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mercoledì 8 dicembre 2021

ACS: IMPEACHMENT: nulla di nuovo

Anche ad aver vissuto in una caverna - e per me all’epoca, con una MECFS severa era un equivalente - a essere stati in vita nella seconda metà degli anni ‘90, difficilmente non si conosce lo scandalo di Monica Lewinsky e dell’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, oggetto della terza stagione di American Crime Story, la serie stagionalmente antologica di Ryan Murphy, con un capitolo intitolato “Impeachment” (di FX, in Italia su Fox). Doveva essere la quarta stagione, ma la terza sull’uragano Katrina è stata abbandonata, e questa è diventata la terza.

Se ripenso a quella storia nella vita reale, due immagini mi rimangono indelebili, quella di Clinton che abbraccia la stagista, con lei che indossa un basco blu, e quella di lui che, con un dito alzato, dichiara “non ho avuto una relazione sessuale con quella donna”. La prima torna qui, la seconda no (forse ho un ricordo falsato io?), ma in compenso si spiega bene il come “relazione sessuale” sia stata intesa allora, così come definita dai legali di Paula Jones (Annaleigh Ashford, Masters of Sex), che per prima aveva fatto causa all’ex-governatore dell’Arkansas.

La serie sceglie di non mostrare alcun atto fra Bill (Clive Owen) e Monica (Beanie Feldstein) – se qualcuno si aspetta qualcosa di pruriginoso ha sbagliato indirizzo. Se ho apprezzato che non ci sia stato un taglio scandalistico, mi sono interrogata di continuo, in corso di via, se sia stata la scelta migliore non mostrare nulla di nulla. Le vicende si sono chiarite, ma mi è rimasta dalla visione la stessa idea che avevo avuto allora, ovvero di una stagista in fondo ingenua e realmente innamorata di un uomo che se ne è approfittato, e di una macchina politica tritatutto che ha cercato di cogliere ogni occasione per screditare e affossare l’avversario, ma senza che i coinvolti volessero attivamente ferirsi a vicenda. Sicuramente da parte della ragazza, resa dalla Feldstein con molta dolcezza, c’è il reiterato desiderio di proteggere da ogni possibile danno un uomo contro il quale alla fine fa dichiarazioni solo al fine di proteggersi. Più volte la mostrano che vuole chiamare Betty Currie (Rae Dawn Chong), la segretaria personale del presidente.

La mia aspettativa, disattesa, era di una rilettura delle vicende non tanto in termini di strumentalizzazione politica e giornalistica delle vicende – la brutalizzazione del carattere delle persone è una costante -, ma in prospettiva del #metoo. La realtà è diversa da allora, e non solo per la tecnologia che vedeva ai tempi un internet appena nascente, ma per una cultura di consapevolezza, ora, di come le dinamiche di potere-lavoro-sesso-molestie possano rendere vulnerabili le persone, di come sia indispensabile il consenso e di come in alcune situazioni possa essere difficoltoso definirlo. E forse in questo, mostrare qualcosa in più poteva avere un senso. L’unica che in fondo è sembrata indignata di come Monica venisse usata è quella Linda Tripp (Sarah Paulson) - nella vita reale scomparsa lo scorso anno - che nemmeno qui riesce a uscirne come un’eroina, troppo consumata da risentimenti personali e traditrice della fiducia dell’amica. Le sue ragioni hanno comunque il sapore di giustificazioni dell’ultim’ora per salvare la faccia. Le donne qui sono al centro, e sono vittime soprattutto di un sistema che alla fine le lascia in ogni caso sconfitte: Paula non creduta a dispetto di tutto e finanziariamente rovinata tanto da spingerla a posare senza veli, Linda derisa e vituperata, Monica magari anche apprezzata ma con addosso l’onta, e colei che muove addirittura un’accusa di stupro ignorata  - in un locale dei ragazzi vedono che c’è in onda un’intervista e chiedono di cambiare canale per una cerimonia di premiazione, stufi dell’ennesima storia su una donna finita sotto le grinfie di Clinton, che poi sarà quello che la gente perdona. E lui, giustificato dalla rabbia per la persecuzione politica a cui è sottoposto, ben poco prova rimorso per il proprio comportamento o sente di aver danneggiato queste donne. Questa amarezza in chiusura, e la consapevolezza (voglio credere non solo speranza) che oggi sarebbe andata diversamente è l’unica vera nota in questa direzione (3.10).

Sarah Burgess, showrunner che ha basato la serie sul libro “A Vast Conspiracy: The Real Story of the Sex Scandal That Nearly Brought Down a President” di Jeffrey Toobin, in un’intervista con TV’s TOP5 (qui), ha spiegato come il suo intento principale fosse quello di parlare dal punto di vista di persone che sono vicine al potere, ma sono costantemente ignorate, relegate a lavori noiosi e ripetitivi, privi di soddisfazione. Il riferimento è soprattutto a Linda Tripp, allontanata dalla Casa Bianca. Emerge la cospirazione. Quella Paula Jones un po’ tontolona, quella Tripp troppo sola, quella Monica così innamorata sono diventate facili munizioni in una guerra politica, usate anche da altre donne come l’ultraconservatrice Anna Coulter (di cui Cobie Smulters riesce bene a rendere l’odiosità), Susan Carpenter-McMillan (Judith Light) o in fondo anche dell’agente letteraria Lucianne Goldberg (Margo Martindale) ingranaggi della macchina di cui fanno parte. Loro, le donne, sono state un mezzo per affossare il presidente democratico e questo non è mai tanto evidente quando scelgono di ignorare un’accusa di stupro rivolta al capo di Stato: non c’è interesse a fare giustizia, lo scopo è incastrarlo per spergiuro e ostruzione alla giustizia.

Burgess non complica troppo le cose con personaggi secondari. Li butta lì, e se cogli chi sono bene, altrimenti la storia funziona comunque – l’americano medio mi aspetto li conosca, l’italiano medio no. Prendiamo 3.08. Quando Hillary Clinton (Edie Falco, I Soprano) ha un incontro con Stephanopoulos (George H. Xanthis), lo chiama solo George, sono l’aspetto fisico dell’attore ed eventualmente i sottotitoli che quando lui parla lo indicano per cognome (almeno quelli in inglese), che ti dicono chi è; quando sempre lei va al Today Show, e viene intervistata da Matt Lauer, lo stesso, e lo spettatore semmai può pensare a quell’intervista anche alla luce degli scandali che con il #metoo hanno coinvolto lui stesso; quando in un ufficio di consiglieri di Kenneth Starr (Dan Bakkedahl, Life in Pieces), Cavanaugh (Alan Starzinski) risulta particolarmente accanito, sta allo spettatore capire che è lo stesso che poi verrà nominato giudice della Corte Suprema da Trump.

Fra le produttrici esecutive risulta anche la stessa Monica Lewinsky. Nonostante episodi anche pressanti (penso agli interrogatori di Monica o Bill), e nonostante un cast di peso, che comprende anche Blair Underwood nel ruolo di Vernon Jordan e Colin Hanks in quello di Mike Emmick, la serie ha poco mordente, ma soprattutto non aggiunge davvero nulla di nuovo.

mercoledì 8 agosto 2018

AMERICAN CRIME STORY: L'assassinio di Gianni Versace


La seconda stagione di American Crime Story, dedicata a The assassination of Gianni Versace, l’assassinio di Gianni Versace (Édgar Ramírez), della rete FX, si poggia su quattro elementi fondamentali: l’esaminazione degli elementi che fanno di un giovane ragazzo un criminale, l’omofobia, il senso estetico e la mobilità temporale.

La storia è nota: un giovane ragazzo di origine filippina, Andrew Cunanan (Darren Criss, Glee), si presenta in Florida davanti alla casa del noto stilista italiano Gianni Versace, da cui era ossessionato, e gli spara uccidendolo. Non era il primo assassinato di questo killer che in chiusura, prima che lo prendano, decide di togliersi la vita. Fra le sue vittime si incontrano altre sfortunate persone che hanno incrociato la sua strada, o come amici o come amanti più o meno occasionali. La serie indaga la vita e le motivazioni di Andrew, e ci fa scendere nella sua follia, non scusandolo per questo, ma elicitando una cum-patio che lo rende comunque umano.

Il padre, Modesto “Pete” (Jon Jon Briones), un imbroglione tormentato dall’idea fissa del successo, lo trattava con smaccato favore rispetto ai fratelli (quando comprano casa nuova al figlioletto spetta la camera matrimoniale), alla stregua un principino a cui tutto è concesso, ma abusava sessualmente di lui. Gli viene inculcato fin da piccolo che lui è speciale, e si merita tutto ciò che desidera. Crescendo però il ragazzo riesce a crearsi delle opportunità solo mentendo e assumendo ogni volta un’identità inventata diversa. Sa come deve apparire per essere al centro dell’attenzione, ma non riesce mai a essere se stesso. E non riesce a farsi amare. Come non percepire la sua tragica tristezza quando si stende vicino al cadavere di un giovane architetto che diceva di amare, David Madson (Cody Fern), ma che lo respingeva, e lo abbraccia dopo avergli sparato alle spalle? Criss è eccellente nella parte, a momenti narciso potente ed esaltato dalle stesse illusioni che crea, a momenti ragazzino deluso e fragile di fronte all’aridità della propria realtà.  

Intrecciato a tutta la narrazione c’è il grande tema dell’omofobia, pervasiva nelle vite di tutti i personaggi, che sia il giovane Gianni Versace che i compagni di scuola prendono in giro e le insegnanti qualificano come “pervertito” perché disegna abiti femminili e che deve imparare il mestiere dalla madre di nascosto; che sia il giovane militare Jeff Trail (Finn Wittrock), che in caserma vive sotto l’opprimente regola del “don’t ask, don’t tell” (2.05); che sia l’uomo d’affari che di nascosto dalla moglie cerca piacere con altri uomini; che sia il compagno di una vita di Versace, Antonio D’Amico (Ricky Martin), il cui dolore al momento del funerale non viene nemmeno riconosciuto, come se non esistente, e a cui il prete ritrae la mano sdegnato, non permettendogli di baciargliela, come ha consentito a tutto il resto della famiglia – a lui non spetta nulla; che sia infine Andrew stesso.  Non sono passati così tanti anni, ma era un mondo diverso, fatto di omertà e vergogna, spesso interiorizzata.

Della cultura omosessuale e non solo, Versace era un’icona, con una visione e un’estetica dirompente e precisa, fatta di sensazioni e percezioni, ma anche di amore e passione, e legame per la famiglia e la sorella Donatella (Penélope Cruz) in particolare. È stato un uomo con un talento vivo che ha portato in vita un sogno, da vero artista, e una persona che pur provenendo da un ambiente povero, ha saputo creare un impero. La serie, stilisticamente e cromaticamente, soprattutto in alcuni passaggi, abbraccia questa estetica.

La narrazione non segue un percorso cronologico. Si parte da quel luglio 1997 per rimbalzare indietro nel tempo, dedicando una puntata all’omicidio di Lee Miglin (2.03), nel maggio precedente,  e all’ex-ufficiale di marina Jeff Trail (2.04)  ancora prima e poi aventi e poi ancora indietro in percorso da pallina di flipper che non è mai stato lineare. Non crea confusione, ma necessariamente richiede una visione attenta e d’insieme.

La serie, basata sul libro di Maureen Orth intitolato “Vulgar Favors: Andrew Cunanan, Gianni Versace, e the Largest Failed Manhunt in US History”, è stata criticata dalla famiglia Versace che ne ha preso le distanze dichiarandola non autorizzata e da considerarsi un’opera di fantasia. Di rimando Ryan Murphy, produttore esecutivo e regista del pilot, pur ammettendo che ovviamente non si tratta di una serie documentaristica, respinge l’idea di considerarla pura finzione narrativa perché basata appunto su fonti saggistiche.

La serie, scritta da Tom Rob Smith, riesce a mescolare e far conflagrare in una visione appagante grandeur e glamour con squallore e disperazione.