lunedì 2 novembre 2015

AMERICAN CRIME: crimine, società, razza, speranza, disperazione

 
È uno dei migliori debutti del 2015 la serie antologica dell'americana ABC American Crime, dalla pena di John Ridley (premio Oscar per 12 Anni Schiavo). La premessa è sufficientemente banale e usuale, ma è la realizzazione, su più livelli, che la rende un piccolo gioiello con uno svolgimento raffinato e multistrato e un finale coerente che comunque ha saputo sorprendere.
Siamo a Modesto, in California. Una giovane coppia viene brutalmente aggredita nella propria casa. Lui, un veterano, è rimasto ucciso mentre la moglie, che presumibilmente è stata aggredita sessualmente, è in ospedale in coma. Sono eventi che non vediamo, ma che sono la base su cui sono costruite le vicende a seguire. Vengono contattati i genitori. Quelli di lui non si vedono da tempo: il padre Russ Skokie (Timothy Hutton), aveva abbandonato la famiglia e aveva problemi di gioco d’azzardo, la madre Barb (Falicity Huffman) aveva dovuto crescere i figli da sola. Riemergono i fantasmi del passato e le amarezze, i rancori e i sensi di colpa di  un matrimonio effettivamente fallito. Sono bianchi. Vogliono giustizia per il figlio morto e in questo loro desiderio e nel risentimento della madre emergono sentimenti razzisti nei confronti dei possibili sospettati: afroamericani e ispanici. Si scontrano anche con i genitori di lei, Eve (Penelope Ann Miller) e Tom Carlin (W.Earl Brown) che vogliono solo che la figlia si riprenda e si butti alle spalle l’orribile vicenda subita. A poco a poco emerge che il figlio di Barb e Russ non viveva poi quella vita cristallina che la madre in particolare si ostina a credere nonostante tutto, e anche il rapporto con la sopravvissuta moglie non era così idilliaco.  
Uno dei sospettati del crimine è un nero con problemi di droga, Carter (Elvis Nolasco) con una ragazza bianca con dipendenze similari, Aubry (Caitlin Gerald). Si amano, ma le famiglie non vogliono che stiano insieme, né la sorella di lui Aliyah (Regina King, che per questo ruolo ha vinto l’Emmy) che, convertita all’Islam, cerca di difenderlo in ogni modo, né i genitori adottivi di lei, dalla cui influenza cerca da sempre di sfuggire, ferocemente infelice. Un altro sospettato, per aver fatto acquisti con la carta di credito del deceduto, è Hector, un “Latino” come si direbbe in inglese, un attore di origine ispanica, interpretato da Richard Cabral, che ha anche raccontato pubblicamente la sua storia di riabilitazione nella vita reale dopo che si era unito a una gang a 13 anni, è diventato dipendente dal crack a 15 ed è stato condannato a 3 anni di galera per tentato omicidio a 20 anni (si veda in proposito l’Hollywood Reporter). Nella finzione della storia è implicato involontariamente in conseguenza ad un’azione intesa ad eludere la soffocante educazione del padre Alonzo (Benito Martinez),  vedovo iperprotettivo, anche Tony (Johnny Ortiz) un giovane ispanico che si ritrova, con paura e ingenuità,  a fare i conti con la dura vita del carcere che lo risucchia in una vita che non vuole.  
Non è un giallo. Non arriviamo mai a una soluzione del crimine, che non sia solamente umana. Ci sono confessioni e sospetti, ma nessuna vera certezza. Quello a cui assistiamo è l’effetto di questo evento sulle vite delle persone coinvolte, trattato con realismo. Con tragico realismo. Si scava a fondo nella psicologia delle persone e uno strato dopo l’altro si rimuove la vernice esterna per penetrare nella vita dei personaggi lasciando che non siano solo vittime o solo criminali e che abbiano molti chiaroscuri e impliciti. Sono persone, animate da speranze e disperazioni, in un’endiadi emozionale che è un tema forte della serie, insieme a quella del perdono (come è evidente dalla chiusura della stagione che si apre con dei sermoni su questo tema di tre confessioni religiose diverse). La realtà non è lineare, ma complicata, e questo si riflette nella narrazione, che ha una forte coscienza sociale. La violenza, e l’impatto che ha avuto nella vita dei personaggi, è una lente per  indagare i rapporti razziali e sociali americani, per mettere a nudo il sistema che sottende a delitti e castighi. Si è paragonato questo programma a The Wire, sotto questo profilo. È una serie ambiziosa, con una cast straordinario in cui spiccano Huffman, Hutton e Martinez.  
Anche la scelta stilistica di regia ha presentato una originalità che, con un piccolo espediente, ha reso peculiare la rappresentazione che amplifica il senso di incertezza e mancanza di solidità di quello che si sta vivendo. Talvolta sull’audio di una scena c’è il video di brevi istanti di scene subito precedenti o subito successive, o il confine fra una scena e l’altra è “sbavato” con sovrapposizioni di audio e video l’una sull’altra. C’è un effetto spezzato che potrà sembrare di distrazione, ma è stato realizzato in modo efficace e potente. Come la serie tutta.

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