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mercoledì 20 marzo 2019

BARRY: un killer vuole diventare attore


Fin dalla primissima scena capiamo che cos’è Barry: Barry è un assassino. Lo vediamo in una stanza d’albergo, che esce dal bagno con sul letto la sua ultima vittima, un foro di proiettile in mezzo alla fronte. Prende un aereo e torna a casa. E arriva Fuchs (Stephen Root), un po’ come un “agente”, con il suo nuovo bersaglio. Però, come scopiamo presto, Barry è un veterano di guerra e che scelto questa professione, fra virgolette, in attesa di scoprire quale fosse il suo vero scopo nella vita. E ci si imbatte per caso. La sua prossima vittima è un aspirante attore che segue un corso condotto dall’esigente Cousineau (Henry Winkler, il Fonzie di Happy Days). E Barry, fortunatamente, finisce sul palco, e non appena sperimenta il brivido dell’applauso, scopre la sua vocazione: anche lui vuole fare l’attore. Nonostante il suo mentore cerchi di dissuaderlo, perché vede un conflitto di interessi nell’essere un killer, l’entusiasmo dei compagni, Sally (Sarah Goldberg) in particolare, e un incoraggiamento dell’acting coach, fanno sì che lui non demorda e si iscriva al corso.

Parte così la serie Barry (HBO), che da una premessa esplicitamente ridicola scopre l’umanità dei personaggi, quella verità che Cousineau gli dice essere l’essenza della vocazione attoriale. Recitare significa essere umani gli ribadisce Sally (1.02), quando lo invita a tirare fuori le proprie emozioni per la perdita del loro compagno di corso, incoraggiati ad usare il proprio dolore in maniera costruttiva ai fini della recitazione – e ci si scompiscia allo steso tempo per lo cinismo del maestro che ha sì passione per l’argomento, ma non dimentica il lato economico della questione. Il compito dell’attore (1.03) è creare una realtà e lasciare che il pubblico la viva. In molte modalità, anche attraverso i titoli delle puntate che sono in se stesse lezioni di recitazione in pillole, ci viene insegnato che recitare è emozione cruda, spietata, da cui non hai scampo, perché tale è la vita, e quando c’è questa sintonia con la realtà si riesce a creare arte. Allo stesso tempo la finzione è leggera e liberatoria, per Barry è “a momentary stay against confusion – una momentanea pausa che si oppone al caos” per usare le parole di Frost, e in questo è taumaturgica. E quello che nel quotidiano viene soffocato, ha una valvola di sfogo sulla scena.

Quell’iniziale senso dell’assurdo la serie non lo perde mai, con scenette di slapstick comedy, alla Una Pallottola Spuntata volendo: come quando Fuchs viene aggredito e picchiato e sequestrato, mentre urla disperato, e tutto avviene sullo sfondo di un ignaro Barry che parla al telefono come se nulla fosse (1.02); con situazioni come la moglie che interrompe le torture del marito malvivente lamentandosi che fa troppo rumore, che la figlia ha a casa gli amici per un pigiama party, in quella che sembra una stoccata parodistica alla doppia anima di malavitoso-padre di famiglia de I Soprano; come con il messaggio via sms con le indicazioni sul prossimo bersaglio da ammazzare e la richiesta di cancellarlo poi, per piacere – il per piacere è un di tocco di sublime ilarità. Un momento la serie è assurde risate, il momento dopo è dramma, e l’apice di questo si verifica quando Barry ammazza un suo vecchio amico perché ha scoperto la verità e non è in grado di serbare il segreto (1.07) e sul palco bisogna mettere in scena il Macbeth, dove lui ha solo una battuta; e qui si è feroci, disperati, abrasivi. La serie cambia di tono in modo repentino senza perdere un colpo e riesce anche a mescolare tragico e comico senza che diventi necessariamente tragicomico, ma tenendo i due canali attigui e separati. 

C’è molta satira e c’è una certa serendipità nel viaggio umano del protagonista, mostrando come ci sia una certa dose di casualità nella nostra ricerca di un senso. Ed è una parabola della difficoltà di scappare dal proprio passato e dalle trappole che ci risucchiano verso quello che siamo sempre stati. Tutti nella vita cerchiamo le stesse cose, ci dice il protagonista in un momento disperato, ovvero essere felici e amare. E per raggiungere questi obiettivi Barry inevitabilmente e immancabilmente compie atti che lo allontanano da quell’obiettivo. Sembrano le sabbie mobili del proprio passato.

Le prove attoriali sono davvero spettacolose. Bill Hader, co-autore insieme ad Alec Berg (Silicon Valley, Curb your Enthusiasm, Seinfeld) , davvero mozza il fiato nel mostrare l’agonia e la vulnerabilità del suo personaggio, perché davvero non importa quanto surreale possa diventare la situazione, non molla mai la presa dalla verità emozionale del suo alter ego. Si sviluppa empatia per Barry, mentre si è contemporaneamente ripugnati da quello che fa.  E si ride.

La seconda stagione della serie debutta negli USA il 31 marzo. 


venerdì 11 gennaio 2019

THE KOMINSKY METHOD: la vecchiaia secondo Lorre


The Kominsky Method (su Netflix) è la prova, se mai ce ne fosse bisogno, che il suo autore, Chuck Lorre (qui il mio post a proposito del profilo del New Yorker su di lui nel 2011), non è diventato famoso a caso, nonostante la critica snobbi regolarmente programmi formalmente molto tradizionali come Two and a Half Men e The Big Bang Theory a cui il suo nome è associato.

Qui, Lorre sa essere esilarante, profondo e attuale affrontando un momento della vita ancora troppo tabù in televisione: la vecchiaia.

Sandy Kominsky (Michael Douglas, ultrasettantenne) è un attore ormai anziano, con problemi di prostata, che ha avuto solo un fuggevole successo calcando le scene, ma che ha un suo apprezzato studio di recitazione. Tre volte divorziato e con una figlia adulta, Mindy (Sarah Baker), che lo aiuta nel lavoro, sviluppa un interesse sentimentale per una sua allieva, Lisa (Nancy Travis), una donna ormai matura. Il suo migliore amico è il suo agente, Norman Newlander (Alan Arkin, ultraottantenne), che rimane presto vedovo della moglie di una vita, Eileen (Susan Sullivan), e ha un rapporto difficile con la figlia Phoebe (Lisa Edelstein, House, The Good Doctor), che ha problemi di lunga data di dipendenza da sostanze. I due uomini si sostengono vicendevolmente, incontrandosi spesso anche solo per un drink da Musso & Frank, dove vengono serviti regolarmente da un cameriere che sta a mala pena in piedi lui stesso.

Molta della serie - che dicono faccia trasparire una subcultura di Los Angeles, elemento che io non sarei in grado di valutare da sola - poggia sull’amicizia fra i due uomini: è  una sorta di aggiornata e meno brontolona “Strana Coppia” di Neil Simon, come ha notato più di qualcuno, con la conoscenza delle reciproche idiosincrasie e anche la capacità di manipolarsi perché ci si frequenta da sempre: imperdibile il loro ping-pong sul un enorme prestito in danaro di Norman che è un favore senza condizioni, di pura generosità, dove entrambi leggono bene quel “senza condizioni” come la condizione più onerosa di tutte, insopportabile. Scene impagabili davvero. Una colonna portante è anche quella sugli acciacchi dell’età, con un misto di irrisione e di cum-patio: scatologia mista ad empatia. Si ride di e con i personaggi, ma ci si lascia prendere anche dalla melanconia della perdita: della propria prestanza fisica, delle proprie occasioni, del tempo che si ha davanti, delle persone amate… lutti che sono anche lo spettro di altri a venire.

La constatazione finale è che si ha paura, che è normale avene perché il mondo la fuori fa paura, ma si supera perché non siamo soli, ma presenti nell’amicizia l’uno per l’altro. “Io ti vedo. Tu mi vedi?” chiede Sandy a Nathan a pochi minuti dalla fine dell’ultima puntata. Esserci. Questo, rivela in segreto, è il metodo Kominksy. Sandy è anche una versione più gentile e moderata (e per qualche critico meno riuscita) di Cousineau, l‘equivalente personaggio portato sulla scena da Henry Winkler in Barry. Come acting coach, il protagonista vede l’attore come creatore, la recitazione come un’estensione della vita, ma alla fine come persona che rivela se stessa nella propria intimità e vulnerabilità. Si riconoscono le debolezze e si affrontano.

Tante sono le guest star che interpretano se stesse (come Elliott Gould, Patti LaBelle o Jay Leno) o un personaggio, come Danny DeVito, nel ruolo di un urologo che sottopone Sandy ad un esame rettale: c’è chi ha visto con sfavore una simile scena, come esempio di una comicità crassa. Io al contrario ci vedo proprio quell’autoironia necessaria per non vivere con svilimento certe realtà dell’invecchiamento, bello perché vero e vagamente imbarazzante, esempio concreto del metodo del titolo.

Potrebbe chiudersi qui, con una sola stagione, questa serie, ma io mi auguro continui.