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lunedì 25 marzo 2024

A MURDER AT THE END OF THE WORLD: omicidi e tecnologia

Salutata come una delle migliori serie del 2023 da molte testate, ho dovuto dare una chance a A Murder at the End of the World (Star – Disney+), pur non essendo un genere troppo nelle mie corde: non mi ha delusa, anzi. Questo thriller psicologico infarcito di tecnologia, e un monito proprio ai suoi rischi, ideato da Brit Marling e Zal Batmanglij (The OA) per FX, è intrigante nella tradizione di Agatha Christie e di quei gialli che mettono tutti i presunti colpevoli in un unico luogo, e si chiude con un colpevole inaspettato e credibile magari chi è più avvezzo di me a seguire questo genere di storie l’avrà capito prima, ma io da sola non ero riuscita ad individuarlo.

Protagonista è Darby Hart (Emma Corrin, The Crown), hacker, scrittrice di gialli e lei stessa detective amatoriale che ha imparato un po’ il mestiere accompagnando fin da piccola il padre sulle scene del crimine, dove si recava professionalmente come patologo, e all’obitorio – è la “Sherlock Holmes della Generazione Z”, come l’ha definita la stampa. Viene invitata, insieme ad altre otto persone, da Andy Ronson (Clive Owen), un miliardario visionario nel campo della tecnologia, in un’isolata struttura simil-alberghiera, sotto la quale c’è il suo rifugio-bunker, in una sua proprietà nella gelida Islanda, per un “ritiro”. Lì lui vive insieme alla moglie Lee (Brit Marling, la co-ideatice della serie) e al figlioletto Zoomer (Kellan Tetlow). Ognuno ha una propria stanza e a gestire le loro esigenze c’è Ray (Edoardo Ballerini), un maggiordomo-assistente di intelligenza artificiale o, come preferisce definirlo il magnate, di “intelligenza alternativa”. Questo fa sì anche (e questo è uno dei temi trattati) che siano sorvegliati costantemente. In un momento storico in cui si è sull’orlo di una catastrofe climatica globale (siamo alla fine del mondo anche metaforicamente), queste menti brillanti sono chiamate per dare il proprio contributo.

ATTENZIONE SPOILER, PER LA PRIMA PUNTATA

Altri ospiti sono un genio della robotica, Oliver (Ryan J. Haddad); un climatologo, Rohan (Javed Khan); la progettatrice cinese di città smart, Lu Mei (Joan Chen); un’attivista iraniana, Ziba (Pegah Ferydoni); una dottoressa, Sian (Alice Braga); un regista che nelle sue creazioni usa l’intelligenza alternativa, Martin (Jermaine Fowler); un uomo d’affari collaboratore del miliardario, David (Raúl Esparza). Qui, fra loro, Darby è però sorpresa di incontrare anche Bill Farrah (Harris Dickinson), il ragazzo che ama e con cui tempo prima anni prima aveva dato il via a un’investigazione che li aveva portati a smascherare un serial killer di donne, poi l’oggetto del suo romanzo, ma che l’aveva lasciata sei anni prima scrivendole sullo specchio della stanza di motel che condividevano “Penso che questo sia troppo e non abbastanza”. Nel frattempo è diventato un artista. Ora, nel rivederlo, Darby vuole parlargli, ma riesce solo ad assistere alla sua tragica morte. Vuole scoprire il colpevole e quando altre morti si verificano, decide ufficialmente di indagare, rischiando lei stessa la vita più volte.

Le vicende della candida, glaciale Islanda – complice la scenografia mozzafiato si richiama l’estetica dei gialli scandinavi – si alternano a momenti di flashback in cui Darby ripercorre alcune delle tappe salienti della sua formazione da detective e della sua relazione con Bill, che danno spessore al suo personaggio, una ragazza volitiva e curiosa dall’apparenza quieta e riservata, e movimentano la narrazione permettendo anche un cambio di scenario.

C’è sempre una buona suspense (penso alla bella 1.05, in questo senso, and esempio) e inaspettati colpi di scena.  Si rimane sul classico con tropi di questo genere di narrazioni (ad esempio la tempesta di neve che impedisce loro di andarsene – 1.04) e il tono ha infatti anche un che di senza tempo, nonostante si sia immersi in un contesto anche altamente tecnologico (quanto meno per l’epoca attuale, facilmente fra vent’anni rideranno a questa mia affermazione) che vuole riflettere sui mandati che vengono dati all’AI e sui suoi limiti, per quanto in maniera anche ingenua per chi si occupa di etica degli algoritmi. Una visione intrigante, a cui si può perdonare l’ampiamente visibile product placement della Coca-cola, ma anche in qualche maniera rilassante.  

giovedì 17 agosto 2023

FLEISHMAN IS IN TROUBLE: una miniserie su...tutto

“Avevo trascorso l’intera estate ad ascoltare la storia di Toby, vedendola solo attraverso i suoi occhi. Avevo dimenticato una verità essenziale del giornalismo, cioè che dovresti sempre domandarti, quando ascolti la versione delle cose di qualcuno, cosa l’altra persona nella storia, quella che non era lì, direbbe se lo fosse. Avevo dimenticato quella lezione, che avevo imparato da ogni storia che ho mai scritto. Era che non ci sono veri cattivi nella vita, non veramente. Non ci sono nemmeno veri eroi. Ognuno è grande e ognuno è terribile e ognuno ha dei difetti, e non ci sono eccezioni a questo.” (1.07) Queste è un po’ l’ethos di Fleishman is in trouble - Fleishman a pezzi (di FX e Hulu, su Disney+ in Italia), per bocca di Libby (Lizzy Caplan, Masters of Sex), migliore amica del protagonista e narratrice in voice-over nella serie. Tratta dall’omonimo romanzo di Taffy Brodesser-Akner, qui showrunner al suo esordio, la serie, quasi in chiusura nella spettacolosa puntata del sottofinale, chiosa così il ribaltamento di prospettiva della narrazione a cui abbiamo assistito, che ha rivelato come centrale una tematica diversa da quella che sembrava in corso di via.

POSSIBILI SPOILER A SEGUIRE.
Toby Fleishman (Jesse Eisenberg, The Social Network) è un medico epatologo che ha da poco divorziato dalla moglie Rachel (Claire Danes, Homeland), una agente teatrale molto affermata, ambiziosa e di successo, dopo 15 anni di matrimonio. Deve re-imparare a vivere senza di lei. Il suo mondo è capovolto - letteralmente (la regia offre occasionalmente inquadrature capovolte). Hanno avuto due figli insieme, Hannah (Meara Mahoney Gross) e Solly (Maxim Swinton), di 11 e 9 anni. Un giorno, apparentemente di punto in bianco, Rachel svanisce nel nulla e Toby si trova a trascurare il lavoro per gestire da solo i due figli ancora piccoli. Si confida con i migliori amici di sempre, Libby e Seth (Adam Brody, the OC).

Attraverso la prospettiva di lui si esplorano molte tematiche: il matrimonio e il divorzio e la difficoltà di trovare nuove persone con cui uscire, il lutto della perdita di una relazione, l’educazione dei figli, il privilegio, la disparità economica e la distribuzione della ricchezza, l’importanza o meno del successo economico e dell’appagamento professionale, il potere di non avere obbligazioni, la forza dei legami, le differenze fra la mezza età e la gioventù (ci si sposa troppo presto? Si cambia?), la solitudine (avere molto amore e non sapere dove metterlo - 1.05), l’importanza di ascoltare, il senso della possibilità e il senso vita…temi affrontati in modo profondo e leggero insieme, anche in modo frammentario un po’ come accade nella realtà dove le questioni si intrecciano e ritornano. Libby, una giornalista che ha lasciato la carriera per fare la mamma a tempo pieno, pure si sente persa anche se il suo matrimonio con Adam (Josh Radnor, How I met your mother) non è proprio in crisi, insoddisfatta, incerta di che cosa fare nella vita, con l’opprimente sensazione che le opzioni a sua disposizione siano drasticamente diminuite a seguito delle scelte che ha fatto, senza che se ne rendesse conto.

In un momento molto meta, che commenta libro e serie e anche anticipa quella che poi sarà a quel punto l’attesa conclusione, si osserva che parla “di tutto”: “riguarda la vita e il matrimonio e i soldi e l’insoddisfazione e l’amicizia di una vita e come tutte queste cose si fondono nella mezza età, rendendoti infelice” (1.08): “Come si può essere così disperatamente infelici quando si è così sostanzialmente felici?” (1.08) quando apparentemente si ha ciò che è necessario e ciò che si è voluto? La crisi di mezza età colpisce tutti loro amici, e naturalmente ha un valore metaforico la visita di Toby insieme ai figli al museo di storia naturale di New York, dove è affascinato, attratto e respinto, da una “esibizione” di Vantablack, il materiale più scuso mai realizzato dall’uomo. Tutto il cast, di attori sia eccellenti che benvoluti, brilla.

Il colpo di scena che cambia la prospettiva, prima di tornare sul binario iniziale, è una storia di depressione post-partum e anche violenza ostetrica. Nella puntata “Me-Time” (1.07) spicca il tour de force di Claire Danes, in particolare in un momento in cui piange durante una sessione con un gruppo di supporto e ancor di più in seguito in una citatissima scena in cui si lancia in un potente feroce grido catartico in cui si coagulano tutte le emozioni di una vita segnata dall’abbandono e votata al superlavoro come mezzo di compensazione. Memorabile.

La serie è concepita come autoconclusiva e me ne dispiace, anche in considerazione del fatto che l’autrice, nel corso delle tavole rotonde di The Hollywood Reporter di quest’anno, ha dichiarato che lei sarebbe disponibile ad andare avanti indefinitamente. Vorrei una seconda stagione che non ci sarà; in ogni caso sono già grata di questa che considero fra le migliori visioni dell’anno.

NB: Ho seguito la serie in originale e le traduzioni sono mie. La versione italiana ufficiale potrebbe essere diversa.

mercoledì 8 dicembre 2021

ACS: IMPEACHMENT: nulla di nuovo

Anche ad aver vissuto in una caverna - e per me all’epoca, con una MECFS severa era un equivalente - a essere stati in vita nella seconda metà degli anni ‘90, difficilmente non si conosce lo scandalo di Monica Lewinsky e dell’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, oggetto della terza stagione di American Crime Story, la serie stagionalmente antologica di Ryan Murphy, con un capitolo intitolato “Impeachment” (di FX, in Italia su Fox). Doveva essere la quarta stagione, ma la terza sull’uragano Katrina è stata abbandonata, e questa è diventata la terza.

Se ripenso a quella storia nella vita reale, due immagini mi rimangono indelebili, quella di Clinton che abbraccia la stagista, con lei che indossa un basco blu, e quella di lui che, con un dito alzato, dichiara “non ho avuto una relazione sessuale con quella donna”. La prima torna qui, la seconda no (forse ho un ricordo falsato io?), ma in compenso si spiega bene il come “relazione sessuale” sia stata intesa allora, così come definita dai legali di Paula Jones (Annaleigh Ashford, Masters of Sex), che per prima aveva fatto causa all’ex-governatore dell’Arkansas.

La serie sceglie di non mostrare alcun atto fra Bill (Clive Owen) e Monica (Beanie Feldstein) – se qualcuno si aspetta qualcosa di pruriginoso ha sbagliato indirizzo. Se ho apprezzato che non ci sia stato un taglio scandalistico, mi sono interrogata di continuo, in corso di via, se sia stata la scelta migliore non mostrare nulla di nulla. Le vicende si sono chiarite, ma mi è rimasta dalla visione la stessa idea che avevo avuto allora, ovvero di una stagista in fondo ingenua e realmente innamorata di un uomo che se ne è approfittato, e di una macchina politica tritatutto che ha cercato di cogliere ogni occasione per screditare e affossare l’avversario, ma senza che i coinvolti volessero attivamente ferirsi a vicenda. Sicuramente da parte della ragazza, resa dalla Feldstein con molta dolcezza, c’è il reiterato desiderio di proteggere da ogni possibile danno un uomo contro il quale alla fine fa dichiarazioni solo al fine di proteggersi. Più volte la mostrano che vuole chiamare Betty Currie (Rae Dawn Chong), la segretaria personale del presidente.

La mia aspettativa, disattesa, era di una rilettura delle vicende non tanto in termini di strumentalizzazione politica e giornalistica delle vicende – la brutalizzazione del carattere delle persone è una costante -, ma in prospettiva del #metoo. La realtà è diversa da allora, e non solo per la tecnologia che vedeva ai tempi un internet appena nascente, ma per una cultura di consapevolezza, ora, di come le dinamiche di potere-lavoro-sesso-molestie possano rendere vulnerabili le persone, di come sia indispensabile il consenso e di come in alcune situazioni possa essere difficoltoso definirlo. E forse in questo, mostrare qualcosa in più poteva avere un senso. L’unica che in fondo è sembrata indignata di come Monica venisse usata è quella Linda Tripp (Sarah Paulson) - nella vita reale scomparsa lo scorso anno - che nemmeno qui riesce a uscirne come un’eroina, troppo consumata da risentimenti personali e traditrice della fiducia dell’amica. Le sue ragioni hanno comunque il sapore di giustificazioni dell’ultim’ora per salvare la faccia. Le donne qui sono al centro, e sono vittime soprattutto di un sistema che alla fine le lascia in ogni caso sconfitte: Paula non creduta a dispetto di tutto e finanziariamente rovinata tanto da spingerla a posare senza veli, Linda derisa e vituperata, Monica magari anche apprezzata ma con addosso l’onta, e colei che muove addirittura un’accusa di stupro ignorata  - in un locale dei ragazzi vedono che c’è in onda un’intervista e chiedono di cambiare canale per una cerimonia di premiazione, stufi dell’ennesima storia su una donna finita sotto le grinfie di Clinton, che poi sarà quello che la gente perdona. E lui, giustificato dalla rabbia per la persecuzione politica a cui è sottoposto, ben poco prova rimorso per il proprio comportamento o sente di aver danneggiato queste donne. Questa amarezza in chiusura, e la consapevolezza (voglio credere non solo speranza) che oggi sarebbe andata diversamente è l’unica vera nota in questa direzione (3.10).

Sarah Burgess, showrunner che ha basato la serie sul libro “A Vast Conspiracy: The Real Story of the Sex Scandal That Nearly Brought Down a President” di Jeffrey Toobin, in un’intervista con TV’s TOP5 (qui), ha spiegato come il suo intento principale fosse quello di parlare dal punto di vista di persone che sono vicine al potere, ma sono costantemente ignorate, relegate a lavori noiosi e ripetitivi, privi di soddisfazione. Il riferimento è soprattutto a Linda Tripp, allontanata dalla Casa Bianca. Emerge la cospirazione. Quella Paula Jones un po’ tontolona, quella Tripp troppo sola, quella Monica così innamorata sono diventate facili munizioni in una guerra politica, usate anche da altre donne come l’ultraconservatrice Anna Coulter (di cui Cobie Smulters riesce bene a rendere l’odiosità), Susan Carpenter-McMillan (Judith Light) o in fondo anche dell’agente letteraria Lucianne Goldberg (Margo Martindale) ingranaggi della macchina di cui fanno parte. Loro, le donne, sono state un mezzo per affossare il presidente democratico e questo non è mai tanto evidente quando scelgono di ignorare un’accusa di stupro rivolta al capo di Stato: non c’è interesse a fare giustizia, lo scopo è incastrarlo per spergiuro e ostruzione alla giustizia.

Burgess non complica troppo le cose con personaggi secondari. Li butta lì, e se cogli chi sono bene, altrimenti la storia funziona comunque – l’americano medio mi aspetto li conosca, l’italiano medio no. Prendiamo 3.08. Quando Hillary Clinton (Edie Falco, I Soprano) ha un incontro con Stephanopoulos (George H. Xanthis), lo chiama solo George, sono l’aspetto fisico dell’attore ed eventualmente i sottotitoli che quando lui parla lo indicano per cognome (almeno quelli in inglese), che ti dicono chi è; quando sempre lei va al Today Show, e viene intervistata da Matt Lauer, lo stesso, e lo spettatore semmai può pensare a quell’intervista anche alla luce degli scandali che con il #metoo hanno coinvolto lui stesso; quando in un ufficio di consiglieri di Kenneth Starr (Dan Bakkedahl, Life in Pieces), Cavanaugh (Alan Starzinski) risulta particolarmente accanito, sta allo spettatore capire che è lo stesso che poi verrà nominato giudice della Corte Suprema da Trump.

Fra le produttrici esecutive risulta anche la stessa Monica Lewinsky. Nonostante episodi anche pressanti (penso agli interrogatori di Monica o Bill), e nonostante un cast di peso, che comprende anche Blair Underwood nel ruolo di Vernon Jordan e Colin Hanks in quello di Mike Emmick, la serie ha poco mordente, ma soprattutto non aggiunge davvero nulla di nuovo.

sabato 31 agosto 2019

FOSSE/VERDON: un pas de deux biografico


“Lui era un filmmaker e uno dei registi e coreografi teatrali più influenti; lei era la più grande ballerina di Broadway di tutti i tempi” (The Hollywood Reporter): la loro storia romantica e creativa viene ripresa dalla miniserie in otto puntate Fosse/Verdon (FX), basata sulla biografia “Fosse” di Sam Wasson, sviluppata da Steven Levenson e Thomas Kail e con produttore esecutivo, fra gli altri, Lin-Manuel Miranda (Hamilton) oltre ai due attori che interpretano i protagonisti del titolo, Sam Rockwell e Michelle Williams. La figlia della coppia, Nicole Fosse, attrice e ballerina, pure è co-produttrice esecutiva, ed è stata parte della ragione del taglio “a due” che è stato dato alla storia. Due icone della cultura americana del teatro musicale ricostruiti da contemporanei nomi pesanti di quell’ambiente.

Elegante e ricco di riferimenti che sicuramente sfuggono a chi non è esperto dell’argomento (come me), questo pas de deux biografico divaga focalizzandosi su alcuni momenti topici delle loro vite e con un obiettivo ispirato al movimento #metoo, quello di ricalibrare il mito di Bob Fosse, rinunciando allo stereotipo dell’autore maschio solitario, per mostrare più realisticamente quanto il suo successo fosse legato anche alla figura di Gwen Verdon, lei stessa brillante e grande motrice della fortuna di lui. (New York Times) 

Levenson si è domandato se quello che si accingeva a mostrare fosse solo l’ennesimo ritratto di una persona orribile che fa arte magnifica, ovvero la trita storia di un uomo brillante tormentato da demoni che lo spingono nella vita personale a fare cose terribili, ma che riesce a farsi redimere da quello che crea con il sua creatvità. Lui e gli altri coinvolti nel progetto hanno coscientemente respinto questa narrativa, in cui non credono – comportarsi male ed essere geniali non sono due cose reciprocamente necessarie, anzi – e hanno cercato di proporne una alternativa, consapevoli di come storicamente l’arte sia stata realizzata e in che modo ne è stato distribuito il merito e il credito, con forte pregiudizio sessista che ha penalizzato le donne. “Hanno deciso che il programma avrebbe esplorato, come la mette Levenson, ‘come queste complicate partnership e collaborazioni diventano la storia di una sola persona, quasi sempre l’uomo’. ‘Fosse/Verdon’ va avanti e indietro nel tempo, ma si concentra grosso modo, nella decade fra ‘Cabaret’ e ‘All that Jazz’. ‘È veramente una storia di interdipendenza e codipendenza e’ – Levenson fa una pausa qui – ‘e amore’”.   

Attraverso le otto puntate, che partono prima della premiere cinematografica nel 1969 del film Sweet Charity, che si sarebbe rivelato un costoso flop, e che si focalizzano solo su alcuni momenti, settimane o mesi, zigzagando nel tempo con una narrazione un po’ a puzzle, impariamo a conosce entrambi.

Lui, tutt’ora l’unico ad aver vinto un Tony, un Oscar e un Emmy nello stesso anno per differenti progetti, era un donnaiolo narcisista con problemi di dipendenze da droghe, stacanovista ora auto-celebrativo ora pieno di odio per se stesso, autodistruttivo e suicidario, tanto da finire in clinica psichiatrica (1.05), e negativo anche nei confronti di chi lo circondava. Aveva cominciato a lavorare giovanissimo in un locale di burlesque, e qui era stato introdotto al sesso a 13 anni. La serie è attenta a mostrare come il racconto della sua prima vota, celebrata dagli amici come una gran fortuna, e da lui stesso venduta come tale, nei suoi ricordi fosse in realtà quello che era: abuso su minore. Non si fanno grandi predicozzi, e si rimane legati allo spirito dell’epoca, ma non si rimane intrappolati nel mito, facendo ben capire la natura di quegli incontri avvenuti troppo presto che gli avevano condizionato il modo di vivere la vita sessuale successiva.

Lei era una madre attenta e una moglie presente, ma con il fuoco per il ballo e la consapevolezza della propria bravura e di essere stata un nome ben prima di lui. Costretta a sposare un uomo di cui era rimasta incinta da adolescente, era tornata a vivere con i suoi quando il matrimonio era diventato abusante. Il figlio avuto lo aveva lasciato alle cure dei suoi per tornare sulle scene, denigrata per questo. Lei, con Bob, non era solo una musa passiva, ma era un’attiva collaboratrice, non solo perché ne incarnava l’estetica e riusciva a comunicarla, ma cercata da lui per riuscire a mettere a fuoco i propri progetti. Era protettiva di lui e della sua carriera, sapendo quando e quanto lasciarlo o tenerlo.

Il loro rapporto è centrale, un’intesa intellettuale ed erotica dove lui è l’artista irascibile e temperamentale, lei la presenza calmante che lo centrava e gli dava direzione. Lui era quello che voleva brillare più di tutti e lei ne è consapevole: “non riesci a sopportare che sia io la stella, non tu” gli grida arrabbiata a un certo punto (1.07). Un matrimonio professionale anche quando non era più un matrimonio personale. Nonostante il tentativo di riequilibrio però, la leggenda Fosse rimane schiacciante, e si fatica a mostrare il contributo autonomo della Verdon che non fosse funzionale a far emergere quello di lui. Questo anche nonostante prove attoriali d’eccellenza, che ben hanno anche saputo modulare età diverse della vita dei personaggi.

Quello che il pubblico impara subito a riconoscere, se già non lo conoscesse, è lo “stile Fosse”, nei movimenti e nel loro significato: il cappello a bombetta, le silhouette, le anche oblique, le divaricate, le gambe angolose,  i movimenti a scatti ripetuti delle spalle, le mani a ventaglio, i corpi in pendenza, i movimenti sinuosi… e un retrogusto adulto, decadente, anche equivoco e cinico attraverso la forma contenuta e apparentemente gioiosa della commedia musicale. Questo è quello che si dice delle opere di questi artisti e questo è quello che la serie mostra di loro come persone.

Su The Hollywood Reporter, Daniel Fienberg,  nota come su questa miniserie c’è, solo a sentirla nominare, l’ombra lunga di Ryan Murphy che con essa non ha avuto nulla a che fare. “Non è Ryan Murphy” mi sono ripetuta più volte prima di mettermi a guardarla. È uno sguardo indagatore, riverente ma allo stesso tempo consapevole, su due vite che hanno lasciato un’impronta indelebile sulla cultura teatrale americana.   

mercoledì 8 agosto 2018

AMERICAN CRIME STORY: L'assassinio di Gianni Versace


La seconda stagione di American Crime Story, dedicata a The assassination of Gianni Versace, l’assassinio di Gianni Versace (Édgar Ramírez), della rete FX, si poggia su quattro elementi fondamentali: l’esaminazione degli elementi che fanno di un giovane ragazzo un criminale, l’omofobia, il senso estetico e la mobilità temporale.

La storia è nota: un giovane ragazzo di origine filippina, Andrew Cunanan (Darren Criss, Glee), si presenta in Florida davanti alla casa del noto stilista italiano Gianni Versace, da cui era ossessionato, e gli spara uccidendolo. Non era il primo assassinato di questo killer che in chiusura, prima che lo prendano, decide di togliersi la vita. Fra le sue vittime si incontrano altre sfortunate persone che hanno incrociato la sua strada, o come amici o come amanti più o meno occasionali. La serie indaga la vita e le motivazioni di Andrew, e ci fa scendere nella sua follia, non scusandolo per questo, ma elicitando una cum-patio che lo rende comunque umano.

Il padre, Modesto “Pete” (Jon Jon Briones), un imbroglione tormentato dall’idea fissa del successo, lo trattava con smaccato favore rispetto ai fratelli (quando comprano casa nuova al figlioletto spetta la camera matrimoniale), alla stregua un principino a cui tutto è concesso, ma abusava sessualmente di lui. Gli viene inculcato fin da piccolo che lui è speciale, e si merita tutto ciò che desidera. Crescendo però il ragazzo riesce a crearsi delle opportunità solo mentendo e assumendo ogni volta un’identità inventata diversa. Sa come deve apparire per essere al centro dell’attenzione, ma non riesce mai a essere se stesso. E non riesce a farsi amare. Come non percepire la sua tragica tristezza quando si stende vicino al cadavere di un giovane architetto che diceva di amare, David Madson (Cody Fern), ma che lo respingeva, e lo abbraccia dopo avergli sparato alle spalle? Criss è eccellente nella parte, a momenti narciso potente ed esaltato dalle stesse illusioni che crea, a momenti ragazzino deluso e fragile di fronte all’aridità della propria realtà.  

Intrecciato a tutta la narrazione c’è il grande tema dell’omofobia, pervasiva nelle vite di tutti i personaggi, che sia il giovane Gianni Versace che i compagni di scuola prendono in giro e le insegnanti qualificano come “pervertito” perché disegna abiti femminili e che deve imparare il mestiere dalla madre di nascosto; che sia il giovane militare Jeff Trail (Finn Wittrock), che in caserma vive sotto l’opprimente regola del “don’t ask, don’t tell” (2.05); che sia l’uomo d’affari che di nascosto dalla moglie cerca piacere con altri uomini; che sia il compagno di una vita di Versace, Antonio D’Amico (Ricky Martin), il cui dolore al momento del funerale non viene nemmeno riconosciuto, come se non esistente, e a cui il prete ritrae la mano sdegnato, non permettendogli di baciargliela, come ha consentito a tutto il resto della famiglia – a lui non spetta nulla; che sia infine Andrew stesso.  Non sono passati così tanti anni, ma era un mondo diverso, fatto di omertà e vergogna, spesso interiorizzata.

Della cultura omosessuale e non solo, Versace era un’icona, con una visione e un’estetica dirompente e precisa, fatta di sensazioni e percezioni, ma anche di amore e passione, e legame per la famiglia e la sorella Donatella (Penélope Cruz) in particolare. È stato un uomo con un talento vivo che ha portato in vita un sogno, da vero artista, e una persona che pur provenendo da un ambiente povero, ha saputo creare un impero. La serie, stilisticamente e cromaticamente, soprattutto in alcuni passaggi, abbraccia questa estetica.

La narrazione non segue un percorso cronologico. Si parte da quel luglio 1997 per rimbalzare indietro nel tempo, dedicando una puntata all’omicidio di Lee Miglin (2.03), nel maggio precedente,  e all’ex-ufficiale di marina Jeff Trail (2.04)  ancora prima e poi aventi e poi ancora indietro in percorso da pallina di flipper che non è mai stato lineare. Non crea confusione, ma necessariamente richiede una visione attenta e d’insieme.

La serie, basata sul libro di Maureen Orth intitolato “Vulgar Favors: Andrew Cunanan, Gianni Versace, e the Largest Failed Manhunt in US History”, è stata criticata dalla famiglia Versace che ne ha preso le distanze dichiarandola non autorizzata e da considerarsi un’opera di fantasia. Di rimando Ryan Murphy, produttore esecutivo e regista del pilot, pur ammettendo che ovviamente non si tratta di una serie documentaristica, respinge l’idea di considerarla pura finzione narrativa perché basata appunto su fonti saggistiche.

La serie, scritta da Tom Rob Smith, riesce a mescolare e far conflagrare in una visione appagante grandeur e glamour con squallore e disperazione.

mercoledì 6 giugno 2018

POSE: trans, ballroom culture, famiglia


Il debutto di Pose (sulla rete americana FX) ha convinto molto di più di quanto non ci si aspettasse perché, confezionato in una narrazione molto tradizionale, apre a un mondo totalmente sconosciuto ai più. Il senso di anticipazione per la nuova serie firmata da Ryan Murphy, che l’ha ideata insieme a Brad Falchuck e Steven Canals, già era alta: fa la storia della televisione per avere il più grande numero di attori trans come protagonisti e il più ampio cast di interpreti LGBTQ di qualunque serie di narrativa. L’Huffington Post riporta anche (qui) che tutti i proventi andranno in beneficienza a sfondo “arcobaleno” e in particolare focalizzata su gruppi transgender. 

Siamo a New York alla fine degli anni ’80 e si guarda alla “ball culture” e alla sua comunità, e al “house system” che, come spiega wikipedia e come illustra già il pilot della serie in modo molto efficace senza essere didascalico, indica una subcultura underground LGBT negli Stati Uniti, in cui le persone “sfilano” (“walk” in inglese), ovvero competono, in alcuni eventi chiamati “balls” (balli) davanti a una giuria e a un pubblico per vincere dei trofei. Alcuni si sfidano proprio nel ballo, nella house dance chiamata “voguing” (resa popolare da Vogue di Madonna e dal documentario Paris is Burning), altri nel travestimento drag, ma ricevono voti anche per i costumi, l’aspetto e l’atteggiamento. Quelli che si sfidano appartengono a “houses” (case) che sono una specie di famiglie alternative formate prevalentemente da giovani omosessuali neri e ispanici che trovano accoglienza. Queste case sono guidate da “madri” o “padri” che seguono e aiutano i “figli” della casa. Chi fra le case guadagna più trofei e riconoscimenti diventa “leggendario”.   

L’incipit della serie vede proprio i membri della House of Abundance che rubano da un museo degli abiti regali per vincere a basi basse nella gara (ve ne sono diverse) che richiede loro di vestirsi da reali –  “La categoria è…” annuncia il presentatore Pray Tell (Billy Porter) per ognuna. Questo è il biglietto da visita dello sfolgorante, scintillante mondo che stiamo per imparare a conoscere. Presto capiamo che è un costume variopinto sotto cui batte il cuore di un family drama di inclusione e accettazione. Subito dopo, con una situazione che è fin uno stereotipo per quanto tragicamente comune era - e magari è, anche se mi illudo sempre meno -, ci viene presentato Damon (Ryan Jamaal Swain): ha diciassette anni e adora ballare; quando confessa al padre, che si vergogna di lui, che è gay, questi lo sbatte fuori di casa dicendogli “per me sei morto”, e la madre rincara la dose ammonendolo sul fatto che Dio lo punirà dandogli “quella malattia”, e che si tratti dell’HIV/AIDS pre-possibilità-di-cure non è nemmeno necessario dirlo. Ad avere la certezza di essere sieropositiva è la transessuale Blanca (MJ Rodriguez) che decide di lasciare la House of Abundance guidata dalla “madre” Elektra (Dominique Jackson) per fondare, nel tempo che le rimane, una casa sua, la House of Evangelista (in onore della modella Linda Evangelista). Blanca invita Damon, che di tutta questa cultura è digiuno, a entrare a far parte della sua casa. E a lei si unisce anche Angel (Indya Moore), che inizia una storia con Stan Bowes (Evan Petters). Nell’era reaganina che permette l’ascesa dell’impero Trump e di una vita di lusso ed eccesso, Stan lavora per il magnate, assunto da Matt (James Van De Beek, Dawson’s Creek) e la sera torna a casa dalla moglie Patty (Kate Mara, House of Cards) e dai figli, ma non riesce ad arginare l’attrazione per Angel, che sa bene non essere socialmente accettabile.  

La recitazione è impeccabile e Pose intelligentemente, forse perché sa quanto inusuali sono questo genere di soggetto e di casting, usa di proposito una narrazione e uno stile molto tradizionale e “confortante”: si mostrano persone che, come tutti (generalizzo, ma passatemela), vogliono essere accettate per se stesse, per la verità di quello che sono intimamente, amate e circondate da una famiglia che tiene a loro - Angel sogna il principe azzurro, Blanca pretende che i suoi “figli” tengano all’istruzione perché è il solo modo di andare avanti nella vita e definisce e si comporta da madre spingendo perché Damon entri in una scuola di danza… 

La società potrà emarginare certi gruppi, ma rimangono persone la cui umanità qui viene celebrata. Murphy e i suoi adottano l’approccio più sconcertantemente “già visto” a cui siamo abituati – con espliciti riferimenti a classici degli anni ’80 come Flashdance o Saranno Famosi, e abbondanti tracce musicali di quegli anni – quasi proprio a far capire a quelli di noi che non fanno parte di quella realtà che nonostante l’apparenza non sono poi così distanti da quello che conosciamo, e a mostrare a chi invece ne fa parte che vengono visti e riconosciuti e apprezzati. Una scelta che mi ha sorpreso perché è sensata, elegante, intelligente e coinvolgente. In effetti questi personaggi, anche solo dal pilot, sanno già di famiglia.     

sabato 25 marzo 2017

TABOO: pesante


Nella serie Taboo, prodotta da BBC1 ed FX, siamo nella prima metà della seconda decade dell’Ottocento. James Delaney (Tom Hardy, The Revenant), creduto morto da tempo, torna dall’Africa nella madre patria Inghilterra in occasione del funerale del padre, morto per avvelenamento da arsenico. Eredita un piccolo ma strategico pezzo di terra, Nootka Sound, che è conteso dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, che sono in guerra. A difendere gli interessi della Corona in particolare è la Compagnia delle Indie Orientali, alla cui presidenza c’è Sir Stuart Strange (Jonathan Pryce, l’Alto Passero di Game of Thrones), che cerca con ogni mezzo di fargli cedere l’immobile. Fra loro c’è un forte braccio di ferro fatto di astuzie e violenze, a cominciare, dopo che si rifiuta di cedere, dal suo tentato omicidio, che costringe il protagonista a rivolgersi al medico americano Dumbarton (Michael Kelly, House of Cards).  In occasione della divisione dell’eredità salta fuori anche la vedova del defunto, Lorna Bow (Jessie Buckley), un’attrice. Nel tornare a casa, James ricontatta anche la sorellastra Zilpha Geary (Oona Chaplin) – quando è entrata in scena sembrava Amy Winehouse in “Back to Black” -, con cui ha avuto una relazione incestuosa. Il marito di lei, Thorne (Jafferson Hall, Vickings), non lo sopporta, e dal canto suo James, che è tornato non tutto apposto con la testa e con visioni e poteri sovrannaturali, la possiede in forma “telepatica”. Il fedele servitore Brace (David Hayman) conosce importanti segreti del passato dell’uomo.

Ideata dal Tom Hardy insieme al padre Edward Hardy e a Steven Knight (Peaky Blinders), la serie colpisce in positivo prevalentemente per la scenografia, mentre rimane la sensazione che sia altrimenti più pretenziosa che altro e che si prenda troppo sul serio. Un forte gusto per la violenza e la brutalità - gli scontri fisici fra Delaney e i suoi attentatori (1.04), il waterboarding e altre forme di tortura (1.07), la violenza domestica ai danni di Zilpha e il suo esorcismo (1.04) - e un gusto quasi felliniano per atmosfere al limite del grottesco - dalla raffigurazione delle prostitute, agli incontri di travestiti, alla rappresentazione quasi disturbante del principe reggente - aggiungono ai toni cupi un senso allucinatorio e demoniaco, e una perenne sensazione di minaccia e putrefazione. Sebbene Hardy sia un’eccellente presenza scenica sotto più punti di vista, Delaney è il tipo perennemente brooding che si esprime con poco più di monosillabi. La trama, svolta in modo lento, è avvincente ma il risultato, seppur con i suoi meriti, è ugualmente pesante.

I poteri magici sessuali dell’uomo potranno forse far riferimento alla figura folcloristica dell’incubo ma, sebbene meno risibile, non mi è sembrata più convincente, concettualmente parlando perché visivamente siamo ovviamente su un altro pianeta, di quella di Cruz Castillo e Sandra  Mills nella soap opera Santa Barbara (negli anni ’80), dove lei godeva per via telepatica quando lui faceva l’amore con la moglie Eden. Alcuni storici (cfr The Telegraph) poi si sono rammaricati della rappresentazione storicamente inaccurata della Compagnia delle Indie Orientali, dipinta come un incrocio fra la CIA, l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale, e la più potente e malvagia multinazionale sul pianeta, cosa che non era.

Alle 8 puntate della prima stagione è previsto che  seguano altre due stagioni.


mercoledì 15 febbraio 2017

LEGION: una giostra delirante e appagante


Bastano in primi tre minuti di Legion, in cui in flash successivi che ne ripercorrono la vita - sublime la staffetta fra le scene -, si vede il protagonista passare da un bellissimo sdentato bebè sorridente a un giovane uomo ricoverato in un ospedale psichiatrico, per decidere che questa è una serie che vale la pena vedere: inventiva, sperimentale e con una regia da capogiro. È mozzafiato nell’essere cervellotica e allucinatoria (sebbene non ermetica come il remake de Il Progioniero), e con un pizzico di giocosità, ma con una visione precisa.

Ideata da Noah Howley (Fargo) per FX sulla base di un personaggio dei fumetti della Marvel creato da Chris Claremont e Bill Sienkiewicz, la serie è ambientata in un universo parallelo a quello dei film degli X-Men. David Haller (uno Dan Stevens che sembra fortemente ringiovanito rispetto al ruolo di Downton Abbey che lo ha reso famoso) è un mutante con poteri mentali, fra cui la telecinesi e la telepatia, a cui è stata diagnostica una schizofrenia paranoide sin da bambino. Spesso per lui il confine fa realtà e illusione è molto labile. Nell’ospedale psichiatrico in cui è ricoverato, il Clockworks, diventa amico di Lenny (Audrey Plaza, Parks and Recreation), un’eterna ottimista nonostante i problemi di alcol e droga, ma la sua vita cambia completamente quando lì conosce Syd Barrett (Rachel Keller)  - il suo nome è un omaggio al musicista dei Pink Floyd la cui musica è stata anche di ispirazione per la serie – che diventa la sua “fidanzata” e che non vuole in alcun modo essere toccata (quando accade si capisce il perché). In realtà, anche se ancora non se ne rende conto, ha dei superpoteri, ed è per questo che viene sottoposto a intensivi colloqui da parte dall’Interrogatore (Hamish Linklater, The New Adventures of Old Christine). Alla fine del pilot, aiutato a scappare, conosce una terapeuta che diventerà importante per il suo futuro, Melanie Bird (Jean Smart). Lo scienziato Cary Loudermilk (Bill Irwin), la savant Kerry Loudermilk (Amber Midthunder) e Amy Haller (Katie Aselton), la sorella maggiore di David, completano il cast che circonda il protagonista.

Se un simile personaggio in TV forse non sarebbe stato possibile prima di Mr Robot, un giovane uomo che scopre che quella che credeva la sua debolezza è in realtà ciò che lo rende unico e speciale è ormai un classico nella genesi dei supereroi. Non c’è niente di veramente nuovo su questo fronte perciò. Stevens è abile nel precipitare il suo personaggio in momenti di cupa disperazione seguiti da altri di sorridente equilibrio. Ma anche qui, c’è un certo spassoso distacco da quello che nel mondo reale sarebbe un doloroso vissuto le cui cicatrici sarebbero ben più radicate dell’eyeliner sotto gli occhi di Lenny e gli psichiatri beni più competenti e meno supponenti – almeno si spera – di quello fa la lezioncina a Syd su come tutti gli animali abbisognino di contatto fisico per sentirsi amati. La normalità denigrata come qualcosa a cui uno viene costretto – citando Einstein e Picasso come esempi di persone che normali non erano – suona abbastanza trita. Non è in questo che la serie sorprende a abbaglia.

Quello che qui è straordinario è come si è scelto di raccontare la diversità del personaggio. La narrazione si affida alla scomposizione e alla distorsione, e diventa disorientante, un trip fantasmagorico nelle allucinazioni visive e uditive del personaggio che prendono forma anche per lo spettatore in una giostra delirante che nel suo vorticare mescola pensieri, immagini, e suoni, va avanti e indietro, dentro e fuori la mente del protagonista. La regia imprime un moto ad una trottola di tagli e movimenti di camera e scenografia e uso delle luci e dei costumi, ora moderni ora retrò, da vertigine. Matt Zoller Seitz (Vulture) ci vede gli influssi di Wes Anderson e Bob Fosse. Quello che è certo è che questo è il punto di forza. Se le otto puntate previste per la prima stagione si mantengono sul tracciato del pilot sarà una autentica goduria.