sabato 8 ottobre 2022

THE FIRST LADY: di scarso impatto

Eleanor Roosevelt (Gillian Anderson, e da giovane Eliza Scanlen). Betty Ford (Michelle Pfeiffer, e da giovane Kristine Froseth). Michelle Obama (Viola Davis, e da giovane Jayme Lawson). Sono queste le tre protagoniste della prima mandata della serie antologica The First Lady (Showtime, Paramout+ in Italia). Le loro storie si segmentano e si alternano mostrando parallelismo, con continui passaggi temporali e occasionali flashback: cambiano i tempi, ma il potere di quel ruolo non codificato ma innegabile, e di certe sfide, non cambia.

Non è stata di grande impatto questa serie di Aaron Cooley, con una sigla che a me ricorda quella di True Blood per il modo in cui è costruita, sia visivamente che musicalmente. C’è una ricerca accurata dei personaggi e delle epoche storiche, ma non riesce a essere veramente incisiva. Tutto è assai blando, anche quando le questioni affrontate sono di fatto scottanti. C’è giusto una patina femminista, anche se a volte è sembrata più di maniera che altro. Ci sono donne viste sia dal punto di vista personale, anche di percorso di crescita che le ha portate a essere chi sono, ma ho storto un po’ il naso quando in partenza è stato ribadito in più di una occasione che dovevano essere delle persone eccezionali per rivestire il ruolo che hanno avuto. Quello che è vero è che sono riusciti almeno in parte a mostrare la condizione delle donne attraverso una “prima donna” che le ha vissute in prima persona e ha aiutato, attraverso le proprie doti, ad avere un impatto sulla realtà che le circondava. “Le First Lady e i loro team sono spesso le avanguardie del progresso sociale in questo Paese" è quello che vogliono far credere, sia vero o meno come regola, attraverso le parole di Betty a Michelle in una lettera personale.

Se all’epoca di Eleanor alle persone di sesso femminile veniva chiesto solo di parlare di ricette e di pulizia della casa, lei ha saputo combattere diventando una voce (anche in senso letterale, con un programma radiofonico) in cui l’interna nazione potesse riconoscersi. La si vede sempre impegnatissima: tiene discorsi con la stampa, si oppone alla segregazione raziale, tontona chiunque pur di assicurare asilo a decine di ebrei in fuga dalla Germania nazista, ha un ruolo nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Betty, ammalatasi di cancro al seno (1.05), sceglie di rivelarlo a tutti, spingendo così molte persone a fare controlli medici che hanno salvato loro la vita. Lo stesso fa rispetto all’abuso di sostanze. Nello stabilire che cosa tenere privato e che cosa rendere pubblico, ha agito contro i suggerimenti anche pressanti dei consiglieri politici, cambiando in meglio la vita del Paese. Michelle, che dalla consulente scolastica era stata spinta a puntare più in basso nel proseguimento degli studi in quanto nera, nonostante i voti brillanti, decide di parlare a una cerimonia di diploma per fare la differenza una volta che può dire la sua, anche se questo è un rischio (1.08), si preoccupa di cibo ai poveri e violenza delle armi, di salute pubblica, e cerca di elevare il livello dello scontro… Seppur carismatiche possono usare la propria personalità per avere un impatto grazie al proprio ruolo, ma non possono agire a  piacimento perché i propri pensieri, il proprio modo di comportarsi e le proprie scelte, hanno un effetto amplificato sulla vita dei propri rispettivi mariti Franklin (Kiefer Sutherland, e da giovane Charlie Plummer), Gerald (Aaron Eckhartm, e da giovane Jake Picking), Barack (O-T Fagbenle, e da giovane Julian De Niro).

Il matrimonio degli Obama è stato mostrato come il più “idilliaco”, e viene da chiedersi se non sia perché ci sono contemporanei e non c’è altrettanto distacco e obiettività, o perché sia effettivamente così. Con le figlie Malia (Lexi Underwood) e Sasha (Saniyya Sidney) e anche con la madre Marian (Regina Taylor) hanno sempre mostrato una famiglia ideale. Voglio credere nella seconda ipotesi, dopotutto dubito che ci sarebbero problemi a ritrarre i Clinton come una coppia conflittuale, però viene naturale domandarselo. Non ci si fa troppi problemi ha mostrare la relazione saffica di Eleanor con la giornalista Lorena Hickok (Lily Rabe) in un’epoca in cui appariva contemporaneamente meno e più problematico di ora. La storia effettiva ci lascia un punto interrogativo in proposito, al di là delle ipotesi.  I problemi da farmaci e alcol di Betty Ford sono ben noti, ma c’è stato un che di intimo nel vedere la figlia Susan (Dakota Fanning) organizzare un’intervention perché andasse in una clinica a disintossicarsi.   

Guidati da una regia interamente affidata a Susanne Bier, abbiamo visto tutti attori di primordine, e tutti hanno fatto un lavoro più che dignitoso, quasi sbalorditivo per come hanno colto gli aspetti delle movenze o perfino dei tratti prosodici, si direbbe. Allo stesso tempo sono sembrati ingabbiati dal dover interpretare personaggi veramente esistiti e ben noti. Michelle Pfeiffer è quella che meno è caduta in questa trappola, dando una forza sorprendente ad una first lady forse meno conosciuta delle altre due. I corrispettivi maschili, i presidenti, sono stati relegati a ruoli di supporto come solitamente accade all’opposto. Non vi ho visto demascolinizzazione, ironica o meno, come hanno fatto altri, ma certo sono stati mostrati “sotto tono” o in momenti più tranquilli, meno leader, più compagni di vita.

Hilary Clinton, Jaqueline Kennedy, Laura Bush (per quest’ultima mi viene in mente il bellissimo libro American Wife, di Curtis Sittenfeld)… sono sicuramente diverse altre le first lady di cui si si sarebbe potuto parlare. La serie però non è stata rinnovata. In ogni caso già la prima stagione da sé può essere una visione gradevoe, ma più per fare una sorta di ripasso leggero su chi è chi e ha fatto che cosa, che non per grandi prospettive o rivelazioni o riflessioni. 

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