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venerdì 6 settembre 2024

SOMEBODY SOMEWHERE: la seconda stagione

Somebody Somewhere ha saputo regalare una seconda stagione anche migliore della prima.

Il legame di amicizia fra Sam (una luminosa Bridget Everett) e Joel (Jeff Hiller) è stato l’asse emozionale portante. In questa stagione vivono temporaneamente insieme perché Joel ha affittato la sua casa come Airbnb. La loro amicizia è così autentica e profonda che quasi non sembra scritta: condividono i pasti, le passeggiate di 10.000 passi in cui commentano allegramente chi vedono, e raggiungono un “nuovo livello di intimità” quando entrambi hanno un attacco di diarrea sincronizzato (2.02) che fa sbellicare dalle risate. Con sceneggiatori meno abili sarebbe stato qualcosa di volgare e scadente, ma qui lo humor è talmente naturale e giocoso che ha solo il potere di renderci complici di un momento insignificante che in realtà significa tutto. E i due interpreti hanno un’invidiabile intesa sul set.  

Sam nel corso di questo arco si avvicina anche di più alla sorella Tricia (Mary Catherine Garrison), che ha divorziato e la cui figlia è partita per il college, e le due trovano sostegno l’una nell’altra. Affrontano insieme la madre alcolista Mary Jo (Jane Brody) che ha avuto un infarto e si trova in un centro assistito – nessuna delle due vuole vedere lei e in realtà lei pure non vuole vedere nessuna delle due; nascono momenti di imbarazzo. L’interprete del padre, Ed (Mike Hagerty), è mancato prima delle riprese e la sua assenza è stata giustificata dalla storia dicendo che se ne era andato a trovare il fratello lasciando a loro il compito di gestire la fattoria – con una nota di tristezza ripuliscono il granaio, una vita che si chiude. Tricia, tradita, da quella che era la sua migliore amica, si re-inventa, professionalmente come organizzatrice di eventi e con un business di cuscini nato casualmente, con scritte piene di parolacce ispirate in modo divertente dagli insulti rivolti alla sua ex-amica: non solo l’ha tradita, ma dice in giro che ci ha provato con suo marito, cosa vera, ma omettendo di essere stata lei per prima prima a portarsi a letto il suo.

Questi due legami riescono a dare un centro di gravità a Sam, che sente meno la solitudine. Dolori e risate, dolcezza e amarezza si mescolano costantemente per i personaggi e in modo fluido. La puntata finale giustappone bene una volta in più questa doppia anima del programma: ha il triste funerale dell’insegnante di canto di Sam e l’allegro matrimonio di Fred Rococo (Murray Hill), il comune amico che li ha invitati per la cerimonia in cui si è unito alla sua fidanzata Suzie. A Joel era stato chiesto di celebrare la funzione, a Sam di cantare, e i preparativi per la grande giornata punteggiano la stagione. 

Le emozioni di Sam sono sempre in superficie e crude. Ne viene sopraffatta quando riprende le lezioni di canto per prepararsi in vista delle nozze, ne viene schiacciata e rimane ferita quando si sente umiliata tanto da Joel quando da Tricia che le hanno nascosto informazioni estremamente significative nel timore che non fosse in grado di accettarle: lui non le ha rivelato che ha iniziato una relazione con Brad (Tim Bagley), che in passato prendevano in giro insieme, e lei le ha tenuto nascosto e si è fatta sfuggire solo per errore che la loro sorella defunta in realtà si era ammalata a 47 anni, e non a 48 anni come credeva lei. Le sue insicurezze rialzano la testa e la mostrano in tutta la sua vulnerabile umanità.

La grandezza della serie ancora una volta sta nel non avere bisogno di storie pirotecniche o grandi eventi per mostrare quanto dolorose sono le ferite della vita, ma di riuscire a farlo emergere da situazioni minime. Umorismo amaro sgorga dai momenti dolorosi, ma gioia e autentico divertimento si innescano da reale condivisione di momenti di vita. Si sa essere seri e impertinenti e c’è la sensazione che si voglia mostrare la vita per quello che è, bella e brutta insieme, e con il positivo e negativo che non sono nemmeno separabili in molti casi, ma coesistono essenzialmente.

Il programma ha come sottofondo anche il tema della guarigione emozionale, che non è istantanea, ma richiede tempo, e pazienza, necessità che gli autori sanno concedersi. Si scava nel personale, con autenticità, anche con un ritmo ben misurato.

Con gioia ho appreso che la serie è stata rinnovata per una terza stagione. Sarà però l’ultima. Negli USA debutta il prossimo 27 ottobre. 

mercoledì 15 novembre 2023

PLATONIC: deludente

Volevo tanto che Platonic (Apple TV+) mi piacesse: in fondo non sono molte le commedie con un uomo e una donna adulti e allosessuali (persone che provano attrazione sessuali insomma, non asessuali) che hanno un’amicizia sincera e disinteressata, senza che ci sia la componente dell’attrazione fisica. Questo mi faceva desiderare che questa commedia ideata da Francesca Delbanco e Nicholas Stoller riuscisse, ma al di là di qualche occasionale pagliuzza dorata qui e lì, mi sono propria trascinata a finirlo. So che sono una voce fuori dal coro, in questo caso.

Sylvia (Rose Byrne, Damages) è una ex-avvocata che ha deciso di stare a casa a fare la mamma ai tre figli avuti con il marito Charlie (Luke Macfarlane, Brothers and Sisters), pure avvocato. Will (Seth Rogen, Freaks and Geeks) lavora in un birrificio/birreria, il Lucky Penny, e ha da poco divorziato. I due erano migliori amici, ma non si erano più sentiti dopo che lei aveva detto apertamente che non le piaceva la moglie di lui. Ora, recuperano la vecchia amicizia e si confidano l’un l’altra: lei è in crisi perché le manca il lavoro fuori casa, e vorrebbe più stimoli che non sia chiacchierare fuori dalla scuola dei figli con l’amica Katie (Carla Gallo);  lui ha lo spirito di un bambinone insicuro che non vuole crescere, cerca relazioni con donne più giovani che poi non funzionano e ritiene di non venire apprezzato sul posto di lavoro, dall’amico e partner Andy (Tre Hale) e dal maggior investitore nel birrificio, Reggie (Andrew Lopez), che vuole fare i soldi ed è meno interessato ai prodotti di nicchia, e che è pure il fratellastro della sua ex.

Sulla carta funziona, il ritmo della narrazione è adeguato, e i due attori principali, indubbiamente bravi, hanno una buona intesa e sono convincenti, sia nelle litigate, che nell’affetto reciproco senza ambiguità sessuali. Quando nell’ultima puntata (1.10) sono in un locale e lui sta valutando di trasferirsi per una nuova occasione di lavoro e si dicono che in fondo non c’è niente che lo trattenga dov’è, e il sottointeso è che in realtà c’è la loro amicizia, li ho amati: grandiosi nel trasmettere il non detto. E per una volta con una sceneggiatura che non ha avuto necessità di spiegarcelo poi apertis verbis. Qui la serie è stata ottima. Per il resto non l’ho trovata particolarmente illuminante, coinvolgente, pungente o psicologicamente acuta.

Il marito di lei è ragionevolmente un po’ geloso e per me anche un po’ troppo poco, specie in considerazione del fatto che i due per tanto tempo non si erano sentiti e all’improvviso passano tantissimo tempo insieme. Rose Byrne mi ha reso irritante Sylvia: ha sempre avuto un tono di voce così acuto da sembrare sempre falsa? Molte delle situazioni le ho trovate poco credibili, e poco divertenti. È stato poi insultante sentire (1.06) che diceva ai propri figli che tornava a lavorare fuori casa perché voleva dimostrare che anche una donna può contribuire alla società. Perché, si contribuisce alla società solo lavorando fuori casa? Che vergognoso messaggio da far passare. E quando torna al lavoro, se è credibile che dopo tredici anni di assenza sia arrugginita e non più abituata ai ritmi che comporta, lei che comunque era una avvocata, non è plausibile che si comporti come una ragazzetta appena uscita dall’università. Quello che ho visto è stato patetico. Fa una serie di passi falsi. La scusa per licenziarla è che si addormenta, danneggia per errore il dipinto del titolare dello studio, cerca di farlo riparare nottetempo con l’aiuto di Will, l’ho rimette al suo posto con esito disastroso: l’artista ha disegnato un pene al posto del naso, lei finge di non saperne nulla, ma ci sono i filmati che la inchiodano - la sospensione dell’incredulità ha i suoi limiti, in un contesto che comunque aspira ad una qualche realisticità. Ridicolo. E parliamo di avvocati americani: è verosimile che un’avvocata, dopo essere stata licenziata così, dopo nemmeno 24 ore, non pensi almeno di far causa? Capisco che non la faccia, se non altro per non danneggiare la carriera del marito, ma due principi del foro in famiglia e a nessuno dei due non passa nemmeno per la testa l’idea di poter trovare un appiglio per far causa? In un Paese giuridicamente litigioso come gli USA? Non ci credo. Questo genere di storie svaluta tutto.

Poi è troppo evidente che è un film espanso. Poteva funzionare con semplice commedia di due ore, gradevole ma nulla più, ma la si è rimpolpata nei punti giusti per cavarne una serie che da come è terminata si direbbe conclusa. Si può sempre trovare un escamotage per continuare, ma a tutti gli effetti l’intenzione non sembra quella. Se mai ci sarà, io non sarò lì a seguirla.  

giovedì 17 agosto 2023

FLEISHMAN IS IN TROUBLE: una miniserie su...tutto

“Avevo trascorso l’intera estate ad ascoltare la storia di Toby, vedendola solo attraverso i suoi occhi. Avevo dimenticato una verità essenziale del giornalismo, cioè che dovresti sempre domandarti, quando ascolti la versione delle cose di qualcuno, cosa l’altra persona nella storia, quella che non era lì, direbbe se lo fosse. Avevo dimenticato quella lezione, che avevo imparato da ogni storia che ho mai scritto. Era che non ci sono veri cattivi nella vita, non veramente. Non ci sono nemmeno veri eroi. Ognuno è grande e ognuno è terribile e ognuno ha dei difetti, e non ci sono eccezioni a questo.” (1.07) Queste è un po’ l’ethos di Fleishman is in trouble - Fleishman a pezzi (di FX e Hulu, su Disney+ in Italia), per bocca di Libby (Lizzy Caplan, Masters of Sex), migliore amica del protagonista e narratrice in voice-over nella serie. Tratta dall’omonimo romanzo di Taffy Brodesser-Akner, qui showrunner al suo esordio, la serie, quasi in chiusura nella spettacolosa puntata del sottofinale, chiosa così il ribaltamento di prospettiva della narrazione a cui abbiamo assistito, che ha rivelato come centrale una tematica diversa da quella che sembrava in corso di via.

POSSIBILI SPOILER A SEGUIRE.
Toby Fleishman (Jesse Eisenberg, The Social Network) è un medico epatologo che ha da poco divorziato dalla moglie Rachel (Claire Danes, Homeland), una agente teatrale molto affermata, ambiziosa e di successo, dopo 15 anni di matrimonio. Deve re-imparare a vivere senza di lei. Il suo mondo è capovolto - letteralmente (la regia offre occasionalmente inquadrature capovolte). Hanno avuto due figli insieme, Hannah (Meara Mahoney Gross) e Solly (Maxim Swinton), di 11 e 9 anni. Un giorno, apparentemente di punto in bianco, Rachel svanisce nel nulla e Toby si trova a trascurare il lavoro per gestire da solo i due figli ancora piccoli. Si confida con i migliori amici di sempre, Libby e Seth (Adam Brody, the OC).

Attraverso la prospettiva di lui si esplorano molte tematiche: il matrimonio e il divorzio e la difficoltà di trovare nuove persone con cui uscire, il lutto della perdita di una relazione, l’educazione dei figli, il privilegio, la disparità economica e la distribuzione della ricchezza, l’importanza o meno del successo economico e dell’appagamento professionale, il potere di non avere obbligazioni, la forza dei legami, le differenze fra la mezza età e la gioventù (ci si sposa troppo presto? Si cambia?), la solitudine (avere molto amore e non sapere dove metterlo - 1.05), l’importanza di ascoltare, il senso della possibilità e il senso vita…temi affrontati in modo profondo e leggero insieme, anche in modo frammentario un po’ come accade nella realtà dove le questioni si intrecciano e ritornano. Libby, una giornalista che ha lasciato la carriera per fare la mamma a tempo pieno, pure si sente persa anche se il suo matrimonio con Adam (Josh Radnor, How I met your mother) non è proprio in crisi, insoddisfatta, incerta di che cosa fare nella vita, con l’opprimente sensazione che le opzioni a sua disposizione siano drasticamente diminuite a seguito delle scelte che ha fatto, senza che se ne rendesse conto.

In un momento molto meta, che commenta libro e serie e anche anticipa quella che poi sarà a quel punto l’attesa conclusione, si osserva che parla “di tutto”: “riguarda la vita e il matrimonio e i soldi e l’insoddisfazione e l’amicizia di una vita e come tutte queste cose si fondono nella mezza età, rendendoti infelice” (1.08): “Come si può essere così disperatamente infelici quando si è così sostanzialmente felici?” (1.08) quando apparentemente si ha ciò che è necessario e ciò che si è voluto? La crisi di mezza età colpisce tutti loro amici, e naturalmente ha un valore metaforico la visita di Toby insieme ai figli al museo di storia naturale di New York, dove è affascinato, attratto e respinto, da una “esibizione” di Vantablack, il materiale più scuso mai realizzato dall’uomo. Tutto il cast, di attori sia eccellenti che benvoluti, brilla.

Il colpo di scena che cambia la prospettiva, prima di tornare sul binario iniziale, è una storia di depressione post-partum e anche violenza ostetrica. Nella puntata “Me-Time” (1.07) spicca il tour de force di Claire Danes, in particolare in un momento in cui piange durante una sessione con un gruppo di supporto e ancor di più in seguito in una citatissima scena in cui si lancia in un potente feroce grido catartico in cui si coagulano tutte le emozioni di una vita segnata dall’abbandono e votata al superlavoro come mezzo di compensazione. Memorabile.

La serie è concepita come autoconclusiva e me ne dispiace, anche in considerazione del fatto che l’autrice, nel corso delle tavole rotonde di The Hollywood Reporter di quest’anno, ha dichiarato che lei sarebbe disponibile ad andare avanti indefinitamente. Vorrei una seconda stagione che non ci sarà; in ogni caso sono già grata di questa che considero fra le migliori visioni dell’anno.

NB: Ho seguito la serie in originale e le traduzioni sono mie. La versione italiana ufficiale potrebbe essere diversa.

venerdì 11 gennaio 2019

THE KOMINSKY METHOD: la vecchiaia secondo Lorre


The Kominsky Method (su Netflix) è la prova, se mai ce ne fosse bisogno, che il suo autore, Chuck Lorre (qui il mio post a proposito del profilo del New Yorker su di lui nel 2011), non è diventato famoso a caso, nonostante la critica snobbi regolarmente programmi formalmente molto tradizionali come Two and a Half Men e The Big Bang Theory a cui il suo nome è associato.

Qui, Lorre sa essere esilarante, profondo e attuale affrontando un momento della vita ancora troppo tabù in televisione: la vecchiaia.

Sandy Kominsky (Michael Douglas, ultrasettantenne) è un attore ormai anziano, con problemi di prostata, che ha avuto solo un fuggevole successo calcando le scene, ma che ha un suo apprezzato studio di recitazione. Tre volte divorziato e con una figlia adulta, Mindy (Sarah Baker), che lo aiuta nel lavoro, sviluppa un interesse sentimentale per una sua allieva, Lisa (Nancy Travis), una donna ormai matura. Il suo migliore amico è il suo agente, Norman Newlander (Alan Arkin, ultraottantenne), che rimane presto vedovo della moglie di una vita, Eileen (Susan Sullivan), e ha un rapporto difficile con la figlia Phoebe (Lisa Edelstein, House, The Good Doctor), che ha problemi di lunga data di dipendenza da sostanze. I due uomini si sostengono vicendevolmente, incontrandosi spesso anche solo per un drink da Musso & Frank, dove vengono serviti regolarmente da un cameriere che sta a mala pena in piedi lui stesso.

Molta della serie - che dicono faccia trasparire una subcultura di Los Angeles, elemento che io non sarei in grado di valutare da sola - poggia sull’amicizia fra i due uomini: è  una sorta di aggiornata e meno brontolona “Strana Coppia” di Neil Simon, come ha notato più di qualcuno, con la conoscenza delle reciproche idiosincrasie e anche la capacità di manipolarsi perché ci si frequenta da sempre: imperdibile il loro ping-pong sul un enorme prestito in danaro di Norman che è un favore senza condizioni, di pura generosità, dove entrambi leggono bene quel “senza condizioni” come la condizione più onerosa di tutte, insopportabile. Scene impagabili davvero. Una colonna portante è anche quella sugli acciacchi dell’età, con un misto di irrisione e di cum-patio: scatologia mista ad empatia. Si ride di e con i personaggi, ma ci si lascia prendere anche dalla melanconia della perdita: della propria prestanza fisica, delle proprie occasioni, del tempo che si ha davanti, delle persone amate… lutti che sono anche lo spettro di altri a venire.

La constatazione finale è che si ha paura, che è normale avene perché il mondo la fuori fa paura, ma si supera perché non siamo soli, ma presenti nell’amicizia l’uno per l’altro. “Io ti vedo. Tu mi vedi?” chiede Sandy a Nathan a pochi minuti dalla fine dell’ultima puntata. Esserci. Questo, rivela in segreto, è il metodo Kominksy. Sandy è anche una versione più gentile e moderata (e per qualche critico meno riuscita) di Cousineau, l‘equivalente personaggio portato sulla scena da Henry Winkler in Barry. Come acting coach, il protagonista vede l’attore come creatore, la recitazione come un’estensione della vita, ma alla fine come persona che rivela se stessa nella propria intimità e vulnerabilità. Si riconoscono le debolezze e si affrontano.

Tante sono le guest star che interpretano se stesse (come Elliott Gould, Patti LaBelle o Jay Leno) o un personaggio, come Danny DeVito, nel ruolo di un urologo che sottopone Sandy ad un esame rettale: c’è chi ha visto con sfavore una simile scena, come esempio di una comicità crassa. Io al contrario ci vedo proprio quell’autoironia necessaria per non vivere con svilimento certe realtà dell’invecchiamento, bello perché vero e vagamente imbarazzante, esempio concreto del metodo del titolo.

Potrebbe chiudersi qui, con una sola stagione, questa serie, ma io mi auguro continui.

venerdì 16 marzo 2018

IMMATURI - LA SERIE: nostalgia, amicizia, amore


Nostalgia, amicizia e amore: sono state queste le colonne portanti di quella favola italiana a lieto fine che è stata la serie Immaturi (Canale5), diretta da Rolando Ravello,  degna rivisitazione per la TV dell’omonimo successo cinematografico di Paolo Genovese, qui sceneggiatore insieme a Paola Mammini e Giovanna Guidoni (a cui si aggiunge anche Marco Alessi fra i soggettisti).

Un gruppo di trenta-quarantenni riceve dal Ministero della Pubblica Istruzione una lettera che li informa che, poiché uno degli esaminatori alla loro maturità non aveva il titolo per rivestire quel ruolo, il loro esame è stato annullato e devono sostenerlo di nuovo. La gran parte di loro decide di ri-frequentare l’ultimo anno del liceo classico in modo da arrivare preparati. Lorenzo Romanini (Ricky Memphis), che rischierebbe di perdere la propria attività come agente immobiliare senza il diploma e che vive ancora con mamma Iole (Paola Tiziana Cruciani) e papà Maurizio (Maurizio Mattioli), ritrova da adulto la donna di cui era innamorato al liceo e che non ha spesso di amare, ricambiato, Luisa (Irene Ferri), single ma con una figlia piccola. Piero Mistico (Luca Bizzarri) è un conduttore radiofonico che finge di essere sposato con prole per poter scaricare con facilità la ragazza di turno con cui esce nel momento in cui si stanca, ma che finisce per innamorarsi della severa professoressa di filosofia, Claudia Russo (Ilaria Spada). Il suo migliore amico Virgilio Montesi (Paolo Kessisoglu), che ha una sua videoteca,  è in crisi con la moglie che lo ha tradito, e flirta con una sua giovanissima ora neo-compagna di classe. Francesca Coppetti (Nicole Grimaudo), apprezzata cuoca con un suo ristorante, nasconde a tutti di essere sesso-dipendente, ed è in seria difficoltà per  l’attrazione con Daniele di Giulio, (Daniele Liotti), uno dei professori, affetto da ludopatia.  Serena Serafini (Sabrina Impacciatore) è sposata a un uomo ricchissimo ed ha la puzza sotto il naso finché la scomparsa del consorte che la molla senza dirle nulla per fuggire ad accuse varie, le fa scoprire la vita da una nuova prospettiva, e l’amore con il conducente di autobus, Gigi Ferone (Paolo Calabresi), padre di Savino (Andrea Carpenzano) che è il fidanzato che lei inizialmente disapprova di sua figlia  Lucrezia (Carlotta Antonelli).

Ogni puntata si apre con Mistico che alla radio invita un ascoltatore a tornare indietro nel tempo con la memoria ad una data che vorrebbe rivivere; dell’anno scelto racconta gli eventi essenziali lanciando una canzone significativa di quel momento. E loro, da “immaturi”, quel viaggio possono farlo concretamente nell’opportunità unica di rivivere le esperienze di quell’età della vita che segna l’inizio dell’età adulta, con ancora illusioni sul futuro e sogni da realizzare. Si sa in partenza dove si arriverà, con una seconda possibilità per i protagonisti di ripercorrere le proprie scelte. È un’allegoria, in fondo, che rilette sui rimpianti che si hanno e sulle cose che si farebbero in modo diverso col senno di poi. E acutamente si vedono i personaggi allo stesso tempo adulti,  ma ancora inevitabilmente non per forza più saggi. Se non si è scoperto prima chi si è e che cosa si vuole dalla vita, è il momento di farlo ora.  

Una solida interpretazione da parte di tutti (con forse il solo Kessisoglu un po’ più debole degli altri, ma nemmeno troppo) e una sceneggiatura vagamente favolistica piena di humor e leggerezza, ma con un ritmo serrato, hanno confezionato una prima stagione che ha funzionato d’incanto. C’è molto di inverosimile e ci sono tanti stereotipi, ma poco importa. Tutti sono stati ben caratterizzati nelle loro motivazioni e sono risultati autenticamente simpatici a modo loro. Nel corso delle 8 puntate della prima stagione si è volentieri sospesa l’incredulità per farsi trasportare in una Roma dove si può sognare una seconda occasione. Ce l’avrà anche la serie, che è già stata confermata per una benvenuta seconda stagione.