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venerdì 2 aprile 2021

DAS LETZTE WORT: un "Six Feet Under" tedesco

È tanto banale quanto azzeccato definire Das Letzte Wort – The Last Word (L’ultima Parola) su Netflix, come il Six Feet Under tedesco.

Karla Fazius (Anke Engelke) rimane improvvisamente vedova il giorno del suo venticinquesimo anniversario di matrimonio con il marito Stephan (Johannes Zeiler), che amava molto, colpito da un aneurisma. È uno shock per tutta la famiglia, in particolare per l’adolescente Tonio (Juri Winkler), che lo aveva insultato l’ultima volta che lo aveva visto, e che cerca supporto psicologico per affrontare quanto avvenuto, ma anche per la figlia Judith (Nina Gummich), una fotografa, che per l’occasione torna a Berlino. Karla riceve una serie di scosse biografiche, perché appunto deve riaversi da una perdita tanto improvvisa quanto dolorosa, ma anche perché scopre presto che il marito, un dentista, aveva in realtà lasciato il lavoro per dedicarsi all’attività artistica in un suo studio e glielo aveva sempre tenuto nascosto e lei ora, se non è proprio in bolletta, ha necessità di lavorare; in più, la madre Mina (Gudrun Ritter) è stata cacciata dalla casa di riposo per il suo comportamento ribelle e ora vive con loro. Dopo il funerale decide di prendersi una licenza come elogista funebre, e inizia a lavorare per Andreas Borowski (Thorsten Merten, anche ideatore della serie), direttore di un’agenzia di pompe funebri a gestione familiare, in crisi. Il figlio ventiduenne, Ronnie (Aaron Hilmer) già lavora nel preparare i cadaveri, e il padre vorrebbe idealmente lasciargli in eredità l’attività, ma la moglie Frauke (Claudia Gesler-Bading) preferirebbe liberarsene.

Curiosamente, la colonna sonora usa molto le canzoni dell’italiano Paolo Conte, ma è la pimpante “I’m Gonna Live Till I Die” cantata da Frank Sinatra a fare da sigla, in una celebrazione di vita, mentre le immagini, in un buon montaggio, ci mostrano varie bare in un crematorio e una che si avvia all’inceneritore. Ci allerta del fatto che la serie non sarà un mortorio, perdonate il gioco di parole, ma accanto a temi tanto grevi c’è energia e vitalità, e anche umorismo.

C’è l’utilizzo del realismo magico, un po’ come accadeva proprio nel celebrato Six Feet Under, nei momenti in cui Karla parla con il marito defunto che vede e dialoga con cui come se fosse presente qui e ora. Per lei è un modo di elaborare il lutto. Questo tema non è estraneo al piccolo schermo – facilmente vengono in mente titoli come After Life o Sorry For Your Loss. Qui avviene nel confronto costante con quello di molte altre persone. Per Karla infatti un modo di comprendere e superare quello che è capitato è proprio lo svolgere la professione di oratrice funebre, che io nemmeno avevo idea esistesse, quando deve cercare le ultime parole con cui onorare una vita di una persona e dirle addio. La serie stessa, nella sesta e ultima puntata della prima stagione, più breve e frettolosa delle altre, e che volendo potrebbe con soddisfazione fungere da chiusura definitiva, cerca di lasciare noi con delle parole finali che possano dare sollievo, conforto, senso.

Che cos’è la morte? Una fine, un inizio, una porta? (1.04) La vita che abbiamo vissuto è stata la migliore che avremmo potuto vivere? Siamo stati veramente felici? (1.01) Quanto tempo ci vuole per conoscere veramente qualcuno (1.02)? Qual è il modo migliore per onorare la memoria di qualcuno? Si medita sul senso della morte, ma soprattutto per i vivi, per chi rimane. E l’idea ultima è che non c’è un modo giusto, o sbagliato, per portare un lutto. Tonio ad un certo punto (1.04) dice che si sente come “un divo in una zona di guerra che non deve sapere che c’è la guerra”. Die Trauerrede, l’elogio funebre, deve rendere giustizia al defunto, ma come celebrare la vita di un giovane uomo morto per incidente, che aveva comportamenti crudeli da serial killer in erba fin da bambino, e che è più facile amare da morto che da vivo (1.05)? Che funerale dare a una madre che ti ha sempre vessata e, nelle parole poco consone della protagonista che non ha peli sulla lingua, si è comportata da autentica stronza? Un funerale è per i vivi: chi ha più diritto di dire la propria sul modo in cui è più giusto salutare la persona amata?

Non tutto è perfetto – la moglie di Borowski e la nonna sono state troppo macchiette – ma Das Letzte Wort ha ragionato con spessore, ma anche con la giusta leggerezza, su temi difficili costruendo solidi personaggi e credibili rapporti fra loro. Ancora non c’è voce di una seconda stagione, ma mi auguro davvero che Netflix voglia aspettare ancora qualche stagione prima di fare il funerale alla serie. 

venerdì 22 gennaio 2021

DEAD STILL: un giallo umoristico


È un giallo a tinte gotiche con un ritmo molto rilassato e venato di sottile umorismo la produzione irlandese-canadese (Acorn TV, CityTV) Dead Still, che ha come protagonista un fotografo di Dublino del 1880 specializzato nella ritrattistica dei defunti – è risaputo che all’epoca era consuetudine fotografare i morti per avere un ultimo ricordo del caro estinto. Se in inglese “dead still” può significare “immobile come un morto”, qui ha proprio il senso di “fotogramma del defunto”.

Brock Biennerhasset (Michael Smiley, Luther), azzoppato accidentalmente dal fidato cocchiere Cecil (Jimmy Smnallhorne) che gli fa cadere l’attrezzatura su un piede, è il fotografo commemorativo di cui sopra, ex-becchino, molto preciso e un po’ burbero. Un giovane scavafosse con la passione per il disegno a matita, Conall Malloy (Kerr Logan), lo considera un vero pioniere della sua professione e riesce a farsi assumente come assistente. Ad affiancarlo c’è anche Nancy (Eileen O’Higgins), aspirante attrice, la giovane nipote figlia della sorella. In città, mascherati da apparenti suicidi, cominciano a verificarsi una serie di omicidi, che vengono poi immortalati su pellicola. L’investigatore della polizia locale, Regan  (Aidan O’Hare), vorrebbe coinvolgere Brock nell’investigazione, ma lui è riluttante, sebbene finisca  per essere molto più coinvolto negli eventi di quanto non sembrerebbe di primo acchito.

Le sei puntate della prima stagione  scivolano via con leggerezza, con una trama verticale di usuali storie di case apparentemente infestate da fantasmi, sedute spiritiche, rapimenti e qualche foto hard, e l’effettivo lavoro di far sembrare vitali corpi ormai in rigor mortis, e la trama orizzontale degli omicidi che coinvolgono i protagonisti in un crescendo. Ci si avvale del repertorio classico di questo genere di narrazioni: figure in parte in ombra, immagini evanescenti, personaggi ultraseri, figure che puntano il dito verso il nulla, arcani segreti… ma si è troppo ironici per essere veramente macabri, o per non dimostrare consapevolezza che si gioca con cliché abusati. Lo humor sfocia in momenti di più schietta comedy.

La scrittura di John Morton, co-ideatore insieme a Imogen Murphy che è regista di 4 delle 6 puntate, riflette sul senso della morte e sul valore dello scatto fotografico, e anche di questi tipo specifico di arte post-mortem, nel suo più esplicito valore mnemonico, ma pensata per dare conforto, per mostrare l’umanità di chi ormai è scomparso, con il senso quasi di una vocazione. “Non interrogo la tragedia” dichiara il protagonista (1.05), che cerca solo di preservare l’essenza della persone per sempre. Le fotografie sono i nostri veri fantasmi e catturano l’anima. Ci si sofferma anche sul parallelismo fra questo genere e la fotografia delle scene del crimine, e sull’etica della professione.

La puntata finale chiude l’arco senza sbavature, ma in forma di un biglietto, apre a un mistero per una  seconda stagione.  

martedì 14 maggio 2019

LOVE, SEX & ROBOTS: inconcludente


È stata in gran parte inconcludente e dimenticabile la serie antologica Love, Death & Robots, ideata da Tim Miller, e prodotta fra gli altri anche da David Fincher, con 18 corti autoconclusivi (della durata di massima dai 5 ai 20 minuti) di animazione e live action, che volevano essere una re-immaginazione di un reboot da tempo in gestazione del loro film animato Heavy Metal.

Visivamente è anche accattivante, perché stupisce per le abilità tecniche dell’animazione e perché lascia che ogni singola puntata abbia una propria identità autoriale, con stili differenti, dal disegno a mano, al rotoscopio, al disegno da videogioco. Fanno immediata simpatia i robottini di “Tre robot”, così come si riconoscono immeditamente Samira Wiley (Orange is the New Black e The Handmaid’s Tale) in “Dolci 13 anni” e Mary Elizabeth Winstead (Braindead) in "L’era glaciale"; si rimane a bocca insieme ai personaggi nel vedere un canyon animarsi dei fantasmi degli abitanti acquatici di un fondale oceanico in “La notte dei pesci”; si elicita l’estetica cinese nelle vicende di una Huli Jing, volpe a nove code tipica di quella tradizione, in “Buona caccia”. 

È narrativamente che questi corti sono deludenti, con l’eccezione del poetico e pregnante “Zima Blu”. Si può anche ammettere che hanno un racconto forte, nel senso che è compatto, al sodo, essenziale - per quanto io non sia mai stata una grande appassionata della “letteratura stitica”, per usare una definizione dello scrittore Michel Faber. Alla fine però le storie sembrano fine a se stesse, senza un perché, come la, per me inutile, insulsa “Guerra Segreta”, su un plotone dell’Armata Rossa che in Siberia dà la caccia ai demoni, o il divertissement de “il dominio dello yogurt”, dove dello yogurt modificato da alcuni scienziati diventa senziente e conquista il dominio del mondo lanciarsi poi nello spazio. Mah…Si rimane sempre come se mancasse una conclusione, qualcosa da dire che non sia già stato detto altrove meglio.

Anche il titolo appare fuorviante. Ci sono robot, ma poco amore e tante morti, ma morti numeriche, non intellettualmente o emotivamente coinvolgenti. Sono prevalentemente storie a sfondo militare, di violenza viscerale, e piene di sessismo. Sarà che sono una donna più vicina ai 50 che ai 40, ma l’idea di cartoni di intrattenimento adulto, che come concetto non mi dispiace, non è per me vedere donne squartate e qualche tetta.

Per una lettura della serie acuta e approfondita, che riecheggia la mia posizione, consiglio le notevoli osservazioni di Sara Mazzoni (qui e qui), che ha saputo argomentare con molta competenza; per una prospettiva opposta si legga invece Luca Liguori (qui) che esamina puntata per puntata quello che definisce un capolavoro di animazione, sensualità e fantascienza.

Si legge in giro che l’ordine di visione cambia per ciascuno spettatore, nel senso che l’algoritmo di Netflix li propone sulla base dei supposti gusti dell’utente. Il primo episodio per me è stato “Oltre aquila”. L’idea è accattivante, ma non posso dire che ci abbiano azzeccato granché, per quel che mi riguarda. 

mercoledì 31 ottobre 2018

SORRY FOR YOUR LOSS: una serie sul lutto

È stata costruita con sensibilità e acume la serie Sorry for you loss, trasmessa su Facebook Watch (canale televisivo di Facebook: qui il link per vederla), per una prima stagione di 10 puntate che ha raccolto eccellenti recensioni. Gli argomenti principali sono il lutto, la depressione e il suicidio, per cui evidentemente non si tratta di tematiche allegre. Il registro è drammatico, ma non da svenamento, il tocco non è esattamente leggero, ma non è nemmeno tale da provocare acuto dolore nello spettatore.

Leigh Shaw (Elizabeth Olsen) è recentemente rimasta vedova, si è presa un’aspettativa dal lavoro di giornalista di una rubrica di consigli per il sito web Basically News e si è trasferita a vivere con la madre Amy (Janet McTeer), che gestisce una sua palestra, la Beautiful Beast, e la sorella Jules (Kelly Marie Tran), ex alcolista che lavora come insegnante di fitness presso la madre. Leigh, fresca del lutto - il titolo è l’equivalente italiano di “spiacenti della tua perdita” e la sigla di fissa su questa scritta fra una serie di messaggi di condoglianze che appaiono e scompaiono dallo schermo – rivive nei ricordi il marito Matt (Mamoudou Athie), un insegnante di inglese con ambizioni da fumettista che soffriva di seri problemi di depressione, e cerca di superare il lutto, grazie anche alla presenza del fratello di lui, Danny (Jovan Adepo), con cui però ha un rapporto conflittuale. Rimane il dubbio: la morte di Matt è stata incidente o suicidio?

Ideata da Kit Steinkellner, la serie tocca un tema caldo del momento nel panorama televisivo, quello del lutto, presente in forme diverse, ma in qualche caso unito ai temi della depressione e del suicidio come qui. Possiamo pensare a titoli come The First, A Million Little Things, Kidding, The Haunting of Hill HouseThis is us

Gli aspetti affrontati sono molti: di chi è e a chi appartiene il lutto, che non è l’esclusiva di una sola persona, la presenza o l’assenza degli altri come testimoni della propria sofferenza, l’effetto sugli altri e la reazione e le aspettative altrui al proprio dolore, il senso e la risposta alle condoglianze, i tempi necessari a superare una perdita, il comparare il dolore (“tu puoi avere un altro marito, io non posso avere un altro fratello” – 1.01), il che cosa sia di conforto, lo sforzo personale per superare la sofferenza, il significato degli oggetti legati ai ricordi, la consapevolezza che molto delle persone non si conosce, i piccoli dettagli,  le reazioni emotive inaspettate, come ci comportiamo con chi ci è vicino in momenti in cui siamo fortemente provati e vulnerabili, la ricerca di senso, il desiderio di rendere onore alla persona venuta a mancare, la felicità e le aspettative realistiche dalle relazioni, le cicatrici…

La protagonista, coraggiosamente da parte della narrazione, non è solo triste, ma è un groviglio di emozioni, ed è intrattabile, a lungo, prende male tutto quello che le dicono. Il riportare alla memoria è centrale: talvolta è un ricordo cosciente, a volte compiuto, altre volte volatile, in qualche caso è a cascata – un pettitino trovato in un cassetto innesca il ricordo delle nozze, poi del funerale (1.08) – o frammentario e fuggevole – Leigh non ricorda la battuta che Matt le ha raccontato quando si sono conosciuti a un party, che poi finalmente le sovviene (1.10).

Il parlare, o il non farlo, è una colonna importante di riflessione. In un gruppo di auto-aiuto la vedova condivide le proprie emozioni, ma nella vita reale spesso preferisce tecere, mentire o comunque non dire della morte del proprio marito. A chi dirlo? Quando dirlo? Si dice o non si dice per se stessi o per gli altri? “Qualche volta l’atto più generoso è tenersi le cose per sé” (1.07) viene detto ad un certo punto (con echi trasversali rispetto alle storyline della puntata). Se non dirlo alla donna che ora vive felice nella casa che tu abitavi con lui può avere senso (1.09), non rivelarlo all’uomo con cui fai l’amore e che vorrebbe una storia con te sembra irrispettoso (1.10). Si ha occasione di meditare a lungo su questi aspetti visto che la ritrosia verbale è reiterata.

“Se il dolore finisce, lui è andato” (1.10). È una serie dolorosa, sul dolore. Il senso è che la morte non è la fine del mondo, ma è la fine di un mondo, è imparare a vivere di nuovo con il dolore, a sopravvivere, a superarlo (1.01), mantenendo intatto il legame con la persona persa. È anche addentrarsi, come nelle favole si entra nella foresta, nel luogo che in assoluto fa più paura, per scoprire chi si è (1.10). Anche come spettatori.    

giovedì 2 luglio 2015

PROOF: c'è vita dopo la morte?


C’è vita dopo la morte? È quello che si domanda  la serie intitolata Proof.

La dottoressa Caroline Tyler (Jennifer Beals, Flashdance, The L Word) è una brillante chirurga cardiotoracica, un po’ piena di sé, che è quasi morta per affogamento a causa di uno tsunami,  e che sul fronte personale è separata da un collega, il dottor Len Barliss (David Sutcliffe), dal quale ha avuto due figli. Il maschio, Will, è morto in un incidente, la femmina, Sophie (Annie Thurman)  è un’adolescente un po’ ribelle con il complesso della “figlia sopravvissuta”. Il suo capo, il dottor Oliver Stanton (Joe Morton), le chiede di incontrare un multimilionario a cui rimangono pochi mesi di vita per via di un cancro in stadio avanzato, Ivan Turing (Matthew Modine, in un ruolo che non può non far venir mente Steve Jobs, tanto più considerato il cognome al suo personaggio, che non può non far ripensare ad Alan Turing alla cui morte si dice sia collegato il logo della Apple).

Costui le propone di cercare per lui, in modo scientifico, una prova (la proof del titolo) se esista qualcosa dopo la morte. In cambio le lascerebbe poi tutto il suo patrimonio. Caroline all’inizio rifiuta, poi accetta, chiedendogli donazioni a favore della cause a cui tiene, e la possibilità di svolgere la ricerca parallelamente al suo lavoro, insieme ad un giovane assistente originario del Kenya, il dottor Zedan “Zed” Badawi (Edi Gathegi) e a una protetta di lui, con due dottorati, Janel Ramsey (Caroline Rose Kaplan). Eco perciò che segue casi di esperienze ai confini della morte, presunte reincarnazioni, fantasmi e affini. É scettica – e cerca di tenere a distanza un popolare sensitivo autore di best-seller sull’argomento, Peter Van Owen  (Callum Blue) - ma vuole seguire un metodo scientifico per capire la questione.

Ideata da Rob Bragin, la serie, come principio un misto fra Medium e House, non è completamente da buttare, c’è sicuramente ben di peggio, ma è scritta in modo molto banale e prevedibile, con personaggi stereotipati e dialoghi piatti. La recitazione in compenso è sicuramente solida. Quello che intriga è l’argomento che affronta, tanto affascinante, quanto difficile. Peccato che dalla premessa non sembra ci sia la stoffa per renderla una vera ponderazione sull’argomento. 

martedì 18 novembre 2014

Muore a 77 anni GLEN A. LARSON

Il mondo della TV piange la scomparsa di un autore molto prolifico, Glen A. Larson. A lui si ascrivono popolarissime serie come l’originale Battlestar Galactica, Quincy, Buck Rogers, Magnum P.I., Supercar, Simon and Simon, Operazione: pericolo!, L’uomo da sei milioni di dollari, Caccia al ladro, Il Virginiano, McCloud, Manimal, Automan, Trauma Center, Masquerade, Cover Up, Il Fuggitivo e molte altre ancora. È morto di cancro lo scorso 14 novembre a 77 anni.

martedì 1 aprile 2014

THE GOOD WIFE (5.15): la lettera di Robert e Michelle King

 
ATTENZIONE SPOILER. La puntata “Dramatics, Your Honor” (1.15) di The Good Wife ha presentato uno shoccante colpo di scena (che non nomino), in una stagione davvero spettacolare. Robert e Michelle King hanno scritto una lettera ai fan in proposito. Ne trovate l’immagine sotto e qui di seguito la traduzione fatta da me: penso regali anche molti spunti per capire meglio la serie e come viene costruita.   
 
Cari leali fan di The Good Wife,
Noi, come voi, siamo in lutto per la perdita di Will Gardner. E mentre Will se ne è andato, il nostro amato Josh Charles è vivissimo e rimane una parte integrante della nostra famiglia.
The Good Wife, nella sua essenza, è “L’Educazione di Alicia Florrick”. Per noi, c’è sempre stata una tragedia al centro della relazione fra Will e Alicia: la tragedia del cattivo tempismo. E quando siamo stati messi di fronte al pugno nello stomaco della decisione di Josh, di passar oltre ad altre imprese creative, abbiano avuto una grande scelta da fare.
Potevamo “spedirlo a Seattle”, poteva venir espulso dall’albo, o sposarsi, o partire per il Borneo per fare opere buone. Ma c’era qualcosa nella passione che Alicia e Will condividevano che rendeva la distanza una difficoltà insufficiente. La brutale onestà e la realtà della morte esprime la verità e tragedia del cattivo tempismo per questi due personaggi. La morte di Will spinge Alicia verso la sua più nuova incarnazione.
La morte ha anche creato un nuovo “fulcro” drammatico per il programma. Siamo sempre in cerca di questi punti di svolta, qualche evento nel mezzo della stagione che faccia girare le vite di ciascuno in nuove direzioni. Questi punti di svolta permettono al programma di non scivolare in una intorpidita monotonia, e di mantenere freschi i personaggi: perché vedi come reagiscono a uno status quo completamente nuovo. La morte di Will in molti modi diventa un fulcro per l’intera serie, facendo girare violentemente tutti in nuove direzioni.  
Infine, abbiamo scelto la via tragica per mandar via Josh per ragioni personali. Tutti abbiamo fatto esperienza della morte improvvisa di qualcuno che amavamo nelle nostre vite. È terrificante come una giornata solare e perfettamente normale può improvvisamente esplodere con una tragedia. La televisione, secondo noi, non affronta questo a sufficienza: l’irreversibilità della morte. La tua ultima volta con la persona che amavi sarà sempre la tua ultima volta. The Good Wife è un programma sul comportamento umano e sull’emozione, e la morte, per quanto possa essere triste e ingiusta, è parte dell’esperienza umana che vogliamo condividere.
Grazie di ascoltare…e di guardare e che vi importa e di ispirarci a crescere al livello della vostra passione e intelligenza. Ci sono sette episodi da seguire questa stagione e Josh farà la regia di uno di essi. Pensiamo che vi piaceranno. Non ci saranno solo lacrime – c’è anche commedia. Michael J. Fox torna per quattro episodi. Dylan Backer. Dallas Roberts. Stockard Channing, così come straordinari nuovi attori ospiti. E naturalmente, Julianna fa un po’ del miglior lavoro della sua vita. E pure Archie, Christine, Alan, Chris e Matt. La vita davvero va avanti.
Abbiamo sempre preso come principio guida di questo programma che il dramma non è l’evento, è nel seguito dell’evento. Pensiamo che lo scoprirete vero nel caso di questo episodio.
Grazie per la vostra devozione al programma - siamo costantemente riconoscenti.
Con tutti i nostri ringraziamenti,
Robert e Michelle King
 
 
 

mercoledì 18 aprile 2012

Muore a 82 anni DICK CLARK


TMZ ha appena pubblicato la notizia che è morto per un attacco di cuore, all’età di 82 anni, il leggendario Dick Clark, che ha debuttato in TV nel 1956 ricevendo 5 Emmy (di cui uno alla carriera) e un Peabody Award. Fra le altre cose è stato inserito nella Hall of Fame della Academy of Television Arts and Sciences.
 I due programmi per cui è stato più noto, sono American Bandstand (1952-1989), che lui ha condotto dal 1956 fino all’ultima puntata, e lo spettacolo dell’ultimo dell’anno New Year's Rockin' Eve, in onda dal 1972, e dal 2006 condotto da Ryan Seacrest. Mi spiace se ne sia andato.

venerdì 2 marzo 2012

A SAN REMO l'ultima apparizione TV di LUCIO DALLA






È scomparso ieri in Svizzera per un infarto Lucio Dalla. Avrebbe compiuto 69 anni il 4 marzo. La sua ultima apparizione televisiva è stata la recentissima partecipazione a San Remo (sotto), dove è stato direttore d’orchestra presentando “Nanì”, insieme a Pierdavide Carone.