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mercoledì 16 ottobre 2024

THE CURSE: idiosincratico e cringy

“Che cos’è l’arte? Che cosa intende trasmettere?” The Curse (Showtime; Paramount+) si è posta costantemente questa domanda nel corso delle sue 10 puntate, in modo sia esplicito che no. Non è un caso che sia stata indicata da molti come uno dei migliori programmi del 2023. Asher (Nathan Fielder), uno dei tre protagonisti, se lo domanda una volta in più parlandone con la moglie Whitney (Emma Stone), molto incinta, nella season finale (1.10). Dà anche una risposta, dopo aver riflettuto su Mel Brooks, la ricezione a The Producers da parte degli spettatori ebrei e l’olocausto: qualche volta arte è spingersi fino all’estremo per provare la propria tesi.

SPOILER SULLA SEASON FINALE NEI PROSSIMI DUE PARAGRAFI

Antecedentemente ci sono due momenti terribilmente cringy, vera cifra stilistica dello show. Nel primo la coppia fa un collegamento video con un programma di cucina di Rachel Ray per promuovere un proprio programma televisivo, su cui hanno lavorato nel corso della stagione – seguirli mentre lo realizzano è stato il contenuto delle vicende della serie. Sorridono come idioti imbalsamati tutto il tempo mentre lei praticamente li ignora. Nel secondo Asher per rendere felice Whitney, che lo è quando riesce a rendere tali gli altri, decide di regalare una casa con un valore di 280.000-300.00 dollari ad Abshir (Barkhad Abdi), uno squatter a cui l’avevano in precedenza già comunque prestata e quest’ultimo non solo non sembra commosso come si aspettavano, ma ne è quasi infastidito, li lascia sulla porta non facendoli nemmeno entrare e la sola cosa di cui si interessa è chi pagherà le tasse di proprietà – loro naturalmente. Poi la serie fa esattamente quello che Asher dice che l’arte debba talvolta fare, in una delle finali più memorabili che io abbia mai visto. Geniale, surreale, kafkiana. Davvero arte.

Non sono sicura di aver capito il significato della conclusione scelta, che tesi voglia provare e come si integri con il resto della stagione, ma l’ho amata profondamente. La coppia dovrebbe essere a letto a riposare, ma quando si svegliano si rendono conto che, per qualche inspiegata ragione, che inizialmente ipotizzano legata al sistema pressorio dell’abitazione, lui è sul soffitto, con la faccia rivolta verso il pavimento. E non importa quanto cerchi disperatamente di scendere, la gravità lo spinge in alto. Whitney intanto comincia ad avere le contrazioni e all’opposto è letteralmente che striscia bocconi sul pavimento, preoccupati che le succeda altrettanto. Asher è appunto convinto che il fenomeno sia legato alla casa e cerca di uscire, ma si rende subito conto che non è così: se lo lasciano vola via, come un palloncino. Uscendo dalla casa vola in alto e viene trattenuto solo dai rami di un albero, a cui si aggrappa. Il miglior amico Dougie (Benny Safdie) pensa che sia in crisi per la paura di diventare padre, una cosa astratta di cui ancora non riesce a rendersi conto, e lo filma; i pompieri che intervengono lo credono matto e, invece di  fare come chiede, tagliano il ramo dell’albero per farlo cadere, e lui prende il volo, finendo oltre l’atmosfera terrestre, nello spazio remoto. Whitney in ospedale partorisce da sola un nel bambino che la riempie di felicità; Dougie piange per non aver creduto all’amico. Potente, folle, inspiegabile. Memorabile. Che senso ha?

Ma facciamo un passo indietro: Asher e Whitney Siegel vogliono mandare in onda un reality, “Fliplanthropy”, filmato dall’amico Dougie Schacter come autore e regista spesso incompreso, in cui riqualificano la zona economicamente depressa della comunità di Española, in New Mexico, ricca di cultura nativo-americana. Lo vogliono fare attraverso la propria società di sviluppo immobiliare costruendo nuovi modelli di casa, ecologicamente sostenibili, dando valore all’arte locale con una filosofia abitativa olistica. Vogliono aiutare la gente del posto, e vanno al di là di quanto anche può apparire ragionevole per farlo, ma vengono criticati per la gentrificazione dell'area. Si è straziati di imbarazzo a seguirne il processo creativo, dove il limite fra realtà e reality è costantemente ridefinito, ci sono inquadrature che danno il senso di spiare attraverso il buco della serratura e molte interazioni sono fatte a uso e consumo delle telecamere. Versano dell’acqua sugli occhi di una donna che sta morendo di cancro, con un po’ di mentolo perché siano arrossati per un effetto più realistico, per fingere lacrime di gratitudine perché hanno trovato un lavoro al figlio. Non si potrebbe essere più spietati nel mettere a nudo la compassione o la generosità puramente performative. O nel puntare il dito contro l’atteggiamento da “white savior” (salvatore bianco). Lui regala 100 dollari a delle bimbe che fanno le venditrici ambulanti di bevande gassate, ma come scena, poi li rivuole indietro, e da qui la maledizione, la “curse” del titolo da cui Nathan si sente perseguitato per molto del tempo. Era solo una challenge di TikTok, ma è vera perché ci credono?

Il confine fa realtà e finzione è continuamente rinegoziato, e non è un caso che a ideare il programma sia stato insieme a Safide proprio Filler, noto per programmi sperimentali come The Rehersal e Nathan for You in cui proprio questo spazio liminale viene costantemente e intelligentemente interrogato. Le puntate non sono tanto costruite su atti, quando su moduli che si susseguono. Le sorti incerte della produzione si alternano a quelle della loro vita personale: si mette in dubbio la sincerità di lei anche per le pratiche dei propri genitori, si demolisce la capacità umoristica di lui, un Dougie privo di scrupoli si incunea nel rapporto facendo temporaneamente credere che questo renderebbe la loro idea più drammaticamente appetibile ai network, ci si deve relazionare con vari interlocutori, fra cui un’artista del Pueblo Picuris di nome Cara Durand (Nizhonniya Luxi Austin) – tutte le scene con quest’ultima sono follemente geniali…Ansia, mortificazione, senso di inadeguatezza abbondano. 

Si tratta di un programma complesso, originalissimo e difficile da classificare anche se viene considerato una black comedy-drama thriller satirico. Non è una serie, di cui non è completamente esclusa una seconda stagione, che si guardi sempre con piacere. Ha scritto bene Daniel Fienberg su The Hollywood Reporter, quando ha detto che “è un luogo visceralmente sgradevole” da visitare e che la “serie ha affinato l'umiliazione e l'antipatia fino al limite del kink, e i vari malintesi e le intenzioni discutibili rendono difficile tifare per qualcosa in particolare, se non per l'incenerimento di molte delle nostre illusioni culturalmente condivise”. Indubbiamente sviscera in modo chirurgico il tema dell’autenticità ed è pregno di riflessioni. Affascinante, idiosincratico e da non perdere. 

mercoledì 14 febbraio 2024

FELLOW TRAVELERS: sull'amore e i condizionamenti sociali

È stata pregnante, toccante, romantica e sexy la miniserie Fellow Travelers – Compagni di Viaggio (Showtime – Paramount+) ed è riuscita anche a dare una prospettiva inusuale ad argomenti che già si sono visti trattati. Al centro delle vicende ci sono due uomini innamorati, fra gli anni ’50 del maccartismo più bieco e la fine degli anni ’80 che mostra il lato crudo dell’epidemia di AIDS, con continui passaggi fra presente (il 1986) e il passato, che per la gran parte viene seguito secondo un filo cronologico. Ad adattare per la televisione l’omonimo romanzo di Thomas Mallon è stato Ronald L. Nyswaner, già candidato al premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale di Philadelphia. La sigla mi ha richiamato musicalmente quella de L’Amica Geniale, e si compone di foto vintage di uomini gay che amoreggiano.

ATTENZIONE SPOILER

La lezione di fondo è che l’omofobia ha costretto generazioni di uomini (e donne, anche se qui hanno un ruolo molto marginale) a vivere nella paura; a mentire per sopravvivere, cosa che diventa perfino troppo facile se non hai altra scelta; a nascondere chi erano, a vergognarsene e a sentirsi in colpa, negando la verità del proprio io; a subire la condanna di una società che sindacava non tanto su con chi andassero a letto ma su chi amavano e chi frequentavano come amici e a negare per questo a se stessi l’amore, forza vitale ed essenziale. Quale tormento sia e a che conseguenze porti lo si vede e si dimostra.   

Nel 1952, Hawkins “Hawk” Fuller (Matt Bomer), in quegli anni con un look molto alla “Mad Men”, lavora per il governo, e più specificatamente per il senatore Wesley Smith (interpretato da Linus Roache e basato in parte su una persona reale, Lester C. Hunt), la cui figlia Lucy (Allison Williams) finirà per sposare. Crede della “completa libertà personale”, ma nasconde di essere omosessuale, perchè siamo in un’epoca in l’FBI ha un’Unità di Investigazione sui Devianti Sessuali e la polizia di Washington ha un programma di eliminazione delle perversioni sessuali perché, senza mezzi termini, gay e lesbiche vengono considerati tristi, malati e patetici. Incontra per caso Tim Laughlin (Jonathan Bailey, Bridgerton), che lui chiamerà “Skippy”, idealista, un po’ ingenuo, maccartista convinto, fedele cattolico. Si piacciono da subito e Hawk lo prende sotto la sua ala protettrice, trovandogli un lavoro e iniziandolo ai piaceri sessuali. Loro amico è Marcus Gaines (Gelani Alladin), un veterano di guerra ora giornalista, per cui alla discriminazione legata all’orientamento si aggiunge quella dell’essere nero in un paese razzista e uscito a malapena dalla segregazione. È innamorato di Frankie Hines (Noah J. Ricketts), drag queen apertamente gay, in un’epoca in cui questa espressione, “apertamente gay” cioè, aveva ancora senso – e sì, è un riferimento al commento di Andrew Scott il mio, che in una recente tavola rotonda con l’Hollywood Reporter ha dichiarato, in modo assai divertente, che è ora di mandare in pensione quella dicitura e sicuramente è spesso il caso di aderire alla sua osservazione.  

Attraverso l’excursus storico, si è dato uno spaccato notevole su come siano cambiati la società e i mores nel tempo:  è agghiacciante vedere i funzionari statali indagati e licenziati per anche solo un sospetto di omosessualità – Mary Johnson (Erin Neufer) segretaria di Hawk, lesbica, si vede costretta dalle circostanze a denunciare la donna di cui è innamorata per non perdere il lavoro e vive in una situazione d’ansia come già in questo caso recentemente ce l’ha mostrata “For All Mankind”; ci sono suicidi; c’è elettroshock (1.05)…Hawk stesso viene sottoposto a un vergognoso “test di mascolinità” e addirittura alla macchina della verità, con un vero e proprio interrogatorio intimo, su sesso, sodomia, su se mai sia stato innamorato di un uomo…. La mentalità cambia, arrivano le proteste per la guerra del Vietnam negli anni ’60, gli anni ’70 di edonismo e liberazione sessuale, macchiati dal noto omicidio di Harvey Milk e George Moscone, la crisi dell’HIV e dell’AIDS negli anni ’80, che vede un Tim morente che dichiara “non stiamo morendo di AIDS, stiamo morendo di indifferenza”.

È il percorso individuale di due uomini profondamente diversi fra loro. Hawk è più libero da sensi di colpa nei propri desideri, ma è in vista e più condizionato dall’immagine sociale che vuole mantenere. Si costruisce una vita più tradizionale, come gli è richiesto: si sposa e ha dei figli, che pure ama, ma quando gli muore di overdose il più piccolo si dà a una vita di eccessi, di sesso, droga e alcool. Alla fine la moglie lo lascia. Tim, profondamente religioso, teme la dannazione eterna eppure ammette di essersi sentito “puro” (1.01) nel commettere quello che la sua chiesa reputa peccato mortale, ed è all’inquieta ricerca di se stesso, ma riesce ad essere onesto nel senso di aperto su chi è piuttosto in fretta, si appassiona alla causa di McCarthy nonostante tutto, si arruola, finisce in carcere, va in seminario con l’intenzione di farsi prete, diventa un assistente sociale che si batte per il finanziamento alla ricerca contro l’AIDS, quando già ci sta morendo. 

E fra questi due piani che si intersecano così bene, quello individuale e quello collettivo, c’è una romantica storia d’amore di due persone che si desiderano e amano autenticamente – con una buona dose di sesso che viene mostrato piuttosto liberamente (spinto, ma attento ad essere sempre al di qua della pornografia). Si prendono e di lasciano, con tante volte molti anni che si inframmezzano fra un incontro e l’altro, ma sempre con la mente l’uno per l’altro. Tragico, magnetico, seducente, crudele, dolce, commovente…Nella storia d’amore Hawk è in partenza il più smaliziato: se Skippy va in chiesa a confessarsi, Hawk è invece quello che con una strizzatina d’occhio gli dice “passerò il pomeriggio a immaginarti in ginocchio in preghiera”; è Hawk quello che gli ordina di spogliarsi guardandolo negli occhi e si sente ripetere “a te” alla domanda “a chi appartieni”? (O forse “tu” alla domanda “di chi sei tu?” – avendo visto il programma in originale non so che cosa abbia scelto la traduzione italiana) – raramente si vede il sesso trattato in termini di potere, e qui è stato fatto in modo notevole. Da donna a cui piacciono gli uomini devo ammettere che mi piace vederli fare sesso, e quando ci sono due interpreti che oltre ad essere bravi sono anche così esteticamente attraenti, non è difficile lasciarsi trasportare. I rapporti di forza fra loro nel tempo cambiano, ma l’attrazione e i sentimenti rimangono, anche se nel tempo si sono feriti.

Tim ormai morente confessa ad Hawk che ha aspettato tutta la vita che Dio lo amasse e poi si era reso conto che la cosa importante era che era lui ad amare Dio, e la stessa cosa era con Hawk, il suo grande amore che lo consumava. Hawk solo davanti all’AIDS Memorial Quilt a Washington, davanti a quel fazzoletto di stoffa che porta il nome del suo Skippy, ha finalmente il coraggio di ammettere, alla figlia, “Non era ‘il mio amico’, era l’uomo che amavo”. Frigno a scriverlo come quando l’ho visto. Una miniserie sull’amore autentico e sui condizionamenti sociali.

sabato 8 ottobre 2022

THE FIRST LADY: di scarso impatto

Eleanor Roosevelt (Gillian Anderson, e da giovane Eliza Scanlen). Betty Ford (Michelle Pfeiffer, e da giovane Kristine Froseth). Michelle Obama (Viola Davis, e da giovane Jayme Lawson). Sono queste le tre protagoniste della prima mandata della serie antologica The First Lady (Showtime, Paramout+ in Italia). Le loro storie si segmentano e si alternano mostrando parallelismo, con continui passaggi temporali e occasionali flashback: cambiano i tempi, ma il potere di quel ruolo non codificato ma innegabile, e di certe sfide, non cambia.

Non è stata di grande impatto questa serie di Aaron Cooley, con una sigla che a me ricorda quella di True Blood per il modo in cui è costruita, sia visivamente che musicalmente. C’è una ricerca accurata dei personaggi e delle epoche storiche, ma non riesce a essere veramente incisiva. Tutto è assai blando, anche quando le questioni affrontate sono di fatto scottanti. C’è giusto una patina femminista, anche se a volte è sembrata più di maniera che altro. Ci sono donne viste sia dal punto di vista personale, anche di percorso di crescita che le ha portate a essere chi sono, ma ho storto un po’ il naso quando in partenza è stato ribadito in più di una occasione che dovevano essere delle persone eccezionali per rivestire il ruolo che hanno avuto. Quello che è vero è che sono riusciti almeno in parte a mostrare la condizione delle donne attraverso una “prima donna” che le ha vissute in prima persona e ha aiutato, attraverso le proprie doti, ad avere un impatto sulla realtà che le circondava. “Le First Lady e i loro team sono spesso le avanguardie del progresso sociale in questo Paese" è quello che vogliono far credere, sia vero o meno come regola, attraverso le parole di Betty a Michelle in una lettera personale.

Se all’epoca di Eleanor alle persone di sesso femminile veniva chiesto solo di parlare di ricette e di pulizia della casa, lei ha saputo combattere diventando una voce (anche in senso letterale, con un programma radiofonico) in cui l’interna nazione potesse riconoscersi. La si vede sempre impegnatissima: tiene discorsi con la stampa, si oppone alla segregazione raziale, tontona chiunque pur di assicurare asilo a decine di ebrei in fuga dalla Germania nazista, ha un ruolo nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Betty, ammalatasi di cancro al seno (1.05), sceglie di rivelarlo a tutti, spingendo così molte persone a fare controlli medici che hanno salvato loro la vita. Lo stesso fa rispetto all’abuso di sostanze. Nello stabilire che cosa tenere privato e che cosa rendere pubblico, ha agito contro i suggerimenti anche pressanti dei consiglieri politici, cambiando in meglio la vita del Paese. Michelle, che dalla consulente scolastica era stata spinta a puntare più in basso nel proseguimento degli studi in quanto nera, nonostante i voti brillanti, decide di parlare a una cerimonia di diploma per fare la differenza una volta che può dire la sua, anche se questo è un rischio (1.08), si preoccupa di cibo ai poveri e violenza delle armi, di salute pubblica, e cerca di elevare il livello dello scontro… Seppur carismatiche possono usare la propria personalità per avere un impatto grazie al proprio ruolo, ma non possono agire a  piacimento perché i propri pensieri, il proprio modo di comportarsi e le proprie scelte, hanno un effetto amplificato sulla vita dei propri rispettivi mariti Franklin (Kiefer Sutherland, e da giovane Charlie Plummer), Gerald (Aaron Eckhartm, e da giovane Jake Picking), Barack (O-T Fagbenle, e da giovane Julian De Niro).

Il matrimonio degli Obama è stato mostrato come il più “idilliaco”, e viene da chiedersi se non sia perché ci sono contemporanei e non c’è altrettanto distacco e obiettività, o perché sia effettivamente così. Con le figlie Malia (Lexi Underwood) e Sasha (Saniyya Sidney) e anche con la madre Marian (Regina Taylor) hanno sempre mostrato una famiglia ideale. Voglio credere nella seconda ipotesi, dopotutto dubito che ci sarebbero problemi a ritrarre i Clinton come una coppia conflittuale, però viene naturale domandarselo. Non ci si fa troppi problemi ha mostrare la relazione saffica di Eleanor con la giornalista Lorena Hickok (Lily Rabe) in un’epoca in cui appariva contemporaneamente meno e più problematico di ora. La storia effettiva ci lascia un punto interrogativo in proposito, al di là delle ipotesi.  I problemi da farmaci e alcol di Betty Ford sono ben noti, ma c’è stato un che di intimo nel vedere la figlia Susan (Dakota Fanning) organizzare un’intervention perché andasse in una clinica a disintossicarsi.   

Guidati da una regia interamente affidata a Susanne Bier, abbiamo visto tutti attori di primordine, e tutti hanno fatto un lavoro più che dignitoso, quasi sbalorditivo per come hanno colto gli aspetti delle movenze o perfino dei tratti prosodici, si direbbe. Allo stesso tempo sono sembrati ingabbiati dal dover interpretare personaggi veramente esistiti e ben noti. Michelle Pfeiffer è quella che meno è caduta in questa trappola, dando una forza sorprendente ad una first lady forse meno conosciuta delle altre due. I corrispettivi maschili, i presidenti, sono stati relegati a ruoli di supporto come solitamente accade all’opposto. Non vi ho visto demascolinizzazione, ironica o meno, come hanno fatto altri, ma certo sono stati mostrati “sotto tono” o in momenti più tranquilli, meno leader, più compagni di vita.

Hilary Clinton, Jaqueline Kennedy, Laura Bush (per quest’ultima mi viene in mente il bellissimo libro American Wife, di Curtis Sittenfeld)… sono sicuramente diverse altre le first lady di cui si si sarebbe potuto parlare. La serie però non è stata rinnovata. In ogni caso già la prima stagione da sé può essere una visione gradevoe, ma più per fare una sorta di ripasso leggero su chi è chi e ha fatto che cosa, che non per grandi prospettive o rivelazioni o riflessioni. 

domenica 14 giugno 2020

WORK IN PROGRESS: 180 mandorle di vita

Work in progress è trasmessa dall'americana Showtime. Siamo a Chicago. Abby (Abby McEnany) è una 45enne “queer, mascolina e grassa “ – così si auto-identifica – che a questo punto della sua vita è talmente infelice da essere suicidaria. Una collega sul posto di lavoro le sbandiera delle mandorle, suggerendogliele come modo per dimagrire, sapendo che lei, senza successo, sta cercando di perdere peso. Quasi per ripicca se le compra con l’idea che rappresentino i giorni della sua vita. Ha deciso di concedersene 180, una al dì, e se per quando saranno terminate non sarà cambiato qualcosa, la farà finita. Il titolo delle puntate corrisponde al numero o ai numeri delle mandorle a cui è arrivata. 

Un giorno Abby esce a pranzo con la sorella maggiore Alison (Karin Anglin) e rimane molto colpita dal un ragazzo trans, 23 anni più giovane di lei, Chris (Theo Germaine), uno  spirito libero molto sicuro di sé. Anche lui è intrigato da lei, e cominciano una relazione. Abby ha come figura di riferimento e di supporto l’amica di lunga data Campbell (Celeste Pechous). Nel cast c’è anche Julia Sweeney che interpreta se stessa. Abby più volte nella vita è stata paragonata a un suo personaggio androgino del Saturday Night Live, Pat, fonte di molto dolore per lei, e non ce l’ha in simpatia, finché non la conosce di persona.

Fulcro portante delle serie è l’accettazione di sé: Abby non si piace, soffre di ansia, attacchi di panico e di disturbo ossessivo compulsivo, sembra non riuscire mai a trovare un luogo dove è accettata completamente per quello che è e si aspetta sempre che, nel rivelarsi autenticamente, sia destinata ad allontanare le persone.

Ha un aspetto decisamente butch, e il fatto di essere gender nonconforming, quindi di non conformarsi allo stereotipo del genere sensuale di appartenenza, la mette costantemente in situazioni emotivamente devastanti. Non è mai tanto chiaro come quando non riesce a trovare un bagno pubblico (1.04) in cui possa andare a fare i propri bisogni senza vedere che le donne la scambiano per un uomo e chiamano la sicurezza. Accade perfino nei locali per lesbiche. Semplicemente il mondo non è fatto per lei, e questa estraneità è un affronto continuo alla sua identità. E il suo essere altro è talvolta anche percepito come una minaccia. 
  
Tiene costantemente un diario – ne ha uno sgabuzzino pieno – in cui scrive di quello che le capita nella vita. Mostrarlo agli altri, confessarsi, è un passo enorme, che in passato le è costato caro. La serie, con periodici flashback, ci riporta a quando lei era più giovane per mostrarci la reiterazione di certe esperienze nella sua vita, per farci capire perché ora è quella che è. Sono proprio le paure che poi la minano ulteriormente: il terrore di rivelare a Chris un incidente involontario che teme lo allontani è quello che alla fine lo allontana (1.07). Profezie che si autoavverano.

Le sue ferite aperte sono quello che la serie ci mostra. Mi arrabbio ogni volta che la vedo sullo schermo gettare le mandorle nella spazzatura – considero immorale buttare via cibo perfettamente edibile per nessuna valida ragione.  Soprassedendo su questo aspetto, è narrativamente potente, anche perché minimo e strisciate, vedere che, rapidamente, getta via quei semi, che sono giorni, momenti di vita che se ne vanno, anche quando la presenza nella sua vita di Chris dovrebbe averla resa più gioiosa – e lo ha fatto. Sono il ricordo costante, anche quando sembra normale, che nella testa ha il costante pensiero di farla finita.

Una relazione nuova per Abby, che in passato non ha mai frequentato uomini trans, è una scoperta. C’è qualcosa di dolce e puro nel loro rapporto. L’ho guardato anche con un certo stupore, per il coraggio di una coppia che apparentemente non ha molto in comune, e che ha numerosi ostacoli, anche legati all’età. Eppure funziona. Eppure è un avvicinamento naturale, di scoperta e di apprezzamento reciproco.

Grazie anche al personaggio della Sweeney, si riflette molto sulle implicazioni della rappresentazione, sul diritto a parlare in prima persona della propria storia e su come possa essere una questione di equità sociale. Non ci sono molti personaggi come Abby sul piccolo schermo, e nel guardarla mi accorgo di quanto ce ne sia bisogno. Anche solo vederla. Mette a fuoco il mondo in modo più vero, più umano, più onesto. In chiusura (1.10) c’è uno scontro proprio rispetto a questo tema. Julia ha invitato Abby a uno spettacolo teatrale in cui di nuovo veste in panni di Pat (un personaggio che sul serio la Sweeney ha interpretato), ed è entusiasta di mostrarle che non lo fa con derisione, ma auto-consapevole di sé e dei propri punti deboli. Abby lo considera illusorio e rovinoso, e le rinfaccia di non aver capito nulla e di non averla interpellata. Se è inevitabile che chiunque abbia una propria prospettiva sulla vita degli altri, non bisogna prescindere dalla prospettiva primaria di chi quella vita la vive in prima persona: è una voce necessaria, da ascoltare.

Ideata dalla McEnany, da Tim Mason e scritta da entrambi e da  Lilly Wachowski, si tratta di una serie comica, e ci sono momenti in cui si ride di gusto, a partire dai primi minuti, in cui vediamo la protagonista dalla propria psicoterapeuta, fino alla finale (1.10) quando la protagonista prende in considerazione vari modi per farla finita. Un personaggio minore, King (Armand Fields), le ricorda che “everybody is fucked up – tutti sono un casino” (1.07) Si dice che l’umorismo migliore venga dai momenti di dolore, e qui viene proprio da lì. Anche per questo ha un sapore feroce, a volte; nella crudezza dei punti dolenti forse la risata è il solo balsamo, la sola occasione catartica.

La stagione termina con Abby emotivamente al peggio possibile su più fronti – perfino in modo esageratamente forzato in quella direzione, mi è parso – ma per chiudersi in modo sensato e commovente. ATTENZIONE SPOILER. Non ha più mandorle. Chris la lascia, ma non per il litigio avuto, ma perché non si sente di affrontare la responsabilità di essere la sola ragione che la tiene in vita. E le consegna in una busta quello che a sua insaputa le aveva rubato il primo giorno in cui si erano incontrati: una mandorla. Inaspettato (almeno per me) e magnifico.

È stata confermata una seconda stagione di 10 episodi.  

giovedì 6 dicembre 2018

KIDDING: dolente e dolce



Kidding (dell’americana Showtime), che in italiano (su Sky Atlantic) ha preso il sottotitolo de “Il fantastico mondo di Mr Pickles”, mostra un Jim Carrey, che interpreta il protagonista principale, in quello che è il suo aspetto drammatico migliore: vulnerabile, amabile, addolorato, ingenuo.  

Jeff Piccirillo (Jim Carrey) è il presentatore di un programma televisivo per bambini in cui interagisce con pupazzi animati, il “Mr Pickles’ Puppet Time”, di grande successo: è adorato dal pubblico ed è un impero multimilionario. Lui, come il suo alter-ego televisivo, Mr Pickles – pickle significa “cetriolino sottaceto” in inglese – è un grande propugnatore di buoni sentimenti, fare la cosa giusta, comportarsi bene, con generosità e gentilezza. Jeff è nella vita reale quello che vende nella finzione dello schermo. Ora però è in crisi: aveva due figli, Will e Phil (Cole Allen), gemelli, e uno dei due è morto in un incidente d’auto un anno prima e lui è ancora in lutto, inoltre è ancora innamorato della sua ex-moglie, Jil (Judy Greer), un’infermiera che si sta rifacendo una vita con un altro uomo. Sebastian Piccirillo (Frank Langella), suo padre, ma anche produttore esecutivo dello show, è preoccupato tanto per lui personalmente, quanto per la sorte del programma se Jeff continua a comportarsi in modo strano, per quella che è un’impresa di famiglia, visto che la sorella di Jeff, Deidre (Catherine Keener), pure ci lavora, realizzando i vari pupazzi. Lei stessa sul fronte di casa non ha una vita facile: la figlia Maddy (Juliet Morris) vede il padre in una situazione sessuale compromettente con un’altra persona e comincia ad averne conseguenze nel comportamento.  

Il cuore di questa serie ideata da Dave Holstein consiste nella distruzione di un uomo buono: cerca di essere sempre al suo meglio, ma la vita gli riserva cocenti batoste. Nonostante le ammaccature, prova a rispondere ugualmente agli eventi con gentilezza – paga perfino le spese dell’uomo che ha ucciso suo figlio -, ma la verità è che dentro di lui si formano pensieri e sentimenti negativi e distruttivi, causati dall’infelicità e dalla rabbia. Non siamo in una storia di supereroi in cui assistiamo alla genesi di un supervillain, ma di fronte a un uomo comune, reale. E un uomo a cui il mondo guarda come a un faro per come bisogna comportarsi per essere brave persone e per essere felici, cose che si crede debbano coincidere, compito che sente come una responsabilità.

Un concetto ricorrente nelle puntate, espresso attraverso il programma per bambini -  in cui Jeff vorrebbe poter parlare di morte, ma dove glielo impediscono per timore di alienare il pubblico dei più piccini -, è che “ogni dolore ha bisogno di un nome”. È importante saper descrivere i propri sentimenti per saperli elaborare e gestire. È legittimo avere un lato oscuro e ammettere di averlo, è umano. Fingere di non avere sentimenti negativi è una finzione distruttiva, e verso l’autodistruzione va infatti, tristemente, il protagonista. Nella season finale ha un tracollo da cui sarà difficile farlo uscire.

Che cosa ci renda umani è un’altra idea reiterata. Jeff viene anche deriso o ignorato o attaccato per il suo essere educato. In più modi gli viene detto che non viene visto realmente come un uomo e lui insiste sul fatto che lo è, solo che è un tipo diverso di uomo. Anche se non è solo in un’unica modalità che viene affrontato questo argomento, un modo importante in cui viene fatto è attraverso il sesso. Di fronte a chi lo vede come un essere asessuato o comunque asessuale, lui ribadisce che invece è un uomo con dei desideri carnali, e non è questo a renderlo meno una brava persona. La serie, che riprende questo tema anche con il figlio del Mr Pickle giapponese (a coloro che lavorano al programma nel Sol Levante viene richiesto il voto di castità), mostra scene di sesso piuttosto esplicite e niente affatto puritane. Essere maschi veri non significa essere cafoni: un bel concetto da far passare.

Ci si sofferma tanto sul dolore: anche attraverso la figura di una donna malata di cancro con cui Jeff intesse una relazione, o con quella di un fan nel braccio della morte (1.08) che richiede la sua presenza al momento della sua esecuzione (in una toccante, commovente puntata contro la pena di morte come raramente se ne vedono).

Alla fine dei conti il programma, dolente e dolce, crede del kintsugi, un concetto che nella diegesi (1.07) entra in modo esplicito dando una evidente chiave di lettura  alla serie intera. Alle 10 puntate della prima stagione ne farà seguito una confermata seconda.    

mercoledì 8 luglio 2015

PENNY DREADFUL: la seconda stagione


Sviluppata in dieci puntate anziché otto, è stata più compatta questa seconda stagione di Penny Dreadful: se la prima aveva episodi che erano quasi capitoli assestanti, in questa invece l’arco è stato costruito come un unicum che si apre con Vanessa Ives (Eva Green) che prega di fronte alla croce (fine di 2.01) e che si chiude con lei che brucia quella croce (fine di 2.10). È stata infatti lei il fulcro di ogni cosa: il suo passato è stato ricostruito in The Nightcomers (2.03), quasi un bottle episode che ha usato immagini druide e pre-cristiane, con echi di Milton. Le è stata mentore the Cut-Wife (Patti Lupone), una “strega” che le ha insegnato quello che sapeva e le ha trasmesso quello che era, risvegliando il suo potenziale e spiegandole come usarlo. Si è parlato di sovrannaturale e di occulto e di magia, ma non come formulette da recitare per gioco, ma con un senso profondo: è stata una esplorazione della brutalità e del potenziale degli esseri umani, come ammette John Logan, autore della serie in toto, scrittore di tutte le puntate della serie, intense e spesso poetiche.

Nella finale si è consumata definitivamente la lotta perenne di Vanessa contro l’oscurità, spiegata dalle reliquie del Verbis Diablo che tutto il gruppo – una specie di Scooby Gang vittoriana - ha cercato di interpretare con l’aiuto di Ferdinand (Simon Russell Beale). A incarnare il nemico in questo caso è stata Evelyn Poole (Helen McGory), apparentemente una semplice medium nota come Madame Kali, ma serva di Lucifero con cui si è consumato uno scontro finale. Il demonio ha cercato di sedurre Vanessa e di farle rinunciare alla sua anima parlando attraverso un simulacro, la bambola con le sue fattezze in cui era stato messo il cuore di un neonato ucciso appositamente dalla sacerdotessa del male. Miss Ives ha avuto il sopravvento ma, con la rinuncia al male, ha accettato la parte oscura di se stessa (uno scorpione uscito dal simulacro le si poggia sulla mano, si tatua in rilievo sul palmo e viene da lei assorbito completamente). Ha perso la fede.

“Vanessa ha accettato la complessità e la dualità di chi lei è. È parte angelo e parte mostro, come siamo tutti. E questo è alla fine ciò di cui parla la serie”, spiega Logan (The Hollywood Reporter). E ora è sola, così come sparpagliati per il mondo sono gli altri personaggi: Ethan Chandler (Josh Hartnett) – il cui vero nome si è scoperto essere Ethan Lawrence Talbot (“Lawrence Talbot” è il tormentato uomo lupo nel classico del 1941, The Wolfman) - si è costituito per una serie di efferati omicidi compiuti da licantropo ed è stato estradato negli Stati Uniti; Sir Malcom (Timothy Dalton) parte per l’Africa per seppellire l’ex-mercante di schiavi Sembene (Danny Sapani), dopo che Ethan lo ha ucciso; il dottor Frankenstein (Harry Treadaway), sopraffatto dalla disperazione per aver dato vita alle sue “creature” e per l’amore non corrisposto nei confronti di Lily, è perso nella droga che si inietta ovunque; la Creatura (un sempre mesmerizzante Rory Kinnear), imprigionato a tradimento e deriso per la sua mostruosità, uccide i suoi carcerieri e naviga fra i ghiacci deciso ad allontanarsi da quell’umanità a cui agogna assimilarsi e che perennemente lo respinge, e che, come nota Vanessa stessa, possiede più di ogni altro.  

Il più grande orrore nella serie non è mai quello esteriore, ma quello delle persone, e quello del modo in cui si relazionano le une alle altre: “In fondo al cuore, questa è una storia di persone che soffrono, persone che cercano e provano a trovare qualcosa. Non riguarda i tropi dell’orrore vittoriano” (The Wall Street Journal). E l’orrore più grande è affrontare se stessi e i propri demoni, come fanno un po’ tutti i personaggi, in modo molto ferale e primordiale. Ognuno di loro cerca di essere normale, a suo modo. La serie si tiene in equilibrio fra il razionale, il teologico, il  sovrannaturale e il romantico e cerca di bilanciarli e, sempre parafrasando l’autore, aspira alla comprensione della necessità umana di venire accettati, anche lì dove ci si sente mostruosi, e a mostrare la benevolenza umana nell’accettare, perdonare e redimere quello che può essere considerato mostruoso. Sono temi che ricorrono in tutti i personaggi e nell’affrontarli si ricordano ed evocano le modalità espressive di Wordsworth e Keats.

Come ci viene ricordato dalle parole di Mr Claire, “il vero male è sopra ogni cosa seduttivo” (2.09), il demonio è bellissimo, è come una sirena. Cedi per non essere più solo. Dio, così come la droga, sono modi di cercare trascendenza, di cercare una personale connessione con la verità divina. Penny Dreadful lo ha illustrato in questa stagione anche attraverso i personaggi di Lily Frankenstein (Billie Piper) e Dorian Grey (Reeve Carney). La prima è coinvolta in uno straziante poligono amoroso, apparentemente innocente, in realtà consapevole e brutale; il secondo è trascinato in una storia d’amore con Angelique (Jonny Beauchamp), un transessuale, per usare un termine di per sé anacronistico per l’epoca: Dorian lo accetta e lo spinge a farsi accettare dalla società per quello che è, ma non riesce a farsi a sua volta accettare per come lo rivela intimamente il famoso quadro che lo rappresenta, e così uccide Angelique dopo che lo ha visto.  In “And They Were Enemies” (2.10)  – in uno dei molti momenti che mostra uno dei punti di forza del programma, al di là della scrittura e della recitazione, ovvero la cinematografia e i costumi – Dorian e Lily , con gli abiti bianchi sporcati dal sangue delle ferite inferte dal dottor Frankenstein che ha cercato di ucciderli, ballano incuranti di tutto, nella bellissima sala illuminata da innumerevoli candele sotto gli occhi dei quadri che tappezzano le pareti. Sono ipoteticamente immortali e si sentono superiori, e vogliono provare al mondo di esserlo. La prossima stagione, che sarà di 9 puntate, mostrerà il loro modo di cercare il potere, con tutti i personaggi a un crocevia, promettono.

La seconda stagione intanto conferma la sottovalutata Penny Dreadful una serie gotica narrativamente coinvolgente, psicologicamente raffinata e visivamente sontuosa.

venerdì 3 ottobre 2014

THE AFFAIR: esce la sigla della serie più attesa dell'autunno


 
La serie più attesa dell’autunno è The Affair, ideata da Sarah Treem, autrice teatrale e sceneggiatrice per In Treatment e House of Cards, e Hagai Levi, ideatore di Be Tipul, la versione originaria israeliana da cui è stato tratto In Treatment, di cui è stato poi produttore. Fra i produttori esecutivi di questo nuovo progetto ci sono Eric Overmyer (Treme) e Jeffrey Reiner (Friday Night Light).
Come è facile intuire dal titolo, racconta di una storia d’amore, in questo caso, una storia extraconiugale, vista dal due punti di vista diversi, maschile e femminile, con i protagonisti che ne hanno anche ricordi differenti, con un effetto un po’ alla Rashomon, è stato detto. Ne sono coinvolti Alison (Ruth Wilson), una cameriera sposata con Cole (Joshua Jackson, Fringe), che gestisce un ranch in crisi finanziaria che è appartenuto alla sua famiglia per generazioni, e Noah (Dominic West, The Wire), un insegnante della scuola pubblica di New York e aspirante romanziere coniugato con Helen (Maura Tierney, ER). Quando la relazione comincia, Alison e Cole stanno cercando di superare una tragedia che ha sconvolto le loro vite, e Noah sta trascorrendo una vacanza marina nella tenuta dei familiari della moglie.
Ambientato a Montauk, New York, sulla costa est degli USA, è stato definito un drama romantico dark e si focalizza sugli effetti di una relazione di questo genere, scavando nelle complessità delle relazioni a lungo termine. Al tour per la stampa dell’associazione dei critici televisivi, da quanto scrive l’Hollywood Reporter, la Treem ha dichiarato che pensano al programma soprattutto nei termini di matrimonio e che il titolo, con riferimento alla relazione extraconiugale, nel proseguire la visione finisce per suonare in qualche modo ironico.
Intanto il canale Showtime, che la manderà in onda le 10 puntate previste a partire dal 12 ottobre, ha fatto uscire in anteprima la sigla (sotto), con musica originale di Fiona Apple. Mi pare un gioiello.  

venerdì 20 gennaio 2012

HOUSE OF LIES: consulenti manageriali dai metodi discutibili


Nulla è immorale se ti fa ottenere ciò che vuoi: sembra questa la cinica logica che muove i personaggi di House of Lies (Dimora di menzogne), la nuova serie di Showtime basata sul libro House of Lies: How Management Consultants Steal your Watch and then Tell you the Time (Dimora di Menzogne: Come i Consulenti Manageriali ti Rubani l’Orologio e poi ti Dicono l’Ora), di Martin Kihn, più realistico di quanto non si sia disposti ad ammettere, come afferma candidamente l’autore in un’intervista. Protagonista è Marty Kaan (Don Cheadle), che dirige una squadra di consulenti manageriali dai metodi discutibili di cui fanno parte Jeannie (Kristen Bell, Veronica Mars), Clyde (Ben Schwartz, Parks and Recreation) e Doug (Josh Lawson). Nel pilot architettano una strategia per far sembrare un vero benefattore a contatto con le sofferenze della gente il capo di un’impresa senza scrupoli che ha mandato sul lastrico e ridotto a senzatetto più di qualcuno. Il lavoro del team è stato a rischio perché uno dei dirigenti ha scoperto che la moglie aveva avuto molta più soddisfazione da una sveltina in bagno con una spogliarellista - che Marty aveva trovato in uno strip club e che faceva passare per la sua consorte - che con lui.  A dispetto di tutto però ce la fanno.

La prima volta che incontriamo Marty è sul letto completamente nudo accanto a una donna che poi scopriremo essere la sua ex Monica Talbot (Dawn Olivieri), una collega, pure completamente nuda, e in una vaga posizione 69. Lei è svenuta e nemmeno una secchiata d’acqua riesce a svegliarla, per cui lui la riveste in fretta e furia per non farsi beccare dal figlio Roscoe (Donis Leonard jr), un bimbo che si veste con abiti femminili e nel musical della scuola aspira alla parte di Sandy in Grease: è alla ricerca di una attenzione positiva, commenta al figlio il nonno (Glynn Turman) del piccolo, uno strizzacervelli in pensione. House of Lies, in puro stile Showtime e un gusto licenzioso alla Californication o Shameless anche, non va tanto per il sottile e usa tinte forti (la secchiata d’acqua ad esempio a me ha un po’ disturbato, forse perché non ero avvezza al tono del programma) e temi anche controversi. Il travestitismo infantile non è la prima volta che viene affrontato in TV (si pensi di recente a The Riches, o alla sensibilizzazione che si fa in proposito in programmi come Today), ma non è nemmeno l’argomento più gettonato e assodato del mondo.

Stilisticamente è interessante, perché utilizza come suo segno distintivo il fermo immagine che ghiaccia in un fotogramma i personaggi e che consente degli a latere di Marty che rompe la quarta dimensione rivolgendosi allo spettatore. Nella presentazione iniziale all’azienda che li ha assunti, ad esempio, si ferma a illustrarci con dei cartelli le tecniche che sta per usare (lusingare il cliente, chiedere a loro che cosa pensano, usare un gergo indecifrabile) prima di riprendere con la scena, e il normale flusso di immagini. Cogliere il tono, in bilico fra serio e faceto, è l’aspetto più difficile per un dramedy che un po’ come in Dirt, ideato come questa serie da Matthew Carnahan, non si fa problemi a mostrare il marcio e le bassezze impiegate in certi ambienti di lavoro, anzi li abbraccia con gusto e ne fa il proprio fulcro. Non posso dire di essere rimasta folgorata, ma i nomi dei coinvolti (fra le guest star anche Richard Schiff di The West Wing e Greg Germann di Ally McBeal, ad esempio) mi convincono a dare fiducia alla serie che spero riesca a mostrare un po’ di umanità dentro al suo  sardonico involucro.