Brilliant: così mi sento di
definire After Life, la più recente
commedia scritta e diretta da Ricky Gervais (Derek, The Office), con
due stagioni di 6 puntate ciascuna, su Netflix. Magnifica e intelligente.
Dolorosa e umoristica. Specifica e universale.
Tony Johnson (Ricky
Gervais) è infelice e suicidario dopo la morte per cancro della moglie Lisa
(Kerry Godliman). Doversi prendere cura della cagna Brandy è l’unica cosa che
lo spinge a non farla finita. Lavora per il Tambury Gazette, un giornale che
racconta le vicende della gente comune del luogo, il cui direttore è suo
cognato Matt (Tony Basden). Arrabbiato con il mondo e senza peli sulla lingua,
cerca di trovare un senso alla propria vita con l’aiuto delle persone che lo
circondano, fra cui i colleghi: il fotografo Lenny (Tony Way), l’addetta alla
pubblicità Kath (Diane Morgan), la giornalista neoimpiegata Sandy (Mandeep
Dhillon), l’addetta alla reception Valerie (Michelle Greenidge).
La serie è costruita su
una sequela di situazioni ricorsive in cui vediamo il protagonista meditare
sulla condizione umana nel confronto con gli altri: interagisce spesso con
frustrazione con i colleghi; chiacchiera con una vedova più anziana di lui che
si ferma sempre su una panchina davanti alla lapide del defunto marito, Anne
(Penelope Wilton, Downton Abbey); va
a trovare il padre Ray (David Bradley) - che soffre di demenza e metà delle
volte non lo riconosce e si trova in una casa di cura -, dove fa amicizia con l’infermiera
Emma (Ashley Jensen, Catastrophe);
cerca un conforto che non arriva dagli appuntamenti con lo psichiatra (Paul
Kaye) suggeritogli dal cognato, che pure si avvale dei suoi servigi
professionali; inscena piccole scaramucce con il postino Pat (Joe Wilkinson), che
gli legge sempre le cartoline e non gli infila mai la posta nell’apposita
fessura sulla porta; socializza castamente con una prostituta, una
“professionista del sesso” come precisa regolarmente lei, Daphne “in arte” Roxy
(Roisin Conaty) e per un periodo con Julian (Tim Plester), uno spacciatore,
anche lui vedovo affranto. Quando è da solo in casa cerca di consolarsi
guardando al computer spezzoni di vecchi homevideo dell’amata perduta.
E poi ci sono gli
incontri con le minute, insignificanti, spesso patetiche realtà quotidiane degli
abitanti che chiamano il giornale perché si scriva una storia su di loro, a
partire da Brian (David Earl), una accumulatore compulsivo, che fa di tutto per
comparire sulle pagine della Gazzetta e finisce poi per essere assunto per
distribuirla. Nell’assurdità spesso ridicola di questi incontri, che Tony
affronta con molto sarcasmo, in realtà emerge tanto dolore e sofferenza e vede
che ciascuno di noi cerca di andare avanti come può.
Come è un classico per
Gervais, il suo ateismo, quasi un tabù nello stato della televisione attuale, è
dichiarato senza compromessi. Offre invece e incoraggia un umanismo che crede
nel prendersi cura gli uni degli altri e nel fare del proprio meglio per il
prossimo fino a che la morte non mette fine a tutto. Filosoficamente forse è un
po’ banale, nel senso che il fare del bene non sempre può essere di così facile
definizione, ma che ci sia consapevolezza anche di questo è lapalissiano.
Tony dà del denaro a
Julian che gli dice esplicitamente che non averlo è l’unica cosa che lo
trattenga dal togliersi la vita. Se lo avesse, comprerebbe droga a sufficienza
da farla finita. Lui tira fuori il portafogli e gli dà il necessario. Il giorno
dopo l’amico è morto per overdose. Tony ha fatto bene? Ha fatto male? Quando
accenna al cognato che sapeva delle intenzioni di Julian, Matt lo minaccia di
non fargli più vedere il nipote, se non nega quello che ha appena confessato,
lui perciò lo nega. La serie è quindi ben consapevole di avere morali ambigue e
non si preoccupa di dare una risposta o una soluzione – ed è meglio così – non
di meno invita ad essere il miglior sé che si può, informato dalle proprie
conoscenze e capacità e sensibilità, nel quotidiano, nel piccolo, in gesti di
premura che mostrano considerazione. Nel vedere che Tony riserva tante piccole
attenzioni ala fine della prima stagione (1.06) alle persone che nella vita lo
circondano, come non commuoversi? Quello è il senso ultimo e la bussola morale
del programma.
Sotto i riflettori è un “paese-famiglia”
vagamente stilizzato e fatto anche di tante persone “ai margini”, che sprizzano
umanità. È un’esistenza dolente, si medita sul lutto, sui modi di
affrontare il dolore, sulla solitudine. Nella citazione di Frost che si mette
sulle labbra di Tony alla fine della seconda stagione, di una sola cosa si può
essere certi, che la vita continua. La cosa essenziale è esserci, con
reciprocità, nella certezza che per
essere felici “avere qualcuno da amare è
tutto. Non serve altro”.
Ho poi notato con piacere
una cosa di cui già mi avevano avvertita. Come anche chi non mi conosce di
persona può sapere leggendo la mia breve nota biografica indicata in questo
blog, soffro di encefalomielite mialgica / sindrome da fatica cronica (ME/CFS).
E se ora non sono più severa, sono stata grave e molto grave per parecchi
lustri. Gervais in passato nei suoi spettacoli comici ha ridicolizzato l’invalidante
patologia di cui soffro, e ha portato danno alla comunità dei pazienti per
questo, aumentando lo stigma. È stato ferocemente criticato da noi
attivisti e una clip del suo monologo su di noi è finito anche nel documentario
sulla patologia “Unrest”, di Jennifer Brea. Qui, risolleva la questione e quello
che ha deciso di scrivere ha il sapore di una scusa e di una correzione.
Il protagonista (2.06) è
chiamato a intervistare un cinquantenne che si identifica in una bambina di 8
anni, e come tale si veste. La moglie insiste che sta avendo un crollo nervoso,
lui la accusa di essere transfobica. La vicenda tutta, anche con una scena
successiva con la figlia di lui e con una conversazione con Lenny, è costruita
in modo molto calibrato e rispettoso della comunità trans, credo. In ogni caso
la moglie dell’uomo ritiene che sia solo una delle sue tante fasi, come quando
appunto, dopo aver visto un documentario sulla ME/CFS ha passato un anno
credendo di averla. Lui replica che era stato un incubo, che era stanco tutto
il giorno. E quando lei l’apostrofa dicendo che è una stronzata, lui la incalza
facendo presente che c’è molto fraintendimento e cinismo sulla malattia. Lei a
quel punto ammette che è vero, solo che lui non ce l’aveva. Sono state alla
fine poche battute, ma che per me e per molti hanno voluto dire tanto.
Gervais è graffiante e
spiazzante come sempre, ma non disumano, anzi acutamente consapevole di quello che
ci rende tutti vulnerabili e per questo davvero brillante, oltre che
immancabilmente esilarante.
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