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mercoledì 10 luglio 2024

EXPATS: l'effetto delle tragedie

Nonostante sia una scelta ragionevolmente basata sul nome del libro di Janice Y. K. Lee da cui è tratta, ovvero The Expatriates (2016), in italiano diventato “Expats - La vita delle altre”, Expats, la miniserie in sei puntate ideata da Lulu Wang per Prime ha per me un titolo completamente sbagliato, perché fuorviante. Che si tratti di espatriati che vivono a Hong Kong è incidentale, non è quello il fulcro delle vicende, ma il tema principale, come senza mezzi termini dichiarano in apertura, è come facciano a sopravvivere quelle persone che involontariamente hanno causato delle tragedie, come fanno a perdonarsi e a farsi perdonare e a mettersi il passato alle spalle, come gestiscono la responsabilità di quanto è accaduto, come continuano con il senso di colpa e con il desiderio di una vita alternativa, e quando si meritino la compassione. Il punto focale è l’effetto che le tragedie hanno sulla vita delle persone, e sottolineo tragedie, perché non c’è un momento di leggerezza che sia uno in questa produzione emozionalmente molto carica.

Siamo a Hong Kong, sullo sfondo di proteste che si sono verificate nel 2014, e le tre protagoniste principali sono Margaret Woo (Nicole Kidman), ora casalinga che ha lasciato temporaneamente il lavoro per seguire il marito Clarke (Brian Tee) all’estero, che ha tre figli; Hilary Starr (Sarayu Blue), una donna di origina indiana che è la migliore amica di Margaret e che ha il matrimonio con David (Jack Huston) in crisi, incerta se avere un figlio o meno, e che considera un’amica la sua donna delle pulizie, Puri (Amelyn Pardenilla); e Mercy Cho (Ji-young Yoo), una giovane coreano-americana neolaureata alla Columbia University, che è convinta che la sua vita sia maledetta, dal momento che glielo ripetono da quando è nata. Margaret, stizzita e un po’ gelosa del rapporto che Essie (Ruby Ruiz), la tata filippina dei suoi figli, ha con loro, decide di non portarsela dietro quando esce per fare un giro al mercato serale della città, ma coinvolge invece Mercy, che ha da poco conosciuto, e le affida il più piccolo dei suoi figli, Gus, che vuole vedere una bancarella un po’ più distante. Mercy per distrazione perde di vista per un momento il piccolo che scompare nel nulla. Segue la frenetica ricerca, vana, e a seguire la disperazione più totale di tutti i coinvolti. Mercy, anche, comincia una relazione con David.

La miniserie riesce a brillare lì dove mette il dito nella piaga di ciascuna delle tre donne protagoniste: l’agonia della madre che ha perso un figlio e diventa ossessionata dall’obiettivo di ritrovarlo, a scapito di tutto il resto, degli altri figli ad esempio, tormentata dal senso di colpa e nella speranza che sia ancora vivo ma contemporaneamente anche timorosa del sollievo che potrebbe essere saperlo morto rispetto alle possibili alternative; i rapporti conflittuali di Hilary con i genitori: con la madre rimane bloccata in un ascensore ed è l’occasione per un feroce scambio di prospettive, con la figlia che ha visto negli anni gli abusi del padre e che non vuole un matrimonio in cui deve accettare le amanti del marito; la deriva di Mercy, abbandonata a sè stessa, nonostante una madre che si offre di aiutarla, divorata dal senso di colpa e allo sbando su quello che è meglio fare, con un passato che torna sempre a galla. Sentimenti crudi, spogliati di ogni finzione.

Sono notevoli anche gli aspetti in cui si riflette sulle classi, il denaro e il privilegio che queste donne danno per scontato, in cui si vede il loro egocentrismo: con nonchalance usano le persone al loro servizio nell’illusione che siano amiche, persone di famiglia. Lascia perfino a disagio. Durante i 90 minuti di “Central” (1.05), una puntata più lunga delle altre, ad essere al centro della narrazione sono proprio queste ultime, durante un tifone. Vediamo così che Essie, che videochiama il figlio nelle Filippine, vorrebbe raggiungerlo e finalmente smetterla di occuparsi dei figli degli altri, per dedicarsi al nipotino e, anche se non visto, è anche suo il dolore per la perdita di Gus, considerato tutto il tempo che gli dedicava; e vediamo Puri che scambia gossip con altre amiche sulle persone per cui lavora: Hilary la vede come un sostegno e incoraggia i suoi sogni di partecipare a una competizione canora, passando una serata insieme a sorseggiare del vino e a provare vestiti, ma sul dunque se ne dimentica. È chiaro come non sono nulla di più di staff domestico retribuito, a dispetto di qualunque dichiarazione in direzione diversa. Personalmente penso che sia anche normale, perché non è facile trovarsi dislocati in un Paese straniero, molto distante dal proprio, e aspettarsi che un espatriato possa intenderne facilmente le dinamiche socio-politiche o culturali anche sforzandosi, che voglia farlo preso dalla propria vita e che possa considerare qualcuno che ha assunto da poco tempo come una persona effettivamente significativa da un punto di vista emotivo. Troverei strano l’opposto. Quello su cui si fa luce è la mancata consapevolezza della realtà. Alla fine dei conti le protagoniste ignorano quello che non le riguarda e il contesto in cui si svolge, e non se ne rendono nemmeno conto, e forse in questo aspetto il titolo riesce ad avere un senso. In ogni caso questa produzione che medita sul privilegio, anche di fatto di potersi permettere l’inconsapevolezza, è pure stata oggetto di polemiche su questo fronte, accusata di essere sorda alla difficile situazione politica del Paese e di aver ricevuto dei permessi speciali per girare durante il lockdown per il COVID, evitando così restrizioni imposte ad altri.  

Nonostante momenti di grande forza, e una recitazione impeccabile da parte di tutte, piena di sottigliezze e contraddizioni, è nella coesione fra le varie parti che la narrazione è debole e non convince, e nonostante sia viscerale nel portare alla luce con onestà e credibilità tormenti e disillusioni, il tono greve alla fine risulta anche tedioso.  

mercoledì 20 marzo 2019

BARRY: un killer vuole diventare attore


Fin dalla primissima scena capiamo che cos’è Barry: Barry è un assassino. Lo vediamo in una stanza d’albergo, che esce dal bagno con sul letto la sua ultima vittima, un foro di proiettile in mezzo alla fronte. Prende un aereo e torna a casa. E arriva Fuchs (Stephen Root), un po’ come un “agente”, con il suo nuovo bersaglio. Però, come scopiamo presto, Barry è un veterano di guerra e che scelto questa professione, fra virgolette, in attesa di scoprire quale fosse il suo vero scopo nella vita. E ci si imbatte per caso. La sua prossima vittima è un aspirante attore che segue un corso condotto dall’esigente Cousineau (Henry Winkler, il Fonzie di Happy Days). E Barry, fortunatamente, finisce sul palco, e non appena sperimenta il brivido dell’applauso, scopre la sua vocazione: anche lui vuole fare l’attore. Nonostante il suo mentore cerchi di dissuaderlo, perché vede un conflitto di interessi nell’essere un killer, l’entusiasmo dei compagni, Sally (Sarah Goldberg) in particolare, e un incoraggiamento dell’acting coach, fanno sì che lui non demorda e si iscriva al corso.

Parte così la serie Barry (HBO), che da una premessa esplicitamente ridicola scopre l’umanità dei personaggi, quella verità che Cousineau gli dice essere l’essenza della vocazione attoriale. Recitare significa essere umani gli ribadisce Sally (1.02), quando lo invita a tirare fuori le proprie emozioni per la perdita del loro compagno di corso, incoraggiati ad usare il proprio dolore in maniera costruttiva ai fini della recitazione – e ci si scompiscia allo steso tempo per lo cinismo del maestro che ha sì passione per l’argomento, ma non dimentica il lato economico della questione. Il compito dell’attore (1.03) è creare una realtà e lasciare che il pubblico la viva. In molte modalità, anche attraverso i titoli delle puntate che sono in se stesse lezioni di recitazione in pillole, ci viene insegnato che recitare è emozione cruda, spietata, da cui non hai scampo, perché tale è la vita, e quando c’è questa sintonia con la realtà si riesce a creare arte. Allo stesso tempo la finzione è leggera e liberatoria, per Barry è “a momentary stay against confusion – una momentanea pausa che si oppone al caos” per usare le parole di Frost, e in questo è taumaturgica. E quello che nel quotidiano viene soffocato, ha una valvola di sfogo sulla scena.

Quell’iniziale senso dell’assurdo la serie non lo perde mai, con scenette di slapstick comedy, alla Una Pallottola Spuntata volendo: come quando Fuchs viene aggredito e picchiato e sequestrato, mentre urla disperato, e tutto avviene sullo sfondo di un ignaro Barry che parla al telefono come se nulla fosse (1.02); con situazioni come la moglie che interrompe le torture del marito malvivente lamentandosi che fa troppo rumore, che la figlia ha a casa gli amici per un pigiama party, in quella che sembra una stoccata parodistica alla doppia anima di malavitoso-padre di famiglia de I Soprano; come con il messaggio via sms con le indicazioni sul prossimo bersaglio da ammazzare e la richiesta di cancellarlo poi, per piacere – il per piacere è un di tocco di sublime ilarità. Un momento la serie è assurde risate, il momento dopo è dramma, e l’apice di questo si verifica quando Barry ammazza un suo vecchio amico perché ha scoperto la verità e non è in grado di serbare il segreto (1.07) e sul palco bisogna mettere in scena il Macbeth, dove lui ha solo una battuta; e qui si è feroci, disperati, abrasivi. La serie cambia di tono in modo repentino senza perdere un colpo e riesce anche a mescolare tragico e comico senza che diventi necessariamente tragicomico, ma tenendo i due canali attigui e separati. 

C’è molta satira e c’è una certa serendipità nel viaggio umano del protagonista, mostrando come ci sia una certa dose di casualità nella nostra ricerca di un senso. Ed è una parabola della difficoltà di scappare dal proprio passato e dalle trappole che ci risucchiano verso quello che siamo sempre stati. Tutti nella vita cerchiamo le stesse cose, ci dice il protagonista in un momento disperato, ovvero essere felici e amare. E per raggiungere questi obiettivi Barry inevitabilmente e immancabilmente compie atti che lo allontanano da quell’obiettivo. Sembrano le sabbie mobili del proprio passato.

Le prove attoriali sono davvero spettacolose. Bill Hader, co-autore insieme ad Alec Berg (Silicon Valley, Curb your Enthusiasm, Seinfeld) , davvero mozza il fiato nel mostrare l’agonia e la vulnerabilità del suo personaggio, perché davvero non importa quanto surreale possa diventare la situazione, non molla mai la presa dalla verità emozionale del suo alter ego. Si sviluppa empatia per Barry, mentre si è contemporaneamente ripugnati da quello che fa.  E si ride.

La seconda stagione della serie debutta negli USA il 31 marzo.