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martedì 5 dicembre 2023

LESSONS IN CHEMISTRY: fantasia femminista anni '50-'60

Tratto dall’omonimo romanzo di Bonnie Garmus, che non ho letto, Lessons in Chemistry – Lezioni di Chimica solleva molte questioni di rilevanza anche attuale, travestite da fantasia femminista di riscatto dall’opprimente cultura degli anni ’50-’60, periodo in cui è ambientato. Non riesce in definitiva ad elevarsi da quest’ultimo aspetto e da risultare realmente memorabile o incisivo, ma offre ugualmente spunti interessanti in una gradevole confezione. 

ATTENZIONE SPOILER

Siamo degli Stati Uniti. Protagonista è Elizabeth Zott (Brie Larson), una chimica che in quanto donna viene relegata a ruoli umili nel laboratorio Hastings dove lavora come tecnica, pur essendo più brillante di molti colleghi maschi. Questo finché non incontra l’appoggio di un chimico, Calvin Evans (Lewis Pullman), un tipo molto eccentrico che i colleghi sopportano solo perché è finito sulla copertina di Scientific American per le sue ricerche.  Insieme decidono di studiare l’abiogenesi. Si innamorano, sono travolti da una deliziosa storia romantica, e decidono di vivere insieme. Sono sul punto di pubblicare quando lui, fuori a correre come al suo solito insieme al cane Seiemezza (la puntata 1.03 viene narrata dalla sua prospettiva), viene investito da un veicolo e muore (1.02). Lei viene licenziata, e dei loro studi si appropria qualcun altro. Si scopre incinta. Un po’ l’aiuta la vicina di casa Harriet Sloane (Aja Naomi King), un’avvocata che si sta battendo perché non venga costruita un’autostrada demolendo il quartiere a prevalenza afro-americana in cui vivono, che conosceva Calvin. Dopo che nasce la figlia Madeline (Alice Halsey), detta Mad, vista la necessità economica e la sua bravura in cucina, campo in cui si è sempre dilettata applicandoci i principi della chimica e testando ogni nuova variabile nelle differenti versioni di uno stesso piatto, le viene offerta la conduzione di un nuovo programma televisivo, “Supper at Six” (Cena alle sei) che è subito un grande successo e ispira molte donne, non solo ai fornelli. Ha il sostegno di Walter Pine (Kevin Sussman, The Big Bang Theory), suo produttore che la supporta anche contro l’aperta ostilità del direttore di rete Phil Lebensmal (Rainn Wilson, The Office), e ha l’amicizia di Fran Frask (Stephanie Koenig), una delle segretarie del Hastings Research Institute che inizialmente la riprendeva sempre per il suo comportamento. Quando Mad comincia ad andare a scuola e deve fare il suo albero genealogico, emergono il passato della madre e del padre.

In questa miniserie sviluppata per AppleTV+ da Lee Eisenberg non so se per aderenza al testo che non ho idea se dica qualcosa in proposito, per scelta della sceneggiatura o della convincente attrice che la interpreta , la protagonista per la gran parte della narrazione non mi sembra una persona neurotipica. Nella diegesi non ci si esprime mai in questi termini, né si allude a qualcosa di simile con un linguaggio più appropriato all’epoca, ma se si esclude la puntata finale e pochi altri momenti, questa è l’impressione che mi dà. Forse la rigidità dovuta al comportamento preteso all’epoca, unita all’eccezionalità degli interessi del personaggio è tale da giustificare il suo modo di atteggiarsi, in realtà: me lo sono chiesto. Quello che mi ha irritato nel pilot, perché è la solita solfa, è che, a dispetto del suo messaggio esplicito, la serie inizialmente contrappone la protagonista alle altre donne e, per far emergere la sua brillantezza, fa sembrare un po’ stupide tutte le altre, e anche gli altri a dire il vero. E quello che la rende brava in cucina è il fatto che è una scienziata – “cucinare è chimica e chimica è vita” è un po’ il suo motto (1.05) -, quando per come la vedo io quello potrebbe fortemente anche essere il suo limite all’essere eccellente, e questo tristemente non passa come idea. C’è questa fasulla concezione che solo se c’è scienza alla base, allora qualcosa è geniale e meritevole: niente di più svilente dell’essere umano nella sua completezza. Questa è la mia maggiore obiezione valoriale al programma, che prevede una via alternativa solo in termini religiosi e non intellettuali, attraverso il confronto con le idee del reverendo Wakely primariamente (Patrick Walker).  

Di contro si affrontano molte importanti questioni: la lotta al patriarcato che schiaccia le potenzialità femminili, alle discriminazioni che valutano non la competenza, ma il gender o l’aspetto che hai, al sessismo, e la necessità dell’empowerment di donne che vengono da lei incoraggiate durante il suo programma a seguire i propri sogni (in un caso una donna aspira a diventare medico, ma non l’aveva mai preso nemmeno in considerazione come una possibilità realistica) e l’importanza di credere nelle persone, nell’avere qualcuno che ha fiducia nelle tue capacità e l’importanza di essere di ispirazione agli altri, anche quando questo rischia di essere visto come una minaccia; il fatto che cucinare non è divertimento o un hobby, è un un’attività vitale (1.05) e che prendersi cura delle persone amate comporta lavoro, vero lavoro (1.01); l’importanza del cibo, come catalizzatore dello sviluppo fisico della persona, e per il fatto che è famiglia, è comunità, è essenziale (1.04); la significatività di essere visti e ascoltati, di avere una piattaforma per farlo, perché quello che si dice lascia un’impronta, e anche quello che non si dice: è un antidoto a quella che Jill Stauffer chiamerebbe “la solitudine etica”, l'esperienza di essere abbandonati dall'umanità, inascoltati, nella dolorosa percezione di subire torti che non sono percepiti e riconosciuti; il ruolo della TV che la gente non guarda solo “perché è accesa”, come vuol farle credere il direttore di rete, ma perché ci si trovano contenuti rilevanti per le proprie vite, con il conseguente imperativo morale di non mentire agli spettatori, e di non trattarli da stupidi; e poi il leit motiv reiterato dell’inevitabilità dei cambiamenti, forse la sola costante della vita.

Queste in fondo sono le “lezioni” impartite dalla serie, che ci rimanda anche sempre a un testo letterario che la punteggia, Grandi Speranze di Dickens, il preferito di Calvin, sullo sfondo di una storia d’amore tragica perché finita troppo presto.

Deliziosa a mio gusto la sigla di apertura.

lunedì 17 ottobre 2011

PAN AM: hostess in volo negli anni '60


Sono belle, aggraziate, colte, plurilingue, e single. Sono le hostess della Pan Am, la compagnia aerea del telefilm dal titolo omonimo (sull’americana ABC dallo scorso 25 settembre), anno 1963: vengono scelte secondo rigidi criteri, pesate una volta arrivate al lavoro, attente che cappello e giarrettiera siano come si deve, e non devono sposarsi, altrimenti addio lavoro.
Sono Maggie (Christina Ricci), che è il commissario di bordo, ed è una donna che vuole poter vedere il mondo per poterlo cambiare; Colette (Karine Vanasse), una ragazza francese che scopre nel pilot di aver avuto, inconsapevolmente, una relazione con un uomo sposato; Kate (Kelli Garner) che, in un’epoca di guerra fredda, lavora anche come spia per la CIA, complice la possibilità di spostarsi agevolmente da un luogo all’altro, e che sostituisce un’altra hostess che aveva il suo stesso ruolo, Bridget (Annabelle Wallis); e Laura (Margot Robbie), la sorella di Kate, che il giorno delle nozze, scappa con ancora su l’abito bianco per seguire la sorella e lasciarsi alle spalle, idealmente per tutte, la vita della generazione precedente alla sua, per cui il matrimonio era la sola opzione possibile. Sono un po’ delle pioniere, accanto al giovane pilota di Boeing 707, Dean (Jonah Lotan), da poco promosso capitano e nel pilot – parola più che mai appropriata - al suo primo volo internazionale, e al suo primo ufficiale Ted (Michael Mosley).
La serie, ideata da Jack Orman (ER), così come The Playboy Club questa stagione, ha inteso capitalizzare sul successo di Mad Men e guardare al passato, in un momento di storici cambiamenti. Per l’accuratezza in questo senso si conta anche su una delle produttrici esecutive, Nancy Hult Ganis, che ha svolto quel lavoro alla fine degli anni ’60. Lo si fa in questo caso con senso di nostalgia, con entusiasmo, con un certo senso epico anche. Dopotutto si dice che chi vola Pan Am non si sposta solo, va da qualche parte. Le storie sono gradevoli, ma condivido l’osservazione di Slate che c’è una sorta di “gioia aggressiva” nelle vicende, costruite anche attraverso dei flashback che raccontano il recente passato delle protagoniste.  
Nella prima puntata Laura viene ammirata da tutti perché il suo volto è apparso sulla copertina della rivista “Life”, a rappresentare la compagnia aerea. Una delle colleghe osserva che quella è solo l’apparenza, la fantasia di quello che loro sono e fanno (il glamour, il jet-set, la vita indipendente e “liberata”). Quell’immagine è quello che rappresentano più che non la realtà. Lo stesso si può dire della serie, che alla fine sembra “ritoccata”, un’illusione,  uno spot. La regia di Thomas Schlamme (The West Wing) nel pilot enfatizza questa sensazione. Prima vediamo le quattro hostess camminare come una squadra, una accanto all’altra. Poi, impeccabili nella loro uniformi blu, entrano in aereo in fila indiana, in modo quasi marziale, determinato e professionale. L’ultima si gira e fa un occhiolino: lo fa a una bimba che le guarda incantata. Lo fa alle generazioni future che anche grazie a loro possono sognare una vita diversa. Sembra una pubblicità.  

lunedì 26 settembre 2011

THE PLAYBOY CLUB: privo di ispirazione


È completamente privo di ispirazione The Playboy Club, la serie sulle conigliette di Playboy ambientata nella Chicago dei primi anni ‘60, che ha debuttato sulla NBC lo scorso 19 settembre. Nel pilot vengono mostrate un po’ le ragazze – Maureen (Amber Heard), Janie (Jenna Dewan), Alice (Leah Renee), Brenda (Naturi Naughton) e la coniglietta-madre Carol-Lynne (Laura Benanti) – anche se non vengono nemmeno messe a fuoco a sufficienza da distinguerle troppo bene le une dalle altre, ad eccezione di bunny Maureen. Nell’insipida prima puntata Maureen viene aggredita da un avventore che vuole provarci, si difende, interviene un altro degli uomini che hanno la chiave del club, il piacente avvocato Nick Dalton (Eddie Cibrian, Sunset Beach, CSI Miami), che la difende. Ci scappa il morto, che purtroppo per lei era un boss della mala – la sua dipartita, lo concedo, è stata originale, lo stiletto di uno dei tacchi di lei gli si è infilato dritto dritto nella carotide. Il resto della scena non ha avuto senso: perché mai, visto che il suo scopo era quello di amoreggiare con la ragazza, avrebbe dovuto continuare ad aggredirla una volta che è entrato un altro uomo? Non mi ha convinto, come molto del resto di questa serie che vorrebbe emulare Mad Men, ma non ci arriva vicino nemmeno per sbaglio, e dove il povero Nick Dalton è già avvilito in partenza dalla critica come un’imitazione mal riuscita di un Don Draper di serie B. La serie è priva di immaginazione, ha un  dialogo piatto e non coinvolge.
Tim Goodman sull’Hollywood Reporter ha messo il dito sulla prima evidente piaga, il fatto che lo show mina alla base quello che strombazza di voler fare, ovvero di voler mostrare il club come un luogo di empowerment femminile. Ora, che lo sia è discutibile – Slate suggerisce di rileggersi un illuminante classico articolo di  Gloria Steinem in proposito, “I was a Playboy Bunny” -, ma non credo che sia necessariamente falso. Certo, dal programma non si evince di sicuro. La prospettiva femminile praticamente non c’è. All’esordio e in chiusura c’è un voice over di Hugh Hefner. Nell’incipit dice che ha ideato un luogo dove tutto era perfetto, la vita era magica e le fantasie diventavano realtà per tutti quelli che attraversavano la porta d’ingresso. Ehm… per gli uomini forse, dubito per quelle che ci lavoravano. E in seguito viene ripreso il concetto dicendo che era il solo posto al mondo dove poter essere chi si voleva essere. Se sei pagato per essere la fantasia di qualcun altro, non direi che puoi essere quello che vuoi. Ad un certo punto della storia, Nick mantiene l’espressione imperturbabile di sempre, ma la Maureen di cui sopra ha la faccia lunga perché ha appunto appena ucciso un uomo e con l’aiuto di Dalton ha fatto un salsicciotto avvolto in catene del cadavere e lo ha buttato in acqua. Una collega le chiede se stia bene. Lei risponde in un qualche modo vagamente evasivo e di tutta risposta la collega le chiede se vuole che le passi un Tampax. Perché chiaramente una donna crede che i soli problemi di un’altra donna siano legati al ciclo mestruale. Questa scena, se ce ne fosse stato bisogno, ha completamente seppellito la serie per me.
Un altro grande problema di questo telefilm ideato da Chad Hodge (Tru Calling) è che in teoria le conigliette dovrebbero rappresentare una fantasia maschile appagata, in qualche maniera, ma da qui non si direbbe. Per prima cosa, non ci sono sessualità e sensualità. La serie non solo non mostra nulla, cosa che può anche ben essere una scelta estetica legata anche all’epoca messa in scena,  ma nemmeno ammicca. Se dovessi basarmi sui primi 45 minuti direi che queste conigliette non fanno altro che servire ai tavoli, cantare e vendere sigarette. Che cos’è che le rende speciali? Che cosa fa sì che siano una specie di sogno desiderabile? Non solo non c’è prospettiva femminile, non c’è nemmeno prospettiva maschile in questo senso. In che cosa consiste quel quid che le rende un modo a parte? Personalmente non ho mai avuto simpatia per l’immagine di quello che rappresenta la coniglietta di Playboy. Trovo deliziosamente seducente, anche nella sua vaga innocenza, il look con le morbide codine pelose tonde e il cerchietto con le orecchie che mi fanno molta simpatia, ma l’idea che ho è quella di ragazze giovani, belle, formose e disponibili che come solo altro requisito devono non dico essere (non credo che lo siano necessariamente), ma sicuramente sembrare oche. Da un punto di vista intellettuale, una bunny me la figuro insomma come una sorta di anti-geisha. Questa è la mia idea, che magari è uno stereotipo falso – l’articolo della Steinem ad esempio, in parte lo conferma, in parte lo smentisce. Se non corrisponde alla realtà, vorrei sapere: qual è invece l’ideale incarnato dalle conigliette? Se invece corrisponde alla  realtà, vorrei sapere: che cos’è che cercano gli uomini in una donna di questo tipo, che tipo di desiderio appaga? In che cosa consiste appunto la fantasia? La serie non solo non risponde alle domande, nemmeno se le pone. Manca eccitazione.
Perfino l’idea che queste ragazze costituiscono una sfida ai mores sessuali dell’epoca e magari aiutano a rivoluzionarli manca completamente. Niente è problematicizzato, e non intendo lo star lì con aria metidabonda a riflettere sulle questioni della vita, ma lasciar intendere che c’è qualcosa dietro alla facciata. Ho contato tre volte - ma magari sono meno o più, non ci metto la mano sul fuoco – in cui viene menzionato il fatto che le ragazze devono sorridere. Un sorriso: bastava una cosa come questa, che ci fosse una delle bunny che non avesse voglia di sorridere e che in qualche modo facesse capire che le toccava farlo lo stesso, che il suo mondo non era tutto una favola, che il fatto di guadagnare tanti soldi aveva un prezzo. Non c’è alcuna emozione, alcun coinvolgimento invece.
E non parliamo nemmeno dell’epoca messa in scena, rappresentata in modo completamente inverosimile: Brenda è una coniglietta nera, la sola nell’ambiente, che ha meno problemi nei rapporti coi bianchi di quanto probabilmente non ne avrebbe nel 2011. Aspira al paginone centrale di Playboy e, indicando le sue generose tette, dichiara che contro di quelle non si discrimina. Magari. Temo proprio che la realtà fosse ben diversa. All’epoca in cui è ambientato il telefilm non sono passati nemmeno 10 anni dalla sentenza Brown v. Board of Education e del superamento della vincolatività di Plessy v. Ferguson, ovvero dalla fine ufficiale della segregazione razziale. E Dalton a un certo punto fa una battuta a senso omoerotico verso un altro del club. Direi che non era proprio un’epoca in cui fosse così liberi in questo senso. Il qualche caso direi che non lo si è ora, figurarsi negli anni ’60. The Playboy Club insomma non ha nemmeno i requisiti minimi indispensabili per essere vagamente accettabile.