In un momento storico come
questo, in cui si è assistito negli Stati Uniti ad un’impennata di razzismo nei
confronti dei cinesi specificatamente e degli orientali in senso ampio, è
magnifico vedere una nuova serie che ha come eroina una grintosa giovane donna
proprio di origine cinese. È la prima serie drammatica di un network
statunitense ad avere un cast prevalentemente asiatico, e viene da dire che era
anche ora. Kung Fu, di cui è protagonista, che ha debuttato il 7 aprile
sull’americana The CW ed è per ora inedita in Italia, non è tanto un roboot
dell’omonima serie degli anni 70, quando una vera e propria re-immaginazione
delle vicende, a partire da una premessa similare. Va però per la sua strada. Avrò
anche seguito l’originale con David Carradine più di trent’anni fa, ma sono
piuttosto certa che non prevedesse una spada magica. C’è un influsso de La
Tigre e il Dragone, come è stato notato.
SPOILER SUL PILOT. Nicky Chen
(Olivia Liang) è una ragazza che viene mandata dalla madre in Cina: in teoria
per conoscere la cultura delle sue origini, in realtà per trovare un marito.
Lei, che non è intenzionata, scappa e si rifugia in un monastero shaolin di
giovani donne guerriere dove trascorre tre anni ad imparare il Kung Fu,
mollando così di fatto università, ragazzo e famiglia.
Un giorno vengono
attaccati, tutto viene bruciato, e una ribelle, Zhilang (Yvonne Chapman) uccide
Pei Ling (Vanessa Kai), la sua shifu,
rubando una spada che in seguito scoprirà avere presunte proprietà magiche.
Decisa a vendicare la memoria della sua maestra traovando la colpevole, decide
di tornare nella nativa San Francisco ripresentandosi senza preavviso alla sua
famiglia d’origine. La madre Mei-Li (Kheng Hua Tan) la accoglie dicendo che sua
figlia è morta tre anni prima. Sono imminenti le nozze della sorella Althea
(Shannon Dang), una vera esperta di computer, con Dennis (Tony Chung), mentre
il fratello Ryan (Jon Prasida), aspirante medico, le rinfaccia che ha dovuto
fare coming out da solo un anno prima con i genitori, visto che lei se ne era
andata privandolo del suo sostegno (era l’unica che sapesse che era gay). Il
padre Jin (Tzi Ma, The Farewell), proprietario e cuoco di un ristorante,
viene pestato da degli strozzini collegati alla Triade,
che vogliono da lui una grossa somma di denaro. Nicky, forte delle sue abilità
di lottatrice, decide di assicurare alla giustizia questi criminali, anche con
l’aiuto del suo ex Evan (Gavin Stenhouse), ora assistente procuratore
distrettuale, che nel frattempo si è trovato un’altra ragazza. Nicky, al suo
ritorno, conosce anche Henry (Eddi Liu) un appassionato di arti marziali e sinologia,
che l’aiuta a indagare su questa misteriosa spada, che le rivela essere uno di otto
oggetti che daranno grande potere a chi li possiede.
Dal pilot di questo terzo
tentativo di riportare Kung Fu sugli schermi televisivi, sviluppato da
Christina M. Kim, abbastanza esplicativo e diretto nel dichiarare le proprie
premesse, sembra che non mancheranno avventure gradevoli e piene di
coreografiche scene di combattimento, di una volitiva giovane donna che intende
combattere il crimine e le ingiustizie che vede, farcite un po’ con una storia
pseudo-mitologica e con una missione videogioco di ritrovamento di manufatti,
qualche spruzzata di romanticismo qui e lì e (benvenuti) semi di cultura
cinese. Qualcuno si è lamentato che fa troppo affidamento sul rallenty
nelle scene di combattimento, ben coreografate, ma a me non è dispiaciuto. Nulla
di male, è una serie d’azione come tante, solo, non è Kung Fu.
Certo, quando tocca la
spada per la prima volta, la protagonista si ustiona la mano. Si ripensano ai
marchi che aveva Caine… Ma lì, c’era proprio la lezione ultima imparata dall’allievo,
che rinchiuso, per aprirsi la porta e non morire, doveva spostare con le
proprie braccia un pentolone rovente, rimanendo così marchiato a vita con il
simbolo della scuola.
Quello che rendeva
speciale le vicende di Caine era la filosofia e l’etica che guidavano il suo comportamento,
appresi negli anni del monastero. Nell’originale, le lezioni imparate dal
maestro cieco Po (Keye Luke) e dal maestro Kan (Philip Ahn) venivano illustrate
attraverso dei flashback e attraverso il ricordo si capiva come informavano le
azioni del presente. Lui, un monaco a tutti gli effetti per quanto in fuga, era
una persona molto mite, ora adulta, che viveva comunque la spiritualità che gli
era stata insegnata. Qui, tutto questo non c’è, e dal pilot sembra che non ci
sarà. È vero, Nikki ha come delle “visioni” della sua mentore - non
da “matta”, diciamo che immagina la sua presenza e i suoi insegnamenti e noi la
vediamo fisicamente come vicina a lei - che
la guida: “crei il sentiero che vivi”, “la fede rende l’impossibile possibile”…
Però fuori da qualche massima buttata lì non si capisce nemmeno quale possa
essere l’apprendimento morale e spirituale, di vita, che ha fatto suo e che l’ha
trasformata. È come se ne avesse una conoscenza istantaneo-Bignami, e fosse diventata
questa lottatrice che lascia stupito chi la vede, ma tutto è rimasto molto
superficiale. Ho trovato molto più pregnante la conversazione con la madre che
le rammenta che non è sufficiente dire “scusa” per cancellare tutto d’incanto,
che non le pillolette di saggezza della sua Shifu. Questo è il delitto in una
serie che richiama un illustre antecedente di cui poteva fare a meno: è
un’altra cosa, e va bene che sia così. Un pilot però è solo un pilot, e magari
avrò occasione di ricredermi, ma non posso negare che questa sia stata una
delusione. Non è quello che cerco, quando mi accosto a quel titolo.
Intanto, secondo quanto scriver l’Hollywood Reporter (qui) “Kung Fu ha debuttato con 1.4 milioni di spettatori e un rating di 0.22 tra gli adulti 18-49. È l’audience più grande per la CW nella fascia oraria delle 20.00 in quasi due anni e mezzo”.
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