Qui, tutto questo non c’è, e dal pilot sembra che non ci sarà. È vero, Nikki ha come delle “visioni” della sua mentore - non da “matta”, diciamo che immagina la sua presenza e i suoi insegnamenti e noi la vediamo fisicamente come vicina a lei -  che la guida: “crei il sentiero che vivi”, “la fede rende l’impossibile possibile”… Però fuori da qualche massima buttata lì non si capisce nemmeno quale possa essere l’apprendimento morale e spirituale, di vita, che ha fatto suo e che l’ha trasformata. È come se ne avesse una conoscenza istantaneo-Bignami, e fosse diventata questa lottatrice che lascia stupito chi la vede, ma tutto è rimasto molto superficiale. Ho trovato molto più pregnante la conversazione con la madre che le rammenta che non è sufficiente dire “scusa” per cancellare tutto d’incanto, che non le pillolette di saggezza della sua Shifu. Questo è il delitto in una serie che richiama un illustre antecedente di cui poteva fare a meno: è un’altra cosa, e va bene che sia così. Un pilot però è solo un pilot, e magari avrò occasione di ricredermi, ma non posso negare che questa sia stata una delusione. Non è quello che cerco, quando mi accosto a quel titolo.

Intanto, secondo quanto scriver l’Hollywood Reporter (qui) “Kung Fu ha debuttato con 1.4 milioni di spettatori e un rating di 0.22 tra gli adulti 18-49. È l’audience più grande per la CW nella fascia oraria delle 20.00 in quasi due anni e mezzo”.

venerdì 2 aprile 2021

DAS LETZTE WORT: un "Six Feet Under" tedesco

È tanto banale quanto azzeccato definire Das Letzte Wort – The Last Word (L’ultima Parola) su Netflix, come il Six Feet Under tedesco.

Karla Fazius (Anke Engelke) rimane improvvisamente vedova il giorno del suo venticinquesimo anniversario di matrimonio con il marito Stephan (Johannes Zeiler), che amava molto, colpito da un aneurisma. È uno shock per tutta la famiglia, in particolare per l’adolescente Tonio (Juri Winkler), che lo aveva insultato l’ultima volta che lo aveva visto, e che cerca supporto psicologico per affrontare quanto avvenuto, ma anche per la figlia Judith (Nina Gummich), una fotografa, che per l’occasione torna a Berlino. Karla riceve una serie di scosse biografiche, perché appunto deve riaversi da una perdita tanto improvvisa quanto dolorosa, ma anche perché scopre presto che il marito, un dentista, aveva in realtà lasciato il lavoro per dedicarsi all’attività artistica in un suo studio e glielo aveva sempre tenuto nascosto e lei ora, se non è proprio in bolletta, ha necessità di lavorare; in più, la madre Mina (Gudrun Ritter) è stata cacciata dalla casa di riposo per il suo comportamento ribelle e ora vive con loro. Dopo il funerale decide di prendersi una licenza come elogista funebre, e inizia a lavorare per Andreas Borowski (Thorsten Merten, anche ideatore della serie), direttore di un’agenzia di pompe funebri a gestione familiare, in crisi. Il figlio ventiduenne, Ronnie (Aaron Hilmer) già lavora nel preparare i cadaveri, e il padre vorrebbe idealmente lasciargli in eredità l’attività, ma la moglie Frauke (Claudia Gesler-Bading) preferirebbe liberarsene.

Curiosamente, la colonna sonora usa molto le canzoni dell’italiano Paolo Conte, ma è la pimpante “I’m Gonna Live Till I Die” cantata da Frank Sinatra a fare da sigla, in una celebrazione di vita, mentre le immagini, in un buon montaggio, ci mostrano varie bare in un crematorio e una che si avvia all’inceneritore. Ci allerta del fatto che la serie non sarà un mortorio, perdonate il gioco di parole, ma accanto a temi tanto grevi c’è energia e vitalità, e anche umorismo.

C’è l’utilizzo del realismo magico, un po’ come accadeva proprio nel celebrato Six Feet Under, nei momenti in cui Karla parla con il marito defunto che vede e dialoga con cui come se fosse presente qui e ora. Per lei è un modo di elaborare il lutto. Questo tema non è estraneo al piccolo schermo – facilmente vengono in mente titoli come After Life o Sorry For Your Loss. Qui avviene nel confronto costante con quello di molte altre persone. Per Karla infatti un modo di comprendere e superare quello che è capitato è proprio lo svolgere la professione di oratrice funebre, che io nemmeno avevo idea esistesse, quando deve cercare le ultime parole con cui onorare una vita di una persona e dirle addio. La serie stessa, nella sesta e ultima puntata della prima stagione, più breve e frettolosa delle altre, e che volendo potrebbe con soddisfazione fungere da chiusura definitiva, cerca di lasciare noi con delle parole finali che possano dare sollievo, conforto, senso.

Che cos’è la morte? Una fine, un inizio, una porta? (1.04) La vita che abbiamo vissuto è stata la migliore che avremmo potuto vivere? Siamo stati veramente felici? (1.01) Quanto tempo ci vuole per conoscere veramente qualcuno (1.02)? Qual è il modo migliore per onorare la memoria di qualcuno? Si medita sul senso della morte, ma soprattutto per i vivi, per chi rimane. E l’idea ultima è che non c’è un modo giusto, o sbagliato, per portare un lutto. Tonio ad un certo punto (1.04) dice che si sente come “un divo in una zona di guerra che non deve sapere che c’è la guerra”. Die Trauerrede, l’elogio funebre, deve rendere giustizia al defunto, ma come celebrare la vita di un giovane uomo morto per incidente, che aveva comportamenti crudeli da serial killer in erba fin da bambino, e che è più facile amare da morto che da vivo (1.05)? Che funerale dare a una madre che ti ha sempre vessata e, nelle parole poco consone della protagonista che non ha peli sulla lingua, si è comportata da autentica stronza? Un funerale è per i vivi: chi ha più diritto di dire la propria sul modo in cui è più giusto salutare la persona amata?

Non tutto è perfetto – la moglie di Borowski e la nonna sono state troppo macchiette – ma Das Letzte Wort ha ragionato con spessore, ma anche con la giusta leggerezza, su temi difficili costruendo solidi personaggi e credibili rapporti fra loro. Ancora non c’è voce di una seconda stagione, ma mi auguro davvero che Netflix voglia aspettare ancora qualche stagione prima di fare il funerale alla serie.