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lunedì 8 settembre 2025

GROSSE POINTE GARDEN SOCIETY: una trascurabile dark comedy suburbana

La soluzione del giallo che accompagna tutta la prima stagione di Grosse Pointe Garden Society (NBC, per ora inedita in Italia) mi ha molto soddisfatta. Sono riusciti a mantenere la suspence per tutto il tempo, depistando con potenziali vittime, ma alla fine ha sorpreso e convinto, ed è riuscita credibile nella dinamica in cui si è svolta la morte del/la malcapitato/a. Mi è dispiaciuto scoprire l’identità del cadavere (1.11). Non è stato il solo elemento che io ritenga valido, e argomenterò in tal senso, per quanto in corso di visione io mi sia domandata più spesso che senso avesse continuare a seguire questa serie. Non incoraggerei a guardarla, ma è sufficientemente gradevole se non si hanno troppe pretese: non ha grande originalità, ma il tono è leggero e accessibile. 

Quello che mi aveva attirata era l’idea dell’ambientazione in un club di giardinaggio attorno al quale ruotavano i protagonisti. Si fanno riferimenti botanici, ma non sono così incisivi da essere memorabili e sono solo un afterthought, un qualcosa a cui nella costruzione narrativa si pensa solo in modo tangenziale. Vorrebbe essere una metafora di bellezza che cela radici marce, come l’immagine ricorrente che accompagna il titolo ben segnala, ma il simbolismo è appena accennato ed esteticamente povero. Visivamente è blanda e il potenziale completamente sprecato.  

Ambientata in un quartiere dell’alta borghesia di Grosse Pointe, nel Mitchigan, questa creazione di Jenna Bans e Bill Krebs (Good Girls) ruota intorno a quattro membri di un club di giardinaggio di cui è presidente la moglie del sindaco della cittadina, Marilyn (Jennifer Irwin), e si sposta continuamente fra due piani temporali, quello presente e quello in cui sei mesi dopo i protagonisti cercano di nascondere un omicidio seppellendo il corpo del giardino del club di cui fanno parte – poi si focalizza meglio, ma inizialmente è vagamente disorientante, anche se vengono ben segnalati i passaggi, indicati in modo originale con scritte in sovrimpressione su oggetti di scena. 

Alice (AnnaSophia Robb) è un’insegnante liceale il cui matrimonio con Doug (Alexander Hodge), un artista di scarso successo, è in crisi soprattutto a causa delle forti interferenze della suocera Patty (Nancy Travis) che fa continue pressioni perché lei rimanga incinta, mentre il suocero Keith (Ron Yuan) cerca di mantenere un rapporto più equilibrato. Alice è una grande amante dei cani e, a inizio stagione, si trova a dover fare i conti con la morte misteriosa del suo, cosa che avrà parecchia rilevanza nelle vicende. Brett (Ben Rappaport), che è il migliore amico di Alice, ha rinunciato ai suoi sogni di carriera in favore di quella legale della moglie Melissa (Nora Zehetner), da cui ora ha divorziato, e ora è impiegato come gestore di un negozio di giardinaggio. Teme che il nuovo compagno della sua ex metta distanza fra lui e i suoi figli. Catherine (Aja Naomi King) è un'agente immobiliare dalla vita apparentemente perfetta, ma è insoddisfatta del proprio matrimonio con Tucker (Jocko Sims) e inizia una storia extraconiugale con il collega Gary (Saamer Usmani). La ricca Birdie (Melissa Fumero), autrice di un bestseller autobiografico di sé come arrampicatrice sociale, viene costretta ad occuparsi di piante come sentenza di un giudice a svolgere lavori socialmente utili dopo che si è schiantata con la propria auto contro una fontana, cerca di essere vicina al figlio adolescente Ford (Felix Wolfe) che ha dato in adozione anni prima che non sa che lei è la madre biologica, e questo le porta l’antipatia della madre adottiva Misty (Daniella Alonso), anche per una sua vicinanza troppo intima con il padre adottivo, Joel (Matthew Davis), un agente di polizia.

Quello che questa dark comedy suburbana indaga sono le ripicche, le ostilità, i malintesi, le invidie e le rivalità di una piccola cittadina di provincia, benestante ma non troppo. E come i segreti e le tensioni personali che si creano all’interno delle famiglie e nei rapporti di amicizia possano portare a conseguenze drammatiche, in vortici che prendono forza al di fuori delle proprie aspettative. Che siano le aspettative dei genitori o dei suoceri e le nuove generazioni, i conflitti e le gelosie fra coniugi, la delusione delle proprie aspettative professionali, i rimpianti che portano a cercare di rimediare agli errori del passato e il rischio di ricadere negli stessi errori di sempre, l’ambizione di incanalare le proprie aspirazioni un hobby e primeggiare nella propria cerchia sociale…tutti questi sono temi affrontati, anche se non c’è nulla che davvero non si sia visto prima, ed è tutto sufficientemente superficiale. Le performance sono tutte più che adeguate. Melissa Fumero (nota per Brooklyn Nine-Nine, ma che gli amanti delle soap opera non dimenticano in One Life To Live) si è fatta particolarmente apprezzare per aver infuso il suo personaggio di molta vulnerabilità e un pizzico di umorismo.   

La serie è stata cancellata dopo la sola prima stagione. Dispiace lasciar appassire qualcosa, ma questa non è una serie che continuerei a concimare accontentandomi della presente fioritura. Trascurabile. 

martedì 29 aprile 2025

THE RESIDENCE: uno spassoso whodunit

Ispirata all’omonimo libro saggistico scritto da Kate Andersen Brower, The Residence di ShondaLand, ideata da Paul William Davies (Scandal), ha al centro delle vicende una investigatrice troppo magnetica e iconica per essere sfruttata per una sola stagione: Cordelia Cupp (Uzo Aduba, Orange is the New Black) è quel genere di detective alla Sherlock Holmes, Miss Marple e Colombo che risolve i casi grazie alla sua attenta capacità di osservazione, ascolto e deduzione. Talvolta pare vacuamente interessata ad altro, nel suo caso al birdwatching, ma puoi star certo che non si è persa un dettaglio.

Non si sovverte un genere, lo si frutta al meglio. Il giallo ha perciò un gusto antico, quello in cui tutti i colpevoli sono riuniti in un solo posto, secondo la classica tradizione di Agatha Christie, e in questo caso il luogo è d’eccezione: la Casa Bianca. La narrazione si muove su due piani temporali: la notte dell’omicidio dell’usciere capo A.B. Wynter (Giancarlo Esposito, Breaking Bad, Better Call Saul, ineccepibile in un ruolo che doveva essere di Andre Braugher, alla cui memoria è dedicata la season finale), responsabile di tutto il personale della residenza presidenziale, che aveva dichiarato poche ore prima “sarò morto prima della fine della serata”, quando ad indagare viene chiamata dal capo della polizia Larry Dokes (Isiah Whitlock Jr.) proprio Cordelia Cupp, consulente del Dipartimento di Polizia Metropolitana, che viene affiancata dall’agente speciale dell’FBI Edwin Park (Randall Park, WandaVision), nonostante il consigliere capo Harry Hollinger (Ken Marino, Party Down) spinga affinché la morte venga dichiarata un suicidio; e c’è poi una seconda linea temporale, quella di un'udienza del Congresso durante la quale il senatore Aaron Filkins (Al Franken) ascolta i vari testimoni di quanto è accaduto in quell’occasione, spesso interrotto dalla senatrice Margery Bay Bix (Eliza Coupe, Happy Endings), che accusa l'amministrazione del presidente Perry Morgan (Paul Fitzgerald) di aver coperto l’avvenuto.

In sé la serie non è qualcosa di cui correre a raccontare in giro, ma è un cozy mystery infarcito di umorismo, è perciò gradevole con un misto di mistero e humor, politica dei rapporti e gossip sulle relazioni fra i sospettati, anche se Cordelia si rifiuta di chiamarli così; la dimora di 1600 Pennsylvania Avenue è un personaggio a sé, ricostruita anche con un modellino che ce ne fa vedere la sezione. Sono 132 stanze, e i potenziali colpevoli sono ben 157, dal momento che l’omicidio si è verificato in occasione di una cena di stato piena di ospiti organizzata dal presidente e dal First Gentleman, il marito Elliot Morgan (Barrett Foa),  con l’obiettivo di risanare rapporti incrinati con l’Australia – curioso notare che ad interpretare il primo ministro australiano è Julian McMahon (Nip/Tuck), che nella vita reale è il figlio di un ex-primo ministro australiano William McMahon. Fra gli ospiti ci sono Kylie Minogue (che interpreta se stessa) e Hugh Jackman (che in realtà non compare). Lilly Schumacher (Molly Griggs) segretaria del presidente, che ha le idee molto chiare su come vuole che le cose cambino, e Colin Trask (Dan Perrault), agente dei servizi segreti esilarante nel suo vagamente patetico timore reverenziale, cercano di tenere tutto sotto controllo.

A “dare l’allarme” è stato il  grido di shock della suocera del presidente, Nan Cox (Jane Curtin), che ha trovato il cadavere. Chi sarà il colpevole fra i numerosi idiosincratici personaggi? Molti avevano litigato con il leale e severo Wynter quella sera. L’assistente usciere Jasmine Haney (Susan Kelechi Watson, This is us) che fa da cicerone e spiega come funziona la gestione della casa, che sperava di prenderne il posto prima che lui rinunciasse ancora alla pensione? La valletta Sheila Cannon (Edwina Findley) perennemente ubriaca che rimpiange l’amministrazione precedente e le è stato impedito di interagire con gli ospiti durante la serata? Il pasticcere Didier Gotthard (Bronson Pinchot) la cui creazione è stata relegata in una stanza meno prestigiosa o la chef Marvella (Mary Wiseman) che arrabbiata lo aveva minacciato di morte? Magari il fratello del presidente Tripp Morgan (Jason Lee) che vive lì in modo parassitario? Forse la cameriera Elsyie Chayle (Julieth Restrepo) o l’ingegnere-idraulico Bruce Geller (Mel Rodriguez)? Non lo rivelerò se non per dire che l’immagine del/la colpevole è fra le immagini dei personaggi indicati della locandina della serie.

Cordelia Cupp, tutta sicura di sé al punto da essere perfino arrogante, e arguta nelle battute di spirito, impaurisce con la sua calma gli interrogati. Il più delle volte si siede in silenzio davanti a loro che si contorcono a disagio e finiscono per spifferare tutto. È gioiosa perché sa di essere brava. I tempi comici sono impeccabili ed Edwin Park le fa da spalla alla perfezione, sempre un passo indietro e a rincorrerla sia fisicamente che metaforicamente nei suoi ragionamenti, un po’ impressionato un po’ intimorito. Fa uscite inaspettate, come quando alla domanda di come definisca il sesso dice che è qualcosa che le piace di più dei beni immobili e meno del bird-watching. E quest’ultima passione travolge tutto, perché è sempre un momento buono per praticarla e perché fornisce ottimi paragoni in quello che sta per dire, spesso davanti all’esasperata reazione degli altri. Le prove si accumulano, le relazioni fra i vari personaggi vengono alla luce.  

Uno spassoso whodunit di puro intrattenimento.  

lunedì 25 marzo 2024

A MURDER AT THE END OF THE WORLD: omicidi e tecnologia

Salutata come una delle migliori serie del 2023 da molte testate, ho dovuto dare una chance a A Murder at the End of the World (Star – Disney+), pur non essendo un genere troppo nelle mie corde: non mi ha delusa, anzi. Questo thriller psicologico infarcito di tecnologia, e un monito proprio ai suoi rischi, ideato da Brit Marling e Zal Batmanglij (The OA) per FX, è intrigante nella tradizione di Agatha Christie e di quei gialli che mettono tutti i presunti colpevoli in un unico luogo, e si chiude con un colpevole inaspettato e credibile magari chi è più avvezzo di me a seguire questo genere di storie l’avrà capito prima, ma io da sola non ero riuscita ad individuarlo.

Protagonista è Darby Hart (Emma Corrin, The Crown), hacker, scrittrice di gialli e lei stessa detective amatoriale che ha imparato un po’ il mestiere accompagnando fin da piccola il padre sulle scene del crimine, dove si recava professionalmente come patologo, e all’obitorio – è la “Sherlock Holmes della Generazione Z”, come l’ha definita la stampa. Viene invitata, insieme ad altre otto persone, da Andy Ronson (Clive Owen), un miliardario visionario nel campo della tecnologia, in un’isolata struttura simil-alberghiera, sotto la quale c’è il suo rifugio-bunker, in una sua proprietà nella gelida Islanda, per un “ritiro”. Lì lui vive insieme alla moglie Lee (Brit Marling, la co-ideatice della serie) e al figlioletto Zoomer (Kellan Tetlow). Ognuno ha una propria stanza e a gestire le loro esigenze c’è Ray (Edoardo Ballerini), un maggiordomo-assistente di intelligenza artificiale o, come preferisce definirlo il magnate, di “intelligenza alternativa”. Questo fa sì anche (e questo è uno dei temi trattati) che siano sorvegliati costantemente. In un momento storico in cui si è sull’orlo di una catastrofe climatica globale (siamo alla fine del mondo anche metaforicamente), queste menti brillanti sono chiamate per dare il proprio contributo.

ATTENZIONE SPOILER, PER LA PRIMA PUNTATA

Altri ospiti sono un genio della robotica, Oliver (Ryan J. Haddad); un climatologo, Rohan (Javed Khan); la progettatrice cinese di città smart, Lu Mei (Joan Chen); un’attivista iraniana, Ziba (Pegah Ferydoni); una dottoressa, Sian (Alice Braga); un regista che nelle sue creazioni usa l’intelligenza alternativa, Martin (Jermaine Fowler); un uomo d’affari collaboratore del miliardario, David (Raúl Esparza). Qui, fra loro, Darby è però sorpresa di incontrare anche Bill Farrah (Harris Dickinson), il ragazzo che ama e con cui tempo prima anni prima aveva dato il via a un’investigazione che li aveva portati a smascherare un serial killer di donne, poi l’oggetto del suo romanzo, ma che l’aveva lasciata sei anni prima scrivendole sullo specchio della stanza di motel che condividevano “Penso che questo sia troppo e non abbastanza”. Nel frattempo è diventato un artista. Ora, nel rivederlo, Darby vuole parlargli, ma riesce solo ad assistere alla sua tragica morte. Vuole scoprire il colpevole e quando altre morti si verificano, decide ufficialmente di indagare, rischiando lei stessa la vita più volte.

Le vicende della candida, glaciale Islanda – complice la scenografia mozzafiato si richiama l’estetica dei gialli scandinavi – si alternano a momenti di flashback in cui Darby ripercorre alcune delle tappe salienti della sua formazione da detective e della sua relazione con Bill, che danno spessore al suo personaggio, una ragazza volitiva e curiosa dall’apparenza quieta e riservata, e movimentano la narrazione permettendo anche un cambio di scenario.

C’è sempre una buona suspense (penso alla bella 1.05, in questo senso, and esempio) e inaspettati colpi di scena.  Si rimane sul classico con tropi di questo genere di narrazioni (ad esempio la tempesta di neve che impedisce loro di andarsene – 1.04) e il tono ha infatti anche un che di senza tempo, nonostante si sia immersi in un contesto anche altamente tecnologico (quanto meno per l’epoca attuale, facilmente fra vent’anni rideranno a questa mia affermazione) che vuole riflettere sui mandati che vengono dati all’AI e sui suoi limiti, per quanto in maniera anche ingenua per chi si occupa di etica degli algoritmi. Una visione intrigante, a cui si può perdonare l’ampiamente visibile product placement della Coca-cola, ma anche in qualche maniera rilassante.  

lunedì 9 gennaio 2023

MOONHAVEN: fantascienza hippy

Siamo nel futuro. La Terra è diventata un intollerabile inferno e sta morendo, la gente vive nello smog più oppressivo, non ha cibo e acqua pulita, ci sono guerre e conflitti costanti. Un’intelligenza artificiale (IO), la matrice computerizzata più sofisticata mai costruita, è stata spedita sulla Luna perché si creasse un ambiente e una società utopica che, tre generazioni dopo, tornasse sulla terra a salvarla. Ora è arrivato quel momento: questa è la premessa di Moonhaven (AMC+), che dopo le prime 6 puntate della prima stagione era stata già confermata per una seconda, anche se poi purtroppo la rete ha fatto marcia indietro cancellandola per un piano generale di riduzione dei costi. 

Bella Sway (Emma MacDonald) un nome che, ci viene ricordato, è legato a bellezza in italiano, ma alla guerra pensando al latino —, una pilota terrestre, ha intenzione di contrabbandare della merce con la scusa di accompagnare sulla luna l’Inviata umana (la Envoy, in originale) dell’intelligenza artificiale Indira Mare (Amara Karan) per dare inizio al “Ponte” perché i Lunari possano ritornare sulla Terra ad aiutarla. Arrivata lì però, viene uccisa la sorellastra che non sapeva di avere, Chill (Nina Barker-Francis), e due detective (anzi ‘tective, nel gergo) della polizia locale, Paul (Dominic Monaghan, Lost – come non sorridere quando gli fanno pronunciare la battuta “I am lost”) e Arlo (Kadeem Hardison) indagano: a uccidere la ragazza è stato un certo Strego (Adam Isla O’Brian). Appare presto chiaro che sotto c’è una cospirazione, in cui è coinvolta anche la guardia del corpo dell’Inviata terrestre, Tomm (Joe Maganiello), e forse la stessa “reggente” della Luna, a capo del Consiglio, Maite (Ayelet Zurer), che ha come sua seconda Sonda (Yazzmin Newell). Alcuni giovani, fra cui Wish (Josh Tedeku), figlio di Arlo, si accingono alla partenza, perché sono quelli che chiamano “First Wavers”, i giovani della prima ondata che si sono preparati per la missione di rendere ri-abitabile la superficie del terzo pianeta dal sole. I ribelli separatisti che vogliono l'autonomia della Luna e lasciare la Terra al suo destino però aumentano: “Liberate Lune! Fermate il Ponte!” (1.04). Già in passato, peraltro, sul nostro satellite, era stata inviata una colonia, ma la situazione era andata male e l’esperimento terminato e ricominciato: con il nome di “Primo”, è una parte ancora selvaggia dove i vecchi coloni sono sepolti. Paul, insieme alla compagna Lone (Elaine Tan), cresce anche una figlioletta molto precoce per la sua età, Elma (Martha Malone), mentre sul lavoro viene affiancato da una giovane apprendista, Blu (Robyn Holdaway)

Di fronte alla situazione distopica del nostro pianeta, c’è quella utopica della Luna (Moon, Lune), e qui sta proprio l’originalità delle creazione di Peter Ocko (Lodge 49, che viene richiamato in certi modi di sentire la realtà) che mescola fantascienza, fantasy, giallo e atmosfere hippy. È stato pubblicizzato come thriller di suspense, e colpi di scena ce ne sono diversi, fino in ultimo. ma a dominare è l’atteggiamento un po’ new age, non proprio da setta ma quasi. I Lunari, vestiti di colori sgargianti di ogni tipo, dall’aspetto vagamente induista, si intrattengono nel verde in balli e canti, con cui punteggiano le loro giornate, sono motivati da nobili sentimenti, e gli stessi detective sono più interessati ad aiutare le persone emotivamente, che altro. Del resto nulla sfugge all’intelligenza artificiale che sa tutto di loro, grazie anche a un impianto sottopelle nella schiena, e che i ribelli si tolgono. Anche se, sottolinea l’idealista Paul, non li controlla, ma impara da loro – hanno letto Orwell, Kazuo e Mwangi, dice (1.01), e lo ribadisce in seguito anche Arlo (1.06). Parte del loro obiettivo nel ritornare sulla terra è anche di portarsi dietro un modo di pensare nella convinzione che il potere tecnologico di risolvere i problemi del pianeta possa distruggere gli umani se non si accompagna a una cultura in grado di contenerla.

In questa società, pacifica e in sintonia con la natura, figli e genitori biologici si vedono solo al momento della nascita e della morte - in cui si è elevati verso il cielo appesi su delle lettighe a degli alberi, non sotterrati (1.04). Tutti crescono i figli altrui, nella convinzione che il sangue porti sangue e che darci peso porti alla costruzione di famiglie e conseguentemente di tribù, di nazioni e così alle guerre. Loro credono in quelli che chiamano legami d’acqua. Io non sono molto convinta, ideologicamente parlando, ma è affascinante da contemplare. Mi sono domandata che senso avesse vedere i propri progenitori al momento del trapasso, dal momento che di fatto sono estranei, ma mi sono venuti incontro proprio rispondendo a questo quesito formulato dalle labbra di Bella: è solo un tributo ai vecchi costumi.

Ogni realtà porta con sé un linguaggio e qui ci sono numerosi neologismi (almeno in inglese) che si apprendono in modo naturale a mano a mano che si procede con la visione: come “gratz” per dire “grazie” o “doda” per dire “papà”, “mada” per dire “mamma”.

Moonhaven si interroga sulla natura umana, e se sia destinata al male, e su quali siano i meccanismi che la spingano ad autodistruggersi o al contrario a migliorarsi. Si riflette sul ruolo della conoscenza – e c’è un effettivo “albero della conoscenza” in questa sorta di Eden. “Non sopravviviamo a dispetto delle nostre ferite, ma sopravviviamo a causa di esse” (1.05), asserisce Bella. Nel nuovo mondo c’è armonia, o forse un’illusione di armonia, ma io ci ho visto una sorta di valore protrettico, di esortazione a una nuova filosofia, a un nuovo modo di concepire i rapporti umani e con la natura che ci circonda, ma non è una paternale ambientalista e anti-capitalista. È un’esperienza delicata ed eterea, stravagante e con un che di magico, con cui bisogna entrare in sintonia, e non necessariamente adatta al palato di tutti.

Apprezzarlo alla fine è questione di feeling. Io sono riuscita a lasciarmi trasportare anche con un po’ di stupore per i loro riti e, a sentimento, mi è piaciuta parecchio.

lunedì 17 gennaio 2022

ONLY MURDERS IN THE BUILDING: erotetica, umoristica, transmediale

È la quintessenza della narrazione erotetica Only Murders in the Building (Disney+), ibridata con umorismo venato di malinconia e consapevolezza trasmediale: domande, domande domande la cui risposta ci accompagna nella risoluzione di un giallo – “hai sempre avuto bisogno di sapere che cosa era successo”, dice la madre alla figlia protagonista (1.06) ricordando i tempi in cui cercava di raccontarle le favole.

Tre inquilini dell’Arconia, un complesso di appartamenti nell’Upper West Side di New York, condividono una grande passione per i podcast di true crime. Charles-Haden Savage (Steve Martin) è un attore televisivo che ha un passato di successo nel ruolo di Brazzos, un investigatore del piccolo schermo; è un uomo solo finchè non comincia a frequentare una musicista che suona il fagotto che vive nel suo stesso palazzo, Jan (Amy Ryan). Oliver Putnam (Martin Short), che fra tutti è quello che è trascinato dal maggior entusiasmo, è un regista di Broadway dalle alterne fortune ora in difficoltà; a sostenerlo riluttantemente è solo un vecchio amico produttore, Teddy Dimas (Nathan Lane). Mabel Mora (Selena Gomez) è una ristrutturatrice di appartamenti che già da piccola frequentava l’edificio. Un giorno proprio lì si verifica un omicidio: a morire è Tim Kono (Julian Cihi), ma mentre gli investigatori credono che sia stato un suicidio, i tre la pensano diversamente e decidono di investigare e contemporaneamente produrre loro stessi un podcast sulle indagini. Mabel lo tiene inizialmente nascosto ai suoi due nuovi anziani amici, ma da bimba era una grande amica di Kono che faceva parte di un gruppo da lei chiamati i suoi Hardy Boys, dal nome di una collana di gialli per ragazzi che ruota intorno ad adolescenti che sono segugi dilettanti, perché con loro si divertiva a risolvere piccoli misteri. Già un’altra amica del gruppo, Zoe, aveva perso la vita anni fa ed un altro di loro, Oscar (Aaron Dominguez), era stato condannato perché ritenuto responsabile. 

Ideata da Steve Martin e John Hoffman (Grace and Frankie), la serie può contare su un improbabile trio che, a dispetto dell’età dei protagonisti, funziona alla grande. Sarà anche che è occasione di commenti fra loro e si gioca con gusto sullo scarto generazionale, ma non suona mai viscido che due uomini anziani trascorrano così tanto tempo con una donna giovanissima. E la Gomes, di fronte a due pesi massimi come Martin e Short se la cava più che egregiamente, contrappunto serioso e sardonico alla effervescente verve dei due. Le loro vite segretamente solitarie trovano nella passione comune genuino affetto e amicizia. Mi ha fatto pensare a una sorta di versione umana di Scooby Doo.

Si fa anche ilarmente la parodia del genere, come quando ad essere sospettato è Sting, che nel ruolo di sé stesso sta con autoironia al gioco, e si scherza con le sue canzoni (1.03; 1.04). Non so se ho mai riso così di gusto come quando Oliver si è trovato in ascensore con il cantante e ha detto al proprio cane di non stare troppo vicino alla star, utilizzando umoristicamente il titolo di una canzone dei Police “Don’t stand so close to me”, il gruppo di cui Sting faceva parte.  

Di fatto si arriva anche a una conclusione del giallo – ci sono thriller e suspense - e anche con un apprezzamento per il fandom: qui irriducibili appassionati vengono coinvolti nella storia dei protagonisti. C’è una certa eleganza formale - la sigla è evocativa di certe copertine del New Yorker - e anche il gusto di provare qualcosa di innovativo.  Come ha scritto acutamente Gregory Lawrence su The Collider, “(è) Edgar Wright che incontra 30 Rock. È audace ma calmo, terrificante ma confortante, triste ma sciocco, satirico ma empatico - ed è tutte queste cose servite da chef che si fidano di te, perché tu ti fidi di loro”. E a proposito di 30 Rock, anche Tina Fey compare fra le guest star.

Brioso e coinvolgente, divertente con cuore: uno dei debutti più forti del 2021. 

venerdì 22 gennaio 2021

DEAD STILL: un giallo umoristico


È un giallo a tinte gotiche con un ritmo molto rilassato e venato di sottile umorismo la produzione irlandese-canadese (Acorn TV, CityTV) Dead Still, che ha come protagonista un fotografo di Dublino del 1880 specializzato nella ritrattistica dei defunti – è risaputo che all’epoca era consuetudine fotografare i morti per avere un ultimo ricordo del caro estinto. Se in inglese “dead still” può significare “immobile come un morto”, qui ha proprio il senso di “fotogramma del defunto”.

Brock Biennerhasset (Michael Smiley, Luther), azzoppato accidentalmente dal fidato cocchiere Cecil (Jimmy Smnallhorne) che gli fa cadere l’attrezzatura su un piede, è il fotografo commemorativo di cui sopra, ex-becchino, molto preciso e un po’ burbero. Un giovane scavafosse con la passione per il disegno a matita, Conall Malloy (Kerr Logan), lo considera un vero pioniere della sua professione e riesce a farsi assumente come assistente. Ad affiancarlo c’è anche Nancy (Eileen O’Higgins), aspirante attrice, la giovane nipote figlia della sorella. In città, mascherati da apparenti suicidi, cominciano a verificarsi una serie di omicidi, che vengono poi immortalati su pellicola. L’investigatore della polizia locale, Regan  (Aidan O’Hare), vorrebbe coinvolgere Brock nell’investigazione, ma lui è riluttante, sebbene finisca  per essere molto più coinvolto negli eventi di quanto non sembrerebbe di primo acchito.

Le sei puntate della prima stagione  scivolano via con leggerezza, con una trama verticale di usuali storie di case apparentemente infestate da fantasmi, sedute spiritiche, rapimenti e qualche foto hard, e l’effettivo lavoro di far sembrare vitali corpi ormai in rigor mortis, e la trama orizzontale degli omicidi che coinvolgono i protagonisti in un crescendo. Ci si avvale del repertorio classico di questo genere di narrazioni: figure in parte in ombra, immagini evanescenti, personaggi ultraseri, figure che puntano il dito verso il nulla, arcani segreti… ma si è troppo ironici per essere veramente macabri, o per non dimostrare consapevolezza che si gioca con cliché abusati. Lo humor sfocia in momenti di più schietta comedy.

La scrittura di John Morton, co-ideatore insieme a Imogen Murphy che è regista di 4 delle 6 puntate, riflette sul senso della morte e sul valore dello scatto fotografico, e anche di questi tipo specifico di arte post-mortem, nel suo più esplicito valore mnemonico, ma pensata per dare conforto, per mostrare l’umanità di chi ormai è scomparso, con il senso quasi di una vocazione. “Non interrogo la tragedia” dichiara il protagonista (1.05), che cerca solo di preservare l’essenza della persone per sempre. Le fotografie sono i nostri veri fantasmi e catturano l’anima. Ci si sofferma anche sul parallelismo fra questo genere e la fotografia delle scene del crimine, e sull’etica della professione.

La puntata finale chiude l’arco senza sbavature, ma in forma di un biglietto, apre a un mistero per una  seconda stagione.  

lunedì 24 settembre 2018

SHARP OBJECTS: feroce e intenso



Dolorosa. Elegante. Quieta. Atroce. Asciutta. Sorprendente. È stata tutto questo l’intensa, pacata miniserie Sharp Objects dall’omonimo romanzo - “Sulla Pelle” in italiano - di Gillian Flynn, anche sceneggiatrice in alcune delle puntate, ma portato sullo schermo da per la HBO da Marti Noxon (Dietland, Buffy) e Jean-Marc Vallée, regista di tutte otto le puntate come era già stato per Big Little Lies.

Siamo a Wind River; una piccola comunità del Missouri. Un giovane donna è stata assassinata e le sono stati tolti tutti i denti, e un’altra è scomparsa, e poi lei pure viene trovata uccisa, e Camille Parker (una Amy Adams che sa essere un nervo scoperto e mostra che vale tutte le 5 nomination agli Oscar ricevute nella sua carriera) è una giornalista che viene mandata dal suo capo-mentore-amico Frank (Miguel Sandoval) a scrivere un reportage sugli eventi perché si tratta della sua città natale, dove ancora risiede la sua famiglia. Camille, che beve come una spugna e ha un passato di intenso autolesionismo –l’intero suo corpo è un groviglio di cicatrici che di è autoinfllitta scrivendosi delle parole sulla pelle e che nasconde sotto gli abiti – con il ritorno a casa deve fare i conti con i demoni riaffioranti del passato, e in particolare con la madre Adora (Patricia Clarckson), che già ha perso una figlia, Marian, in circostanze misteriose, e con la sorellastra adolescente Amma (Eliza Scanlen), che a casa si sottomette al ruolo di santerellina impostale dalla famiglia, ma che, fuori con le amiche nel passatempo cittadino del pattinaggio a rotelle, rivela una capricciosa anima persa più oscura e pericolosa. Oltre al capo della polizia locale (Matt Craven), indaga sul caso il detective Richard Willis (Chris Messina).

ATTENZIONE SPOILER IN QUESTO PARAGRAFO. “Non dirlo alla mamma”, sono le parole pronunciate in chiusura di “Milk” (1.08). Nell’ultimo minuto, per non dire nel’ultimo secondo, Camille capisce che è la sorella l’assassina; e per non lasciare il dubbio che si tratti solo di un suo sospetto, a metà dei titoli di coda finali, si ha un piccolissimo inserto in cui la si vede insieme alle amiche commettere il delitto. Nella puntata precedente (1.07) si era scoperto che era stata invece la madre a causare la morte delle figlia adolescente anni prima. Soffrendo di Sindrome di Munchausen per procura, la avvelenava per potersene prendere cura, come da anni ormai faceva con Amma e prova ora a fare con Camille. 

Non è però tanto il giallo il fulcro di interesse delle vicende, quanto la psiche torturata e l’universo interiore di Camille. I ricordi le affiorano alla memoria come stilettate, in fugacissimi intrusivi frammenti mnemonici che a flashback le compaiono davanti agli occhi come potrebbe accadere a ciascuno di noi. Non c’è un ricordo passato completo e compiuto, ci sono dettagli elicitati da una parola, o un banalissimo stimolo di qualunque altro tipo. È la vita passata che intrude in quella presente e la riempie di significati altri, in questo caso penosi, spesso insopportabili.  

Con un’eleganza anche più raffinata di quella che Vallée ci aveva mostrato in Big Little Lies si scava in emozioni intense e multivalenti e si indaga la difficoltà di creare intimità. Quello che si dice in fondo è come l’essere veramente nudi consista nel rivelare se stessi nella propria vulnerabilità, come sia difficile lasciarla vedere - in questo senso la scena intima fra Camille e John Keene (Taylor John Smith), il fratello della seconda vittima sospettato di averla uccisa, in 1.07 è stata un vero capolavoro -  e come sia difficile prendersene cura - come mostra l’allontanamento di Richard da Camille in chiusura. Rabbia,  manipolazione, negazione, il morso dei problemi mentali, il desiderio di popolarità e i mostri che ne derivano sono in primo piano. Una thriller psicologico feroce che non mola mai la presa.