Basata su storie vere, già raccontate sulla
rivista Epic, ogni puntata di Little America (Apple TV+) racconta, in
modo potente e delicato insieme, le vicende di un diverso immigrato negli Stati
Uniti. Storie di aspirazioni e riscatto, di resilienza, grinta e
determinazione, di isolamento e di solitudine, e del grande sogno americano,
quello di farcela a dispetto di tutto, quello di realizzare i propri sogni.
C’è il ragazzino indiano,
Kabir (Suraj Sharma), che si deve crescere da solo, perché i genitori senza il
permesso di soggiorno vengono rispediti nel proprio Paese, che gestisce un
motel (1.01); la ragazza messicana, Marisol (Jearnest Corchado), che vive in un
garage e per un paio di scarpe gratuite si iscrive a un corso di squash finendo
per diventare una grande campionessa (1.02); il nigeriano Iwegbuna
(Conphidance) che, andato a studiare economia e intenzionato a tornare dopo la
laurea, rimane a seguito di un colpo di stato militare nel suo Paese (1.03); la
francese Sylviane (Mélanie Laurent) che inaspettatamente trova l’amore in un
ritiro del silenzio buddista (1.04); l’ugandese Beatrice (Kemiyondo Coutinho) che
diventa la signora dei biscotti (1.05); la cinese Ai (Angela Lin) che vince una
crociera in Alaska (1.06); l’iraniano Faraz (Shaun Toub) che contro ogni buon
senso compra un terreno su cui c’è un’enorme roccia con l’obiettivo di
costruire la casa dei suoi sogni (1.07); il siriano gay Rafiq (Haaz Sleiman) a
cui il padre ha ustionato il braccio perché provi per un minuto quello che
all’inferno proverebbe per l’eternità, nell’intento di proteggerlo (1.08), per
cui il solo fatto di essere in America è il successo, perché significa la
libertà di essere se stesso.
Tutte le storie sono
commoventi, ma una delle scene più strazianti dell’anno (ho attivamente
singhiozzato) è quella della cinese Ai (1.06), che sulla nave dove è in vacanza
con i figli canta un bravo al karaoke, mentre attraverso dei flashback della
sua infanzia assistiamo a una vita segnata dagli abbandoni che ci illumina sul
suo comportamento attuale. La puntata è
scritta e diretta da Tze Chun, figlio della donna della vita reale a cui è
ispirata.
Le puntate hanno la
sigla che visivamente ha delle variazioni, ma soprattutto cambia ogni volta
musica, con canzoni legate alla nazionalità del personaggio di cui si tratterà,
il cui nome appare sullo schermo nel corso della diegesi. E la persona che lo
ha ispirato chiude ogni singolo episodio con delle indicazioni su che cosa ne è
stato poi di quella persona.
Ideata da Lee Eisenberg,
Emily V. Gordon e Kumail Nanjiani (Silicon
Valley) è una raccolta di racconti che per alcuni versi si appoggia
sull’inossidabile tropo del forestiero che sfonda grazie al proprio talento, ma
qui è tenuta al minimo indispensabile, sia perché mostra spesso l’ordinarietà
dei progetti dei coinvolti, sia perché non nasconde la fatica e i sacrifici per
raggiungerli. Si dice che una cosa valga per quello che ti è costato ottenerla.
Sulla base di questo principio proprio questo si mostra qui: quanto valore
abbiamo risultati apparentemente minori e quanto significato e umanità c’è in
gesti e comportamenti che a non conoscerne il passato non hanno chissà quale
rilievo.
A commuovere per empatia
o a far ridere sono proprio i dettagli minimi, e le difficoltà sono talvolta gli
sforzi di scontrarsi con una realtà così diversa dalla propria: è Iwegbuna
(1.03) che da bimbo guarda in piazza i film western e quando deve integrarsi si
veste come un cowboy - fa carriera universitaria impressionando il proprio
professore, di cui diventa assistente, riferendo al proprio Paese il modello
Corden-Neary, ma non riesce ad adattarsi a pasteggiare con gli hamburger che
trova immangiabili così pieni di salse, e gli manca il casalingo fufu.
Anche registicamente la
serie regala bei passaggi. Ho apprezzato come è stato reso il trascorrere del
tempo, quando i personaggi si vedono crescere, ad esempio, o nell’espediente
nel mostrare al contempo il distacco e il contatto con la famiglia d’origine nel
far vivere al personaggio i suoi familiari davanti ai suoi occhi come se
fossero lì quando in realtà li sente solo di voce attraverso delle
audiocassette.
Sono stata negli USA
l’anno scorso, a San José. Ogni volta che prendevo un Uber mi imbattevo in una
nazionalità differente. Era un mini-mondo. Non tutte le zone degli USA sono
altrettanto variegate, ma si sa che gli Stati Uniti sono un melting pot. Troppa TV mostra solo WASP,
bianchi anglo-sassoni protestanti. Il “regime scopico” di cui si fa esperienza
attraverso il piccolo schermo sta per fortuna cambiando, in più modi, ma anche
perché supporta sguardi nuovi. In questo Little
America dà un contributo tanto antropologicamente sensibile quanto
eticamente necessario.
Questa serie antologica è stata confermata per una seconda stagione.
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