Il drink di una giovane
donna viene drogato e lei, priva di coscienza, viene violentata. Quando si
risveglia non ricorda quasi nulla. Fa denuncia dell’accaduto alla polizia, ma
alla fine dei conti è un nulla di fatto. Questo è in soldoni il nerbo attorno a
cui si costruisce la notevole I May
Destroy You (BBC1 – HBO), serie ideata e scritta da Michaela Coel (Chewing Gum), che interpreta anche il
ruolo principale di Arabella, una influencer di Twitter londinese che ha un
contratto con una casa editrice per scrivere un libro. È
proprio mentre si prende una pausa di un’oretta dal lavoro che le capita questo
devastante evento.
Non è sicuramente la
prima volta che in TV viene affrontato il tema delle bevande che vengono spiked ai fini di stupro, penso ad esempio a Veronica Mars che su questo argomento ha costruito un’intera
stagione. Qui suona più personale e crudo, e il tema del consenso si svolge in
un momento storico in cui c’è una crescente “sintonizzazione” collettiva sulla rape culture in senso ampio. Le puntate zig-zagano e riflettono su molti
aspetti connessi (infra) e
intersezionali (gender, orientamento e razza in primis), ma è nella finale che
illumina il percorso fatto, con una valenza fortemente metatesuale in
riferimento al ruolo della scrittura. Nel vedere la protagonista che febbrilmente
lavora al proprio libro spostando dalla parente i post-it che ne costituiscono
l’outline, si è assistito più nello
specifico in questo segmento a un poioumenon
- per utilizzare quel termine tecnico che indica un artefatto artistico che
racconta la storia della propria stessa creazione – che ce la mostra come una
narrazione intenta a scardinare le retoriche più usuali che nascono da queste
premesse.
Arabella, che non riesce
a ottenere giustizia dal canali ufficiali, perché la polizia non ha prove
sufficienti, finalmente (1.11) e inaspettatamente ricorda quello che è accaduto
e questa epifania la porta ad immaginare, contemporaneamente come scrittrice e
come vittima, delle storie che chiudano e diano un senso a quello che le è
accaduto: ora è una brutale, irrealistica ma catartica storia di vendetta, ora
è una storia di compassione per il carnefice, ora è l’immaginarsi un incontro
consensuale ed equilibrato. Alla fine nessuna di queste alternative è
convincente, quello che accade è che la vita continua, in un modo che non fa
rumore. Il “lieto fine” è avere successo grazie anche alla vicinanza e al
sostegno dei propri amici, qui Terry (Weruche Opia), un’aspirante attrice, e
Kwame (Paapa Essiedu).
Arabella non riesce più
a scrivere, ha comportamenti erratici e maleducati, i social ne fanno un’eroina
e la trasformano in una star, ma la demoliscono anche, è allo sbando, una
“diavola” (come allegoricamente la fanno vestire per Halloween) senza
direzione. Questi in parte sono gli effetti psicologici della violenza, perché
i danni non sono solo il sangue e le ecchimosi che le foto registrano su ginocchia,
inguine, testa, o le lacrime, e non sono solo nell’immediato. Ma in parte è
anche carattere: è un personaggio respingente. Si droga nella vita privata, ha
anche un ragazzo, Biagio (Marouane Zotti), che è un spacciatore italiano - e alcune scene sono girate ad Ostia –, ha
sotto il letto il “ricordo” di un aborto di cui si era dimenticata…ha un
passato complicato e spesso si comporta male, ma questo non significa che “se
la sia andata a cercare”. Le cose si mescolano, come nella realtà. E questo
confondere le acque, questa indeterminatezza di reazioni la rendono vivamente
umana.
Se la scotomizzazione (farmacologica
o psicologica che fosse) da parte della protagonista foraggia tentativi di
ricostruzione mnemonica dell’evento principale, il precipitato di quella stessa
rape culture che lo ha causato si
sostanzia in storie minori e orbitanti, che stratificano la riflessione. Si
parla di stealthing, quando un suo
partner sessuale toglie il preservativo senza che lei se ne avveda (1.04), ad
esempio. Kwame, gay, subisce pure lui un violenza sessuale da parte di un altro
uomo. (1.04). Quando accompagna l’amica
alla polizia, sente che “la gente non sa che cosa è un crimine e cosa non lo è,
e non lo denuncia” (1.05). Lui sta male per quello che ha subito, ma lui stesso
non è sicuro che quello che gli è accaduto sia infatti un crimine – c’è il
sessismo che fa credere che un uomo non possa essere violentato, che gli debba
piacere per forza. In cerca di superare l’esperienza va a letto con
una donna, per rivelarle solo dopo di esser gay (1.08) e perpetra lui stesso un
modello di disonestà che la ragazza non riesce a perdonargli. Pure, una giovane
donna che gestisce
un corso di auto-aiuto a cui Arabella partecipa, da ragazzina aveva accusato
ingiustamente di violenza carnale un compagno di classe. Alla fine della
puntata (1.06), scopriamo in modo sorprendente, agghiacciante, che lo aveva
“imparato dalla madre” che la aveva costretta a mentire sul proprio padre
accusandolo di molestie sessuali perché lei potesse ottenere la sola custodia
della figlia. Lei era troppo piccola per capirne le implicazioni e aveva ubbidito
a quello che la madre aveva chiesto di fare. Non mi pare che si vada nella
direzione del dire che le vittime diventano per forza carnefici (la letteratura
in proposito dice infatti che non è così), ma sicuramente si dice che certi
comportamenti sono appresi e perpetuati da assenza di onestà e di dialogo e di
mancanza di consapevolezza, e che il fondamento del cambiamento verso una
cultura più salubre è il consenso. Riguardano la sfera sessuale, ma sono
comportamenti che attengono ai rapporti di potere ed eventualmente al mancato
rispetto reciproco.
Bisogna dar credito
anche a una serie che riesce a rendere più audace un rapporto sessuale in cui
lei ha il ciclo mestruale, e il partner maschile si sofferma ad esaminare
affascinato un grumo di sangue, che non un menage a trois che avviene nella
stanza accanto.
Situazioni sgradevoli e
personaggi occasionalmente odiosi non la rendono una visione facile, ma non si
può negare che sia una visione pregnante, e una narrazione rilavante.
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