mercoledì 13 maggio 2020

AFTER LIFE: doloroso ed esilarante



Brilliant: così mi sento di definire After Life, la più recente commedia scritta e diretta da Ricky Gervais (Derek, The Office), con due stagioni di 6 puntate ciascuna, su Netflix. Magnifica e intelligente. Dolorosa e umoristica. Specifica e universale.

Tony Johnson (Ricky Gervais) è infelice e suicidario dopo la morte per cancro della moglie Lisa (Kerry Godliman). Doversi prendere cura della cagna Brandy è l’unica cosa che lo spinge a non farla finita. Lavora per il Tambury Gazette, un giornale che racconta le vicende della gente comune del luogo, il cui direttore è suo cognato Matt (Tony Basden). Arrabbiato con il mondo e senza peli sulla lingua, cerca di trovare un senso alla propria vita con l’aiuto delle persone che lo circondano, fra cui i colleghi: il fotografo Lenny (Tony Way), l’addetta alla pubblicità Kath (Diane Morgan), la giornalista neoimpiegata Sandy (Mandeep Dhillon), l’addetta alla reception Valerie (Michelle Greenidge).  

La serie è costruita su una sequela di situazioni ricorsive in cui vediamo il protagonista meditare sulla condizione umana nel confronto con gli altri: interagisce spesso con frustrazione con i colleghi; chiacchiera con una vedova più anziana di lui che si ferma sempre su una panchina davanti alla lapide del defunto marito, Anne (Penelope Wilton, Downton Abbey); va a trovare il padre Ray (David Bradley) - che soffre di demenza e metà delle volte non lo riconosce e si trova in una casa di cura -, dove fa amicizia con l’infermiera Emma (Ashley Jensen, Catastrophe); cerca un conforto che non arriva dagli appuntamenti con lo psichiatra (Paul Kaye) suggeritogli dal cognato, che pure si avvale dei suoi servigi professionali; inscena piccole scaramucce con il postino Pat (Joe Wilkinson), che gli legge sempre le cartoline e non gli infila mai la posta nell’apposita fessura sulla porta; socializza castamente con una prostituta, una “professionista del sesso” come precisa regolarmente lei, Daphne “in arte” Roxy (Roisin Conaty) e per un periodo con Julian (Tim Plester), uno spacciatore, anche lui vedovo affranto. Quando è da solo in casa cerca di consolarsi guardando al computer spezzoni di vecchi homevideo dell’amata perduta.

E poi ci sono gli incontri con le minute, insignificanti, spesso patetiche realtà quotidiane degli abitanti che chiamano il giornale perché si scriva una storia su di loro, a partire da Brian (David Earl), una accumulatore compulsivo, che fa di tutto per comparire sulle pagine della Gazzetta e finisce poi per essere assunto per distribuirla. Nell’assurdità spesso ridicola di questi incontri, che Tony affronta con molto sarcasmo, in realtà emerge tanto dolore e sofferenza e vede che ciascuno di noi cerca di andare avanti come può.

Come è un classico per Gervais, il suo ateismo, quasi un tabù nello stato della televisione attuale, è dichiarato senza compromessi. Offre invece e incoraggia un umanismo che crede nel prendersi cura gli uni degli altri e nel fare del proprio meglio per il prossimo fino a che la morte non mette fine a tutto. Filosoficamente forse è un po’ banale, nel senso che il fare del bene non sempre può essere di così facile definizione, ma che ci sia consapevolezza anche di questo è lapalissiano.

Tony dà del denaro a Julian che gli dice esplicitamente che non averlo è l’unica cosa che lo trattenga dal togliersi la vita. Se lo avesse, comprerebbe droga a sufficienza da farla finita. Lui tira fuori il portafogli e gli dà il necessario. Il giorno dopo l’amico è morto per overdose. Tony ha fatto bene? Ha fatto male? Quando accenna al cognato che sapeva delle intenzioni di Julian, Matt lo minaccia di non fargli più vedere il nipote, se non nega quello che ha appena confessato, lui perciò lo nega. La serie è quindi ben consapevole di avere morali ambigue e non si preoccupa di dare una risposta o una soluzione – ed è meglio così – non di meno invita ad essere il miglior sé che si può, informato dalle proprie conoscenze e capacità e sensibilità, nel quotidiano, nel piccolo, in gesti di premura che mostrano considerazione. Nel vedere che Tony riserva tante piccole attenzioni ala fine della prima stagione (1.06) alle persone che nella vita lo circondano, come non commuoversi? Quello è il senso ultimo e la bussola morale del programma.

Sotto i riflettori è un “paese-famiglia” vagamente stilizzato e fatto anche di tante persone “ai margini”, che sprizzano umanità. È un’esistenza dolente, si medita sul lutto, sui modi di affrontare il dolore, sulla solitudine. Nella citazione di Frost che si mette sulle labbra di Tony alla fine della seconda stagione, di una sola cosa si può essere certi, che la vita continua. La cosa essenziale è esserci, con reciprocità, nella certezza  che per essere felici  “avere qualcuno da amare è tutto. Non serve altro”.

Ho poi notato con piacere una cosa di cui già mi avevano avvertita. Come anche chi non mi conosce di persona può sapere leggendo la mia breve nota biografica indicata in questo blog, soffro di encefalomielite mialgica / sindrome da fatica cronica (ME/CFS). E se ora non sono più severa, sono stata grave e molto grave per parecchi lustri. Gervais in passato nei suoi spettacoli comici ha ridicolizzato l’invalidante patologia di cui soffro, e ha portato danno alla comunità dei pazienti per questo, aumentando lo stigma. È stato ferocemente criticato da noi attivisti e una clip del suo monologo su di noi è finito anche nel documentario sulla patologia “Unrest”, di Jennifer Brea. Qui, risolleva la questione e quello che ha deciso di scrivere ha il sapore di una scusa e di una correzione.

Il protagonista (2.06) è chiamato a intervistare un cinquantenne che si identifica in una bambina di 8 anni, e come tale si veste. La moglie insiste che sta avendo un crollo nervoso, lui la accusa di essere transfobica. La vicenda tutta, anche con una scena successiva con la figlia di lui e con una conversazione con Lenny, è costruita in modo molto calibrato e rispettoso della comunità trans, credo. In ogni caso la moglie dell’uomo ritiene che sia solo una delle sue tante fasi, come quando appunto, dopo aver visto un documentario sulla ME/CFS ha passato un anno credendo di averla. Lui replica che era stato un incubo, che era stanco tutto il giorno. E quando lei l’apostrofa dicendo che è una stronzata, lui la incalza facendo presente che c’è molto fraintendimento e cinismo sulla malattia. Lei a quel punto ammette che è vero, solo che lui non ce l’aveva. Sono state alla fine poche battute, ma che per me e per molti hanno voluto dire tanto.  
  
Gervais è graffiante e spiazzante come sempre, ma non disumano, anzi acutamente consapevole di quello che ci rende tutti vulnerabili e per questo davvero brillante, oltre che immancabilmente esilarante.   

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