sabato 31 agosto 2019

FOSSE/VERDON: un pas de deux biografico


“Lui era un filmmaker e uno dei registi e coreografi teatrali più influenti; lei era la più grande ballerina di Broadway di tutti i tempi” (The Hollywood Reporter): la loro storia romantica e creativa viene ripresa dalla miniserie in otto puntate Fosse/Verdon (FX), basata sulla biografia “Fosse” di Sam Wasson, sviluppata da Steven Levenson e Thomas Kail e con produttore esecutivo, fra gli altri, Lin-Manuel Miranda (Hamilton) oltre ai due attori che interpretano i protagonisti del titolo, Sam Rockwell e Michelle Williams. La figlia della coppia, Nicole Fosse, attrice e ballerina, pure è co-produttrice esecutiva, ed è stata parte della ragione del taglio “a due” che è stato dato alla storia. Due icone della cultura americana del teatro musicale ricostruiti da contemporanei nomi pesanti di quell’ambiente.

Elegante e ricco di riferimenti che sicuramente sfuggono a chi non è esperto dell’argomento (come me), questo pas de deux biografico divaga focalizzandosi su alcuni momenti topici delle loro vite e con un obiettivo ispirato al movimento #metoo, quello di ricalibrare il mito di Bob Fosse, rinunciando allo stereotipo dell’autore maschio solitario, per mostrare più realisticamente quanto il suo successo fosse legato anche alla figura di Gwen Verdon, lei stessa brillante e grande motrice della fortuna di lui. (New York Times) 

Levenson si è domandato se quello che si accingeva a mostrare fosse solo l’ennesimo ritratto di una persona orribile che fa arte magnifica, ovvero la trita storia di un uomo brillante tormentato da demoni che lo spingono nella vita personale a fare cose terribili, ma che riesce a farsi redimere da quello che crea con il sua creatvità. Lui e gli altri coinvolti nel progetto hanno coscientemente respinto questa narrativa, in cui non credono – comportarsi male ed essere geniali non sono due cose reciprocamente necessarie, anzi – e hanno cercato di proporne una alternativa, consapevoli di come storicamente l’arte sia stata realizzata e in che modo ne è stato distribuito il merito e il credito, con forte pregiudizio sessista che ha penalizzato le donne. “Hanno deciso che il programma avrebbe esplorato, come la mette Levenson, ‘come queste complicate partnership e collaborazioni diventano la storia di una sola persona, quasi sempre l’uomo’. ‘Fosse/Verdon’ va avanti e indietro nel tempo, ma si concentra grosso modo, nella decade fra ‘Cabaret’ e ‘All that Jazz’. ‘È veramente una storia di interdipendenza e codipendenza e’ – Levenson fa una pausa qui – ‘e amore’”.   

Attraverso le otto puntate, che partono prima della premiere cinematografica nel 1969 del film Sweet Charity, che si sarebbe rivelato un costoso flop, e che si focalizzano solo su alcuni momenti, settimane o mesi, zigzagando nel tempo con una narrazione un po’ a puzzle, impariamo a conosce entrambi.

Lui, tutt’ora l’unico ad aver vinto un Tony, un Oscar e un Emmy nello stesso anno per differenti progetti, era un donnaiolo narcisista con problemi di dipendenze da droghe, stacanovista ora auto-celebrativo ora pieno di odio per se stesso, autodistruttivo e suicidario, tanto da finire in clinica psichiatrica (1.05), e negativo anche nei confronti di chi lo circondava. Aveva cominciato a lavorare giovanissimo in un locale di burlesque, e qui era stato introdotto al sesso a 13 anni. La serie è attenta a mostrare come il racconto della sua prima vota, celebrata dagli amici come una gran fortuna, e da lui stesso venduta come tale, nei suoi ricordi fosse in realtà quello che era: abuso su minore. Non si fanno grandi predicozzi, e si rimane legati allo spirito dell’epoca, ma non si rimane intrappolati nel mito, facendo ben capire la natura di quegli incontri avvenuti troppo presto che gli avevano condizionato il modo di vivere la vita sessuale successiva.

Lei era una madre attenta e una moglie presente, ma con il fuoco per il ballo e la consapevolezza della propria bravura e di essere stata un nome ben prima di lui. Costretta a sposare un uomo di cui era rimasta incinta da adolescente, era tornata a vivere con i suoi quando il matrimonio era diventato abusante. Il figlio avuto lo aveva lasciato alle cure dei suoi per tornare sulle scene, denigrata per questo. Lei, con Bob, non era solo una musa passiva, ma era un’attiva collaboratrice, non solo perché ne incarnava l’estetica e riusciva a comunicarla, ma cercata da lui per riuscire a mettere a fuoco i propri progetti. Era protettiva di lui e della sua carriera, sapendo quando e quanto lasciarlo o tenerlo.

Il loro rapporto è centrale, un’intesa intellettuale ed erotica dove lui è l’artista irascibile e temperamentale, lei la presenza calmante che lo centrava e gli dava direzione. Lui era quello che voleva brillare più di tutti e lei ne è consapevole: “non riesci a sopportare che sia io la stella, non tu” gli grida arrabbiata a un certo punto (1.07). Un matrimonio professionale anche quando non era più un matrimonio personale. Nonostante il tentativo di riequilibrio però, la leggenda Fosse rimane schiacciante, e si fatica a mostrare il contributo autonomo della Verdon che non fosse funzionale a far emergere quello di lui. Questo anche nonostante prove attoriali d’eccellenza, che ben hanno anche saputo modulare età diverse della vita dei personaggi.

Quello che il pubblico impara subito a riconoscere, se già non lo conoscesse, è lo “stile Fosse”, nei movimenti e nel loro significato: il cappello a bombetta, le silhouette, le anche oblique, le divaricate, le gambe angolose,  i movimenti a scatti ripetuti delle spalle, le mani a ventaglio, i corpi in pendenza, i movimenti sinuosi… e un retrogusto adulto, decadente, anche equivoco e cinico attraverso la forma contenuta e apparentemente gioiosa della commedia musicale. Questo è quello che si dice delle opere di questi artisti e questo è quello che la serie mostra di loro come persone.

Su The Hollywood Reporter, Daniel Fienberg,  nota come su questa miniserie c’è, solo a sentirla nominare, l’ombra lunga di Ryan Murphy che con essa non ha avuto nulla a che fare. “Non è Ryan Murphy” mi sono ripetuta più volte prima di mettermi a guardarla. È uno sguardo indagatore, riverente ma allo stesso tempo consapevole, su due vite che hanno lasciato un’impronta indelebile sulla cultura teatrale americana.   

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