“Che cos’è l’arte? Che
cosa intende trasmettere?” The Curse (Showtime; Paramount+)
si è posta costantemente questa domanda nel corso delle sue 10 puntate, in modo
sia esplicito che no. Non è un caso che sia stata indicata da molti come uno
dei migliori programmi del 2023. Asher (Nathan Fielder), uno dei tre
protagonisti, se lo domanda una volta in più parlandone con la moglie Whitney
(Emma Stone), molto incinta, nella season finale (1.10). Dà anche una
risposta, dopo aver riflettuto su Mel Brooks, la ricezione a The Producers
da parte degli spettatori ebrei e l’olocausto: qualche volta arte è spingersi
fino all’estremo per provare la propria tesi.
SPOILER SULLA SEASON
FINALE NEI PROSSIMI DUE PARAGRAFI
Antecedentemente ci sono
due momenti terribilmente cringy, vera cifra stilistica dello show. Nel
primo la coppia fa un collegamento video con un programma di cucina di
Rachel Ray per promuovere un proprio programma televisivo, su cui hanno
lavorato nel corso della stagione – seguirli mentre lo realizzano è stato il
contenuto delle vicende della serie. Sorridono come idioti imbalsamati tutto il
tempo mentre lei praticamente li ignora. Nel secondo Asher per rendere felice Whitney,
che lo è quando riesce a rendere tali gli altri, decide di regalare una casa
con un valore di 280.000-300.00 dollari ad Abshir (Barkhad Abdi), uno squatter
a cui l’avevano in precedenza già comunque prestata e quest’ultimo non solo non
sembra commosso come si aspettavano, ma ne è quasi infastidito, li lascia sulla
porta non facendoli nemmeno entrare e la sola cosa di cui si interessa è chi
pagherà le tasse di proprietà – loro naturalmente. Poi la serie fa esattamente
quello che Asher dice che l’arte debba talvolta fare, in una delle finali più
memorabili che io abbia mai visto. Geniale, surreale, kafkiana. Davvero arte.
Non sono sicura di aver capito il significato della conclusione scelta, che tesi voglia provare e come si integri con il resto della stagione, ma l’ho amata profondamente. La coppia dovrebbe essere a letto a riposare, ma quando si svegliano si rendono conto che, per qualche inspiegata ragione, che inizialmente ipotizzano legata al sistema pressorio dell’abitazione, lui è sul soffitto, con la faccia rivolta verso il pavimento. E non importa quanto cerchi disperatamente di scendere, la gravità lo spinge in alto. Whitney intanto comincia ad avere le contrazioni e all’opposto è letteralmente che striscia bocconi sul pavimento, preoccupati che le succeda altrettanto. Asher è appunto convinto che il fenomeno sia legato alla casa e cerca di uscire, ma si rende subito conto che non è così: se lo lasciano vola via, come un palloncino. Uscendo dalla casa vola in alto e viene trattenuto solo dai rami di un albero, a cui si aggrappa. Il miglior amico Dougie (Benny Safdie) pensa che sia in crisi per la paura di diventare padre, una cosa astratta di cui ancora non riesce a rendersi conto, e lo filma; i pompieri che intervengono lo credono matto e, invece di fare come chiede, tagliano il ramo dell’albero per farlo cadere, e lui prende il volo, finendo oltre l’atmosfera terrestre, nello spazio remoto. Whitney in ospedale partorisce da sola un nel bambino che la riempie di felicità; Dougie piange per non aver creduto all’amico. Potente, folle, inspiegabile. Memorabile. Che senso ha?
Ma facciamo un passo
indietro: Asher e Whitney Siegel vogliono mandare in onda un reality, “Fliplanthropy”,
filmato dall’amico Dougie Schacter come autore e regista spesso incompreso, in
cui riqualificano la zona economicamente depressa della comunità di Española, in New Mexico, ricca
di cultura nativo-americana. Lo vogliono fare attraverso la propria società di
sviluppo immobiliare costruendo nuovi modelli di casa, ecologicamente
sostenibili, dando valore all’arte locale con una filosofia abitativa olistica.
Vogliono aiutare la gente del posto, e vanno al di là di quanto anche può
apparire ragionevole per farlo, ma vengono criticati per la gentrificazione
dell'area. Si è straziati di imbarazzo a seguirne il processo creativo,
dove il limite fra realtà e reality è costantemente ridefinito, ci sono
inquadrature che danno il senso di spiare attraverso il buco della serratura e
molte interazioni sono fatte a uso e consumo delle telecamere. Versano
dell’acqua sugli occhi di una donna che sta morendo di cancro, con un po’ di
mentolo perché siano arrossati per un effetto più realistico, per fingere
lacrime di gratitudine perché hanno trovato un lavoro al figlio. Non si
potrebbe essere più spietati nel mettere a nudo la compassione o la generosità
puramente performative. O nel puntare il dito contro l’atteggiamento da “white
savior” (salvatore bianco). Lui regala 100 dollari a delle bimbe che fanno le
venditrici ambulanti di bevande gassate, ma come scena, poi li rivuole
indietro, e da qui la maledizione, la “curse” del titolo da cui Nathan si sente
perseguitato per molto del tempo. Era solo una challenge di TikTok, ma è vera
perché ci credono?
Il confine fa realtà e
finzione è continuamente rinegoziato, e non è un caso che a ideare il programma
sia stato insieme a Safide proprio Filler, noto per programmi sperimentali
come The Rehersal e Nathan for You in cui proprio questo spazio liminale
viene costantemente e intelligentemente interrogato. Le puntate non sono tanto
costruite su atti, quando su moduli che si susseguono. Le sorti incerte della
produzione si alternano a quelle della loro vita personale: si mette in dubbio
la sincerità di lei anche per le pratiche dei propri genitori, si demolisce la
capacità umoristica di lui, un Dougie privo di scrupoli si incunea nel rapporto
facendo temporaneamente credere che questo renderebbe la loro idea più
drammaticamente appetibile ai network, ci si deve relazionare con vari
interlocutori, fra cui un’artista del Pueblo Picuris di nome Cara Durand (Nizhonniya
Luxi Austin) – tutte le scene con quest’ultima sono follemente geniali…Ansia,
mortificazione, senso di inadeguatezza abbondano.
Si tratta di un programma complesso, originalissimo e difficile da classificare anche se viene considerato una black comedy-drama thriller satirico. Non è una serie, di cui non è completamente esclusa una seconda stagione, che si guardi sempre con piacere. Ha scritto bene Daniel Fienberg su The Hollywood Reporter, quando ha detto che “è un luogo visceralmente sgradevole” da visitare e che la “serie ha affinato l'umiliazione e l'antipatia fino al limite del kink, e i vari malintesi e le intenzioni discutibili rendono difficile tifare per qualcosa in particolare, se non per l'incenerimento di molte delle nostre illusioni culturalmente condivise”. Indubbiamente sviscera in modo chirurgico il tema dell’autenticità ed è pregno di riflessioni. Affascinante, idiosincratico e da non perdere.
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